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Australia, che continente! / I grandi reportages

Australia, che continente! – Il cuore rosso

Le Piste del Sogno

l’ultimo avamposto della civiltà prima del nulla

In volo indosso la mia maglietta che mostra il mito aborigeno della creazione del sole, che era l’uovo di un uccello totemico, scagliato per rabbia nel cielo dall’emu. Esplose, da lì la luce. Sul cotone sono raffigurati gli stessi pallini che vedo dall’aereo quando il sogno del reef cede il passo a quello dell’outback, tutto rosso a piccole chiazze verdi – la dura pietra invasa dallo spinifex.

A tagliare l’immenso spazio sono poche strade, lunghe e infinitamente diritte. Trovare una curva credo che equivalga a trovare l’acqua nel deserto.

Distese rosse, quasi a rappresentare una terra ferita a morte, che gronda sangue. Arida, secca, tagliata dalle ferite dei fiumi che furono, bruciata impietosamente dal sole. Lunare, desertica, immensa.

Alice Springs

Ed eccomi nel posto che sognavo di visitare da almeno quindici anni. Una città in fondo abbastanza insignificante, l’ultimo avamposto della civiltà prima del nulla, descritta da Chatwin come un reticolato di strade affollate di pick up (oggi anche dai simboli del consumismo occidentale), da uomini in sahariana e da aborigeni ubriachi, quasi sempre sfatti.
Tutto vero: le strade sono ancora quelle. Le jeep, comprese le nostre tre affittate in aeroporto, sono numerosissime, e i pochi aborigeni coperti di stracci quando aprono bocca odorano di alcool, quando provano a camminare pietosamente barcollano.

Alice Springs

Osserviamo il tramonto da un’altura e non è il panorama a stupirci ma il fatto di sapere che ogni posto, anche se ai nostri occhi apparentemente insignificante, ogni piega o asperità del terreno, sia collegata ad almeno una via del canto, a una pista del sogno.
Da qui passa il sogno del cane selvatico e almeno quelli di tre bruchi diversi. I cartelli esplicativi non raccontano i dettagli del canto, ma i luoghi da esso toccati. Li guardi, non ti dicono niente, resti incantato dalla potenza illogica di un mito che una mente occidentale, neanche la più aperta, non può, non riesce a capire. Sono in preda a questi pensieri quando il sole va giù, veloce ed inesorabile, a confondere in un unico colore montagne e pietre che fan parte di quel che gli aborigeni chiamano, poeticamente, “Orme della Legge” o “Vie degli Antenati”.

Arkady, nel grande affresco (chiamarlo reportage di viaggio è limitarlo) di Chatwin dedicato all’Australia, era l’addetto alla loro mappatura, per capire cosa, della devastazione occidentale, avrebbe irreparabilmente danneggiato le tracce lasciate dalle creature totemiche scese dal cielo ed emerse dagli abissi. Da chi, nella notte dei tempi, si svegliò, percorse l’arido territorio australiano cantando come prima cosa il suo nome, poi diede, sempre cantando, il nome a tutte le cose e gli animali incontrati. Compose un canto lunghissimo, che narra la sua storia e i suoi incontri e che, ancora oggi, segretamente, viene tramandato agli appartenenti dello stesso clan.
Stanotte toccherà a me immaginare e magari sognare queste storie. Intanto sento grande ammirazione per Chatwin, uno perché interpretava alla grande il mestiere dei miei sogni riempiendo i suoi moleskine di appunti ispiratissimi sull’ “alternativa nomade”, due perché che con “Le Vie dei Canti” penetrava forse per primo e con estrema sensibilità una cultura ignota, provando a svelare allo stesso tempo la segreta armonia della Creazione.

Gli aborigeni si muovevano sulla terra con passo molto leggero; meno prendevano, meno dovevano restituirle

Una frase del libro mi ha fatto innamorare più di tutte: “Gli aborigeni si muovevano sulla terra con passo molto leggero; meno prendevano, meno dovevano restituirle”.

Dry City

“Dry city” la chiamano Alice Springs, la città asciutta. Quando compri qualunque alcolico, in un supermercato, ti chiedono il passaporto e ne registrano i dati. Spesso le sere del week end la vendita dei super alcolici è bandita, per evitare problemi, risse, ubriacature moleste, aborigeni a terra, a perdere l’ultima dignità rimasta. Per cena il gruppo si spezza e il mio una buona bottiglia la trova. A noi tocca un barbecue spaziale, con un po’ di pollo, della tagliata di manzo, una stupenda carne di canguro, pannocchie al burro indimenticabili, formaggio, bruschetta, bollicine e vino rosso: una vera goduria.

La magia dei canyon

In jeep. Mettiamo noi la musica, scegliamo noi la rotta, le soste, quando e dove viaggiare. Siamo nel punto dove centinaia di vie dei canti si incrociano e, in un certo senso, il vero viaggio inizia ora!

Con il vero viaggio on the road iniziano a svelarsi le persone del gruppo che qualunque strada africana masticherebbe in mezz’ora e, risputandone i resti, forse non ne lascerebbe neanche le ossa. “Dietro c’è troppa polvere”, “il viaggio è scomodo”, eccetera, eccetera… le moderne vie dei canti: lamentose.

Seguiamo un itinerario rodato che, a mio avviso, è abbastanza monotono. Due canyon in penombra che ancora non mostrano in pieno il rosso della loro bellezza, i wallabies, piccoli canguri nascosti tra le pietre, qualche lama di luce che svela colori rosso acceso, pozze d’acqua trasparenti, alberi dall’abbagliante fusto bianco. Ma niente di speciale dopotutto, se non la selvaggia e monotona bellezza dell’outback e il suo maestoso e assordante silenzio.

E’ la strada, tuttavia, che fa il viaggio, insieme alla compagnia. Sembra uno di quei viaggi estranianti, dove può capitarti di tutto, anche incrociare il torpedone scassato di “Priscilla, la regina del deserto” che insieme alle sue amiche drag queen lascia i gay bar di Sidney per andarsi a esibire proprio a Alice Springs. O le collegiali smarrite nel deserto e mai più ritrovate, come nel misterioso romanzo e nel film “Picnic ad Hanging Rock”

Locandine di Priscilla, la regina del deserto e Picnic ad Hanging Rock
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Infinite distese di erba gialla macchiata dai cespugli i spinifex nero. La terra e le rocce sono rosse, l’orizzonte lontanissimo, il cielo azzurro terso. Lo sguardo si perde, sono gli spazi assoluti che cerco e prediligo quando sono in viaggio. Non città, ma natura e spazi immensi. Solcati solo da camionisti australiani che sui loro grossi bestioni si mangiano 250.000 km di sterrati ogni anno, vivendo più nelle stazioni di servizio e nei loro rimorchi che a casa con la famiglia. Se ce l’hanno una famiglia.
Ci sono degli aborigeni più giovani nei villaggi lungo la strada. In uno di questi, l’unico dei dintorni con un negozietto e un supermercato dai prezzi proibitivi, compriamo un pranzo al sacco indecente e osserviamo cartelli che vietano il consumo, e addirittura il trasporto di alcool nel territorio delle comunità. Altri spiegano il ruolo della polizia, dell’importanza dei membri delle comunità nella sorveglianza contro il crimine e nella sua denuncia.
Gli aborigeni, vestiti male e riuniti in capannelli sempre tra loro, mai visti mischiati ai bianchi australiani, sono impenetrabili e la più semplice delle comunicazioni sembra impossibile. Arriviamo a Kings Canyon nel buio, schivando un paio di wallabies che, con istinto suicida, balzano nel mezzo della sede stradale, e ammirando, nonostante la stanchezza, una stellata incredibile. E ridendo, abbracciati.

Resta indimenticabile la deviazione di ventuno chilometri di strada che dire dissestata è farle un complimento, che ci porta alla valle delle palme dove è ambientato l’ultimo capitolo de “Le vie dei canti”.

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E’ un brano pieno di poesia in cui Chatwin ripercorreva in macchina, il sentiero di una via del canto, insieme a un aborigeno che la cantava. La macchina andava troppo velocemente e il cantante non riusciva a tenere il ritmo, troppo rapido, degli eventi narrati. Rallentarono, fino ad andare a passo d’uomo, permettendogli di ricordare i distici della storia dei suoi antenati totemici al ritmo più congeniale.

Le palme sorte vicino a delle pozze sono risalenti al tempo in cui l’Australia ospitava un mare interno, rocce rosse e nessuno e niente, neanche il rumore degli uccelli. Mi avvio in un trekking solitario intorno a una collina, scavalcata correndo, come respirando l’aria del giardino dell’Eden. Ottimo antipasto alla magia e, purtroppo, all’inevitabile folla di Ayers Rock.

Ottimo antipasto alla magia e, purtroppo, all’inevitabile folla di Ayers Rock

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