La Roccia che sa

Una giornata divisa in due, prima i canyons e poi l’arrivo alla roccia sacra di Uluru.
Dedichiamo la mattina a un trekking abbastanza leggero di due ore e mezza che ci porta a scoprire le meraviglie del King’s Canyon. Non appena sali una ripida scalinata intagliata nella roccia, ti ritrovi sull’orlo di un canyon dalla forma di mezzaluna di cui, con facilità, si può percorrere l’orlo.
I colori variano, a seconda della posizione del sole, dal rosso al viola. Si intravedono strati geologici, come possenti geroglifici, uccelli con la cresta e, sul fondo, le pozze e le palme viste già ieri. Panorami stupendi, umore a mille.
Guido io e durante il trasferimento verso Uluru, appena trecento chilometri – direi una trentina per i parametri dell’outback – sono inondato dai colori della natura desolata e selvaggia di queste parti: gialli, ocra, rossi, arancioni, cespugli di spinifex, rari alberi, un paio di canguri. Ci fermiamo a mangiare in una fattoria dove hanno attrezzato, all’esterno, un seggio elettorale per i pochissimi abitanti della zona.
Avvistiamo il Monte Conner, simile a Uluru. La grande tavola rossa che si visita a pagamento entrando in una enorme riserva privata per un istante ci inganna e ci si strozza l’urlo in gola. Si alza quasi nel nulla, come una mesa della Monument Valley, circondata solo dalle asprezze dell’outback e da un panorama infinito. Dall’altra parte della strada un grande lago salato, ad accecarci con il suo biancore. La terra che lo circonda è rossissima e, su di essa, risplendono piccoli fiori gialli, simili a mimose.
Dopo un’altra ora compare Uluru, Ayers Rock, il monolito al centro dell’Australia, al centro del viaggio, che vale il viaggio. Guardiamo il tramonto a Uluru, come ogni riga della Lonely Planet consiglia.

Non lo so il perché – ce lo diremo dopo in un’altra tappa del viaggio – ma la maggior parte di noi ha dedicato il pensiero principale del tramonto su Ayers Rock a qualcuno di caro che non c’è più, come se fosse più facile intercettarlo ancora una volta in questa nuda vastità, in questa terra mitica.
Con il sole che cala la grande roccia cambia colore e il suo incredibile rosso ci condiziona. Nonostante la folla, riesco ad isolarmi ma il monolito deve avere qualcosa di magnetico, di segretamente magico. Forse non è un caso che sia l’incrocio di innumerevoli Piste del Sogno. Mi tira fuori ricordi, sospiri, secche lacrime. Non solo da me, appunto, sembra essere una specie di contagio, sembra quasi che la Roccia conosca le risposte ai tuoi dubbi, così come sa dei segreti del Tempo del Sogno.
Uluru: puoi solo essere intimidito al suo cospetto. E, in quel momento, tutti i nodi vengono al pettine, chi hai perso, chi hai amato di più, chi e cosa hai desiderato e non hai raggiunto ancora. La notte riserva un sapore dolce-amaro.
Uluru!

Notte quasi insonne. In una stanzetta spartana, in un ex villaggio di aborigeni, l’unica specie di alloggio che qui, a Julara, Uluru può darti. Con il canguro alla piastra che mi ballonzola sullo stomaco insieme alla strana energia sparata dalla Roccia al tramonto.
Uluru la mattina è più benevola, iniziamo ad approcciarla all’alba di corsa, la Roccia da nera come la notte, cambia rapidamente colore, fino ad assumere le familiari tonalità rosse che vedi da giorni e da anni su ogni cartolina.
E’ esattamente quello che ti aspetti ma ti travolge ugualmente, con la sua bellezza e il suo mistero.
E’ rigata di ombre nere verticali, le rughe che i miti aborigeni associano alla sua creazione, dovute ai “graffi” dei bambini che la discesero, prima che solidificasse, dopo averla costruita come un enorme castello di sabbia. Ammiriamo l’alba da una piazzola un po’ decentrata e isolata rispetto a quella principale, dove si accalcano centinaia di turisti scesi per la maggior parte dai torpedoni, ed è un bene. Ce la godiamo di più, ne gustiamo tutte le sfumature, senza dover fare a gomitate.
L’osservare l’alba da soli fa uscire solo positività stavolta, e una specie di nuova e grande energia, la versione positiva della malinconia notturna. Andiamo al belvedere principale solo quando la folla si è dileguata e il silenzio regna di nuovo sovrano, appena prima che i colori diventino stupendi.
Che cosa è tutta questa fretta? E’ obbligatorio il turismo mordi e fuggi anche di fronte a uno splendore del genere? A un sovrano di roccia situato nel mezzo del deserto?
Il trekking completo attorno alla grande roccia – un percorso pianeggiante su piste di polvere rossa lungo dieci chilometri – riserva altrettante soddisfazioni poiché gli uccelli cominciano a cantare e godiaamo della più bella e poetica delle solitudini.
Uluru è una roccia parlante.
Ogni segno leggermente anomalo sulla sua superficie narra una storia, lotte tra esseri totemici in genere, uomini-serpente, donne-pitone e simili. Lo sanno gli aborigeni, lo sapeva Chatwin, lo stiamo sapendo noi.
Alcune grotte, ricavate dalle pendici del massiccio, nascondono dipinti murali usati a scopo pedagogico, dagli adulti che iniziavano i bambini ai segreti del Tempo del Sogno, narrandogli i miti come fiabe, così come vengono narrate a noi sulle guide e sui cartelli, nascondendone i gradi più elevati di conoscenza. Ai bambini come ai profani.

