Coccodrilli in vista
Paese strano, dopotutto. Prezzi carissimi. Una birra può costare fino a sette dollari australiani – sei euro. Paese strano, ripeto. Sì, perché le acque di Fraser Island sono infestate di squali ma Warren, la nostra guida sull’isola, ci dice: “se volete fare il bagno, evitate la mattina e la sera, quando l’attività degli squali è più intensa”. E quando è meno intensa?? Ti fai il bagnetto?? Anche se hai visto, appena due ore prima, un cartello con su scritto “zona in cui sono stati avvistati coccodrilli estuarini: cautela”??
Un coccodrillo cammina benino, corre addirittura per i suoi primi cento metri, nuota benissimo. Insomma, non sarei così tranquillo, soprattutto dopo che ci spiegano che un coccodrillo ammazza in venti centimetri d’acqua, conoscendo in modo sublime l’arte infida dell’immobilità, del mimetismo, avvicinandosi subdolamente. Io non starei, come fanno in molti, a pescare vicino a riva insomma.

Il cartello è all’entrata del porto ed è il primo ad incutere un certo timore. Oltre ai rettili, temo anche la folla clamorosa – e rumorosa – che riempie prima il battello e poi il pullman che ci porterà a spasso per Fraser Island, il primo luogo da sogno del nostro viaggio agli antipodi, l’inizio ideale del tour australiano più blu e sognante che esiste, quello della Grande Barriera Corallina, lunga ben 2.300 Km, composta da circa 2900 reef e 900 isole, visibili anche dai satelliti.
Il paradiso di sabbia
Alla guida e al microfono Warren, di cui capisco, se va bene, una parola su due. L’accento terribile degli australiani comincia a manifestarsi. Conduce un camion di produzione tedesca, enormi gomme da sabbia, per una strada che ha dell’incredibile. Perché Fraser Island è l’isola di sabbia più grande del mondo e di sabbia è fatta la strettissima strada, sulla sabbia cresce la fittissima foresta che la circonda e ricopre tutta l’isola, di sabbia gialla è la spiaggia lunga 75 miglia, usata come autostrada, percorsa da fuoristrada, da pullman come il nostro e da dingo curiosi e aggressivi.

Il pullman sobbalza lungo le cunette sabbiose e sosta prima presso McKenzie Lake, uno specchio d’acqua turchese, popolato da scoiattoli, rane acide, pitoni notturni, lucertole di vario tipo, anatre muschiate e da una folla di giapponesi urlanti che darei volentieri in pasto alla dentiera di un coccodrillo. Eliminano la poesia, uccidono i colori. Tento di scomparire, letteralmente, lungo i sentieri che circondano il lago, per sentire di più l’anima del posto, ma sono tutti allagati e devo tornare tristemente nel caos.
Un gruppo un po’ più silenzioso passeggia con noi in un sentiero nella fittissima foresta pluviale, dove la luce passa raramente, l’acqua del ruscello è limpidissima, gli odori nitidi e penetranti. Vietato toccare. Tutto, anche l’arbusto più innocente può nascondere insidie, ragni, serpenti, insetti, liane irritanti.

A pranzo siamo nel lodge dove dormiremo, ampio, munito di negozi carissimi e gelide piscine, l’unico alloggio disponibile sull’isola. Nel pomeriggio ci attende il lago Wabby, raggiungibile dalla spiaggia in quasi un’ora di cammino: una mezzaluna verde circondata da un lato dalla foresta e dall’altro da un deserto di sabbia dorata. E’ troppo bello perché la morte possa nascondersi in quelle acque.
Cala la sera e il freddo sulla spiaggia infinita. Fa buio presto e le serate sembrano interminabili. Gli occhi lucenti dei dingo vagano sulla spiaggia a caccia di prede (attorno al lodge ci sono i fili elettrici per tenerli lontani!), quelli gelidi degli squali immagino che facciano altrettanto, a pochi metri da riva. Sulla mia stanchezza cala il rumore delle onde dell’Oceano Pacifico, il più grande di tutti.
I colori di Fraser Island
Arriviamo sulla spiaggia trenta secondi prima di un’alba da urlo. Ci sono solo un fotografo silenzioso che inquadra un relitto, e un pescatore, appena più lontano, infastidito da un dingo. La luce del sole si riflette sull’onda lunga e sul bagnasciuga umido, su una grossa medusa arenata.

