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Cambogia, diario dal sogno e dall’orrore – prima parte

Il destino della Cambogia

La Cambogia non fa parlare di sé per secoli. Brilla violentemente con l’impero dei Khmer nel XII secolo e in quelli immediatamente successivi. Poi galleggia, barcamenandosi tra le mire espansionistiche di due vicini potenti, i vietnamiti e i thailandesi.
E’ un popolo dopotutto fortunato quello khmer. Vive nella pianura alluvionale formata dal delta e dal bacino fluviale del terzo fiume d’Asia, se non si considerano i giganti semi-gelati siberiani, quel Mekong che in vietnamita significa fiume dei nove draghi, tanti quanti i rami del suo delta. Fortunato perché, al di là delle alluvioni, in gran parte controllate e sicuramente attese con rassegnazione buddhista, il clima tropicale dona frutta e verdura, la terra è fertilissima, il pesce non manca mai, il riso è sempre abbondante, e si è in pace. E si ha il tempo pure di giocare con gli elefanti.

E si ha il tempo pure di giocare con gli elefanti.

Quando ci pensavo, il mio immaginario era colmo di quiete persone chine sulle risaie, sui fianchi dolci e ondulati delle colline, sotto cappelli triangolari di paglia a riparare dal sole tropicale e a celare sensuali occhi a mandorla e capelli corvini.

il mio immaginario era colmo di quiete persone chine sulle risaie, sui fianchi dolci e ondulati delle colline

Infatti della Cambogia si sa poco. Che fa parte dell’Indocina francese fino agli anni Cinquanta, probabilmente un fatto che ha sancito la sua sopravvivenza dall’aggressività dei vicini, e che un re intelligente e opportunista, Sihanouk, la porta a crescere, fino all’inizio degli anni Settanta.
E’ un re abbastanza amato dal popolo, un intelligente trasformista che sarà presente nelle fasi della storia khmer per oltre cinquanta anni. Un problemino: vede ovunque complotti della CIA per ribaltarlo – non a torto, avverrà in futuro. D’altronde si è in piena guerra fredda, lui non è allineato con nessuno e, a pochi chilometri, c’è il Vietnam, mica San Marino, dove gli americani le stanno prendendo e non si preoccupano troppo di linee di confine o di bombe cadute per sbaglio.
Sentendosi minacciato da Thailandia e Vietnam del Sud, i due stati confinanti ed entrambi alleati degli americani, il buon Sihanouk fa un errore non da poco: si getta tra le braccia della Cina e, al tempo stesso, concede ai Vietcong e ai nordvietnamiti di usare parte del proprio territorio, il sentiero di Ho Chi Minh, per consentire che armi e rifornimenti arrivino, a piedi, in bici (assurdo pensarlo ma i cannoni venivano smontati pezzo per pezzo e portati in bici!), attraverso la giungla, fino alla guerriglia in atto nel Vietnam del Sud, che da quelle parti si estende a pelle di leopardo.

I khmer rossi

Sono già da anni nascosti nella giungla tanti soldati khmer. All’inizio quasi timidi, docili, remissivi. I bombardamenti dei B-52 americani in territorio cambogiano, effettuati per impedire ai nordvietnamiti di portare i rifornimenti, però non sono “intelligenti”. Quando si gettano napalm, Agente Orange, defolianti e diossina significa una sola cosa: tabula rasa di quel che è colpito. L’effetto immediato, mentre il re è stato spodestato e sostituito da Lon Nol, un fantoccio americano, non è altro che riversare migliaia di contadini nelle file dell’esercito khmer ribelle, che conquista regioni su regioni, tutte dai nomi bellissimi come i monti cardamomi e la regione del becco d’anatra…

Lo spirito di sacrificio è tanto, le armi sono poche, i mezzi miseri

Lo spirito di sacrificio è tanto, le armi sono poche, i mezzi miseri: si combatte in tute nere, scialli a quadretti bianchi e rossi e sandali di gomma fabbricati coi resti degli pneumatici. Nessuno riesce a vederli, i khmer rossi. Sono fantasmi nella giungla. E chi li cerca non torna più… Trentatre giornalisti faranno quella fine nel solo 1970. Il nostro più grande testimone delle vicende indocinesi, Tiziano Terzani, in Vietnam era andato oltre le linee per conoscere l’altro punto di vista. Anche qui ci proverà, cambiando idea all’ultimo secondo per una umanissima e nettissima sensazione di paura. Sarà ciò che gli salverà la vita perché il suo compagno scomparirà.
Ma nessuno crede alle crudeltà che si racconta accadano tra le fila khmer. Pensiamoci un attimo. Facile sia così. Siamo nel pieno degli anni della contestazione. Gli yankee imperialisti le stanno prendendo in ben due paesi. In due settimane, tra il 17 e il 30 aprile 1975, cadono Phnom Pehn e Saigon ad opera di armate contadine di sinistra, di soldati del popolo: era questa la rivoluzione proletaria che si attendeva? Tutti credevano, a sinistra, che si stesse realizzando una speranza. O che, per lo meno, fosse meglio dei regimi fantoccio messi in piedi dagli americani, che avevano il vizietto di scatenare conflitti decennali con falsi incidenti di guerra, come accadde per il Vietnam nel Golfo del Tonchino.
Senza indugiare oltre, quel che mi importa sottolineare è che i khmer rossi vengono assimilati ai vietcong, sono visti all’inizio come gli eroici ed attesi liberatori. Intere delegazioni diplomatiche visitano il paese e non si accorgono di nulla. Tornano in Europa lodando il regime. Leggo la storia di questo grande abbaglio ne “Il sorriso di Pol Pot”.

Quasi tutti quindi vengono mandati nei campi a lavorare, a ricostruire le fondamenta di una nazione attraverso l’agricoltura e il sudore

E’ il 1975, il 17 aprile, quando le armate khmer entrano nella capitale. Sono stanchi, male armati, ma non trovano resistenza. Non quella dell’esercito, i cui capi devono mangiarsi le mani una volta visto di fronte a chi si erano arresi, un’armata di ragazzini in pigiama nero, malridotti, affamati e cenciosi. Terzani riesce a varcare il confine thailandese a Poipet e rischia la fucilazione da parte dei primi khmer rossi che vede in vita sua: si salva con un sorriso, dopo ore passate spalle al muro. Bizot è il loro interprete nell’ambasciata francese e vivrà le ore tragiche dei primi giorni dopo la caduta della capitale, l’arroganza del vincitore, i saccheggi e quel che nessuno si aspettava. Ovvero altoparlanti che ordinano l’evacuazione della città perché si annunciano imminenti bombardamenti americani, mai avvenuti.

Quasi tutti quindi vengono mandati nei campi a lavorare, a ricostruire le fondamenta di una nazione attraverso l’agricoltura e il sudore: il badile è la tua penna! Il campo di riso la tua carta! Decine di migliaia di uomini e donne spostati in campagna a produrre i milioni di tonnellate di riso necessarie sì, