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Australia, che continente! / I grandi reportages

Australia, che continente! – Nel deserto giallo

Alieni nell’outback

Passato (per modo di dire…) il groppo in gola causato dalla vista emozionante di Uluru ecco altri 900 chilometri in jeep, verso nord, la maggior parte ancora in un paesaggio di terra rossa e nuda. Rare le tappe, una però merita di essere ricordata e viene poco dopo un pub dove ci siamo dissetati davanti ai letali serpenti locali, tra cui il death adder, conservati sotto liquido!

un paesaggio di terra rossa e nuda

Ci fermiamo in un luogo che in Australia è famoso per gli avvistamenti e gli atterraggi di UFO. Ciò ha trasformato l’area di servizio nell’outback in un piccolo paese e in una meta curiosa e turistica dove fare foto idiote, alle quali non mi sottraggo, chiacchierando ovviamente di alieni con il gestore del bar, e scattando istantanee luminose a una lunga serie di murales a tema che ricoprono le pareti esterne del locale. Di fronte a un disegno che mostra l’atterraggio di dischi volanti sosta con lo sguardo perduto una famiglia di aborigeni. Sembra un confronto complicato da capire tra il passato e il futuro (o l’ignoto), tra la terra e lo spazio. In realtà sembrano gli aborigeni i veri alieni di questo continente. Chiusi, misteriosi, un mondo a parte. Altro che traditional owner poi, sono stati riconosciuti ufficialmente solo nel 1976 e ancora oggi vengono ghettizzati, specie nelle grandi città australiane.

Filosofia del deserto

Quando le ore sembrano tutte uguali e il sole ti spacca quasi le labbra, quando la polvere rossa ti si appiccica sulla pelle e sui jeans e sulle sete, quando il paesaggio antropico è pressoché assente e al massimo si scorgono poveri silos e fattorie abbandonate nel vuoto di chilometri, vecchie pompe di benzina arrugginite e rudi allevatori scomparire dietro ranch malmessi. Quando a mezzogiorno la luce è abbacinante e crea quasi dei miraggi, nuvolette improvvise di vento caldo fanno muovere i cespugli di spinifex, dingo spelacchiati e canguri e greggi di pecore merinos appaiono di tanto in tanto. Quando pensi al Far West americano, se possibile in una dimensione ancora più cruda, e rivedi le scene on the road di alcuni film americani (Easy Rider, Fandango, Thelma & Louise, Fino alla fine del mondo, Paris, Texas e ne scordo sicuramente qualcuno) in queste latitudini ai confini del mondo tutto il tuo essere è avvolto da una sensazione indicibile di libertà, di provvisorietà, di vita che va presa come viene.
La libertà di non avere orari, di puntare all’infinito l’orizzonte, per vedere con la curiosità tipica dei viaggiatori cosa di bello o di nuovo può capitare, chi si può incontrare. In un varco spazio-temporale sospeso come un sortilegio, con la consapevolezza mai così forte di essere lontani.
Credo non sia sbagliato definire l’Australia soprattutto questo: il paese della libertà.

Credo non sia sbagliato definire l’Australia soprattutto questo: il paese della libertà.

La libertà che cercavano uomini usciti dalle prigioni inglesi e deportati per non dare troppo fastidio alla Corona britannica, la libertà voluta dagli avventurosi coloni, esploratori di terre nuove. La libertà compagna di viaggio degli aborigeni, liberi di credere in un mondo diverso e orgoglioso, tutto loro, di segni, di sogni. La libertà di quella che per secolì è stata definita una sorta di Terra del Nulla, di continente sconfinato e selvaggio.
La libertà, il walkabout, le sue personalissime vie dei canti, cercate per esempio da una donna, Robyn Davidson, “a spasso” per questo deserto con quattro cammelli, per 2.700 km e per 9 lunghi mesi della sua vita: la storia è ritratta nel film “Tracks”, trasferito anche in una bella colonna sonora. Ecco il trailer:

locandine film “Tracks”
* copyright

Uova sacre, mutande nel pub e il cimitero dei canguri

Insieme ai pensieri corre la strada, sul pick up prendiamo qualche ragazzo che fa autostop, salgono e scendono nel nulla, a incroci del nulla. Poi passiamo vicino alle Devil’s Marbles, un posto surreale dove migliaia di grosse rocce rosse, per lo più sferoidi, sono disseminate nella piana, una accanto all’altra o sovrapposte in quel che sembra un precario equilibrio. Sembrano biglie giganti, il passatempo di un angelo o di un demone.
Quando le scalo non ci penso, ci penso subito dopo: forse pure queste rocce rappresentano qualcosa di sacro, sarò divorato dal serpente arcobaleno per essermi trastullato sulle sue uova sacre…?

Sembrano biglie giganti, il passatempo di un angelo o di un demone

Più avanti Daly Waters e un altro pub che non potrò dimenticare. Un semaforo senza senso, sempre rosso, e una bouganville, dopo tanta aridità, ti danno il benvenuto all’entrata dello sparuto gruppo di case. Di fronte al pub, una solitaria stazione di servizio, gestita dalle stesse persone, e sul tetto del negozietto situato presso la casa adiacente, il rottame di un elicottero (??).