Appena la spiaggia si popola di turisti che a tratti sembrano quelli del film “The Beach” partiamo, la spiaggia come autostrada: fondo liscio inframmezzato da foci di torrenti e, a volte, da serie di dure pietre. File di pescatori a riva, acqua fino alle cosce, sfidano la sorte e alla sorte chiedono prede.
Un pilota di piper ci affabula durante una pausa e decidiamo di seguirlo in un volo panoramico di venti minuti sopra l’oceano dove scorrazzano le balene che stavolta non vedo, lungo la spiaggia infinita, sopra la foresta, planando su deserti circondati da vegetazione rigogliosa, su dune a forma di mano e lagune a forma di farfalla. Blu notte, turchese, giallo oro, verde cupo: un’orgia di colori. Il cambiamento di prospettiva che ti fa entrare un posto nel cuore, come nel volo che Robert Redford e Meryl Streep compiono in “La mia Africa”.
Ci arrampichiamo con tutti gli altri su Indian’s Head, promontorio a picco sul mare che spezza in due una spiaggia paradisiaca. Dall’alto, nell’acqua turchese, si vedono enormi chiazze scure che sembrerebbero essere mante, un paio di pesci giganti, l’ombra probabile di un grande squalo. In una delle due spiagge, di fronte a dove mangiamo, dove si rompe la seconda onda, ci assicurano che altri grandi squali nuotano, proprio là, a due passi da noi. Potrei farmi un bagno visto che a quest’ora sono “meno attivi”, vero Warren?

Per la prima volta i terribili squali australiani li sento veramente vicini e cattivi, non come le balene che corrono senza sosta verso sud, ma come freddi e determinati killer. “Mai visto uno squalo bianco da queste parti” mi fa Warren “ma squali toro sì, parecchi”. Sulla via del ritorno ci fermiamo presso dei pinnacoli multicolori che però, rispetto alla Cappadocia, son nulla e a visitare un piccolo ruscello circondato dalla giungla e dalle zanzare. Un finale in calando, quasi noioso.
Lasciamo Fraser Island, gran bel posto, al tramonto, tra il volo degli uccelli, salutando la foce del fiume proveniente dai misteri della giungla. Subito dopo è notte, la stessa che dovremo attraversare a bordo di un autobus senza fine.
Due passi tra le razze
Madonna, non finisce mai. Dodici ore di pullman ad agitarmi come un contorsionista bulgaro, a fermarci in assurde stazioni di servizio, a dormire solo per due ore, mentre nello stomaco naviga il pollaccio fritto mangiato di fretta in un KFC. Nel frattempo passiamo il Tropico del Capricorno, quindi albeggia un po’ prima, e fa un po’ più caldo.
La prima cosa che ci accoglie al nostro arrivo ad Airlie Beach è un cartello di pericolo che avvisa della presenza delle letali meduse a scatola da novembre a maggio. Le istruzioni ti dicono come fare a morire soffrendo un po’ meno in pratica. Essendo comune la somministrazione dell’aceto, mai dell’alcool, per lenire il dolore delle punture, se ne trovano bottiglioni pieni in tutte le spiagge!
Airlie Beach è un susseguirsi di negozietti e agenzie turistiche, tutte invariabilmente dedicate alla cattura di viaggiatori e turisti da inviare alle Whitsunday Islands con qualunque mezzo, dal catamarano alla moto ad acqua. Noi andiamo in una romantica barca a vela e tra le onde che si spezzano spuntano delle mante. Poco dopo arriviamo all’isola dei sogni, al vero e proprio paradiso terrestre. Sbarchiamo con il tender, ci arrampichiamo su una collinetta seguendo un sentiero circondato da vegetazione foltissima e il panorama, il mio primo mito aborigeno, si spalanca sotto ai miei occhi.