Il profilo tozzo e carismatico di Uluru riserva grotte con dipinti, pozze d’acqua sacra, cartelli di divieto per chi vuol scalare la sua sommità. Gli aborigeni odiano chi scala la roccia sacra e pregano tutti di non farlo. Chiedono anche di non fotografare, per rispetto, alcuni punti sacri, che a noi parlano di un panorama superbo, a loro di segreti e tradizioni.
Niente ci può essere più lontano dei loro miti sulla creazione, per noi sono come fiabe per bambini. Ma perché offenderli? Il loro mondo è tenuto segreto, lontano apposta dalla nostra frettolosa conoscenza. Ci dobbiamo accontentare delle loro danze rituali, se ne hanno voglia, coi corpi tatuati di pallini color gesso e ocra. O delle loro magnifiche tele raffiguranti le vie dei canti e gli animali-totem. Fanno tenerezza quando li incroci: e pensare che nel 1788, quando sbarcò a Sidney la prima nave inglese carica di detenuti, i nativi erano 400.000. Un secolo dopo, devastati dalle malattie e dalle infezioni portate dagli europei, che gli tolsero pure tante terre sacre, ne rimasero 50.000.
Per rispetto allora, per amore e anche per legge, perché su Uluru ormai non si può salire più, prendiamo la Roccia alla sprovvista, decidendo, spendendo parecchi dollari, di spiarla dall’alto. Nasce così il mio primo volo in elicottero e riserva molte emozioni.
Il decollo in verticale lascia l’impressione che tu stia camminando in aria, lievitando a pochi metri da terra. Quando infine ti alzi, ti sembra di toccare il cielo con un dito perché ci sei vicinissimo.

Ti viene in mente che gli aborigeni siano capaci di spiccare il volo, seguendo le Piste del Sogno, che memorizzino il panorama e lo trasferiscano su tela. Quel che vedi dall’alto è un capolavoro impressionista: lo spinifex, onnipresente, compare circondato da incredibili chiazze di terra rossa.
Dal veicolo vedi anche un sogno psichedelico volando tra il monolite di Uluru e le formazioni rocciose di Olgas, situate a 50 km di distanza. Queste ultime si stagliano su uno sfondo di un tramonto da sogno, con colori simili all’alba vissuta nel Salar de Uyuni, in Bolivia. Sono scenografiche e anche più verdi dello spazio intorno.

Ritorniamo verso Alice Spring, “vicina” 454 km, un giro di raccordo anulare romano per chi vive nell’outback. Li percorrono a 50 km/h anche dei veloci e atletici canguri rossi, quelli che fanno 80 metri con un balzo (!!) e i mastodontici road train, camion lunghi 50 metri che portano viveri, farmaci, pezzi di ricambio e notizie agli abitanti del Northern Territory. Provo a inquadrarli da vicino con un didgeridoo, l’iconico corno aborigeno che assomiglia a una grande cerbottana, ricordo di Uluru.

P.S
Un altro pezzo tutto dedicato a Uluru si trova nel topic de ”Il Grillo Viaggiante intitolato “Luoghi magici”

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