All’interno del pub sono appese mutande, reggiseni, targhe automobilistiche, tesserini universitari, stemmi, magliette, foto, bottiglie vuote. Tutti cimeli dei quaranta abitanti di Daly Waters che passano immancabilmente la serata al suo interno, dove la carne alla griglia di manzo e di barramundi (un pesce del pacifico) sono squisite. Bevo una birra troppo amara mentre uno showman con cappellaccio di pelle a tese larghe inizia un monologo incomprensibile intervallato da rare canzoni country. Capiamo poco e allora parliamo, parliamo e allora ci accompagnano alla porta per “molestie”, per fortuna senza il pegno di dover lasciare gli slip!

Altre centinaia di km e il rosso del deserto comincia a cedere il passo al verde dei tropici. Quel che non cambia è la strada, invariabilmente diritta e i canguri, uccisi a centinaia dai giganteschi autotreni insieme ai wallabies e lasciati a marcire ai lati della strada. Una vera e propria strage degli innocenti. In alto, rapaci pazienti aspettano l’ora del pranzo, sorvolando l’autostrada Stuart, spina dorsale del continente e cimitero dei marsupiali.

i canguri, uccisi a centinaia dai giganteschi autotreni

Un po’ di sollievo ce lo procura finalmente il bagno nelle Edith Falls, piscine naturali con cascatelle di acqua tiepida che massaggia con sensazioni piacevoli i nostri corpi stremati dal lungo viaggio. Anche qui cartelli di coccodrilli a zonzo, benchè i turisti siano rassicurati dalle scritte che l’area è sempre controllata. Li immaginiamo i cocco qui intorno, passo felpato, mimetizzati, pronti al balzo: bbbrrrr…..

L’inferno delle paludi

L’inferno delle paludi

Sveglia crudele, più delle altre, senza colazione. Ci aspetta una breve corsa nel buio che precede l’alba, risalendo il fiume Katherine, per una gita in barca ai primi chiarori.
Saliamo sulla motonave all’alba e i tavoli per un’abbondantissima colazione inglese sono apparecchiati. Mangio in fretta l’impossibile, per non perdermi lo spettacolo che mi circonda. Il fiume è ovviamente infestato dai coccodrilli ma non se ne vede neppure uno. Nei mesi delle alluvioni, ci informa la guida-ranger, pare che i lucertoloni si dilettino a passeggiare per le strade di Katherine allagate.
Ma può essere un continente normale questo??

Dopo una breve navigazione, il fiume si restringe troppo per consentire il passaggio dello scafo. Quindi scendiamo, proprio nel punto dove vi sono delle pitture rupestri, passeggiamo seguendo le rive del fiume, mentre una luce fatata ne illumina gli scogli, e saliamo su una seconda barca per procedere lungo i canyons delle Katherine Gorge e ammirare nell’acqua tutti i riflessi del mondo, verdi e marroni, luce e palme, distorsioni della luce nell’acqua create dalla scia della stessa barca.
Torniamo con gli occhi pieni di bello e salutiamo in fretta Katherine, proprio mentre il sole inizia a mordere.

Ciao, Darwin

*copyright wikipedia

(immagine panoramica di wikipedia)

Guidando verso Darwin, mi godo l’ultima giungla, le paludi, i fiumi, un’alba rossa che, dallo specchietto retrovisore, illumina l’orizzonte. Arriviamo nella capitale dei Territori del Nord, regina delle terre selvagge, città calda e umida, perché vicina all’Equatore, città multietnica (un terzo degli abitanti sono di origine aborigeni, moltissimi gli immigranti di origine asiatica) e anche città giovane perché ricostruita almeno due volte, dopo le bombe giapponesi del 1942 e dopo il catastrofico passaggio del ciclone Tracy nel 1974.

Darwin è un luogo piacevole ma deve subire un destino amaro: si affaccia su un mare color verde smeraldo, ma il mare è off limits per via delle invasioni continue, specie da ottobre a maggio, delle meduse-vespa, il cui contatto può provocare la morte in pochi istanti. Per debellare la diabolica minaccia in città si sono inventati delle lagune recintate da reti ma il bagno non si fa mai in assoluta tranquillità perché se le maglie delle reti tengono lontani i 250.000 coccodrilli dell’area (sono tanti quanti gli abitanti!!), lo stesso non si può dire delle meduse killer, che essendo piccole possono passarci… Ogni bagnante sa che rischia di suo e che è meglio se entra nella laguna con una bottiglia di aceto e di antidoto in mano!

Darwin è in alto sulla mappa australiana, è il Top End come lo chiamano qui. Le terre più vicine, oltre il mare, sono Timor, le isole della Sonda, Komodo con i suoi draghi: chissà, un giorno forse arriverò anche lì. Per ora mi godo scrupolosamente solo dalla sua riva il bel mare, i suoi parchi verdi, un’isola pedonale piena di negozietti e l’allegria dei miei compagni di viaggio. Lo sappiamo e lo sentiamo, è una sorta di saluto all’Australia selvaggia. In aeroporto mangiamo un delizioso barramundi fritto, poi sono quattro ore di volo che passano in un lampo. L’ultima tappa è Sidney.

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