Nel Tempo del Sogno, al momento della creazione, non c’erano isole nella baia, solo l’azzurro del mare. Un giorno il Serpente Arcobaleno camminò sulle acque e depositò le sue uova che rimangono, ancora oggi, nella baia, sotto forma di decine di isole, a osservare i soli tramontare e le lune sorgere.
L’acqua è talmente limpida che si scorgono nuotare centinaia di razze marroni, col minaccioso pungiglione, anche a un metro da riva. Con le dovute cautele decidiamo di camminare tra loro, anche perché alcune sono completamente ricoperte di sabbia ed è difficilissimo notarle. L’acqua è fredda ma non troppo ed è bello vederle nuotare, lentamente, muoversi con grazia. Ad accompagnarle ci vedrei bene una sonata al piano di Chopin.
Il Mar dei Coralli
Due emozioni da ricordare.
La prima è la camminata sulla spiaggia da favola di Whitsundays, tutta di silice finissima, e la successiva immersione in maschera, boccaglio e muta integrale, nel Mar dei Coralli. Quasi un piacevole tepore mi scorre lungo il corpo, mentre gli altri del gruppo muoiono di freddo e mentre, dall’alto, osservo muoversi pesci di ogni forma e colore: gialli, viola, pappagallo, dal muso appuntito, nascosti negli anfratti di milioni di coralli che crescono lì da un tempo infinito. Capisci definitivamente perché “Alla Ricerca di Nemo” sia stato ambientato qui… l’acquario naturale lascia senza fiato.
Grande è la tentazione di toccarli, ma visto che portano nomi come “corallo del diavolo” e “corallo del fuoco” rinuncio molto volentieri. Mi basta ammirarli questi delicati, resistenti e testardi animali. Come dei pesci gialli che non scappano mai, forse perché non conoscono la crudeltà dell’uomo. Oltre ai coralli notiamo movimenti di piccoli idrovolanti: la moda del momento, in questo arcipelago che è diventato il luogo di vacanza più esclusivo di tutta l’Australia, è farsi portare un giorno intero su un isolotto sperduto e giocare a fare i Robinson coi viveri, l’acqua e l’ombrellone dietro. Un lembo tra i 74 pezzi di eden sparpagliati in questo mare è addirittura a forma di cuore, nel mezzo del Bait Reef.


In un mare del genere, un’immensa laguna in pratica, il tempo si dilata.
Mai visti i sub restare tanto in acqua, mai viste le barche a vela veleggiare con più calma, nel rispetto assoluto dell’incanto che le circonda. Tanti appassionati lo definiscono lo spettacolo marino più bello del mondo, anche per le scoperte vergini e solitarie che puoi ancora fare.
La seconda emozione è culinaria ed era qualcosa cui davo la caccia da tempo. Ci aspetta una seconda notte insonne in autobus e sono stufo di roba fritta e junk-food. Dopo una birretta di aperitivo, spingo quindi per entrare in un posto vivace dove cucinano finalmente piatti australiani particolari. Si può scegliere canguro e coccodrillo ma anche un piatto misto, che sarà la mia scelta.
Arriva in un lampo, in porzioni enormi. Il coccodrillo è un filetto di carne bianca che a tratti sembra carne, a tratti pesce, ma il sapore è in parte mascherato da una salsa dolciastra piena di aglio. Il canguro è marinato e cotto nel vino rosso. E’ tenerissimo, leggermente fibroso, con un lieve sapore di selvaggina. Una bellissima sorpresa.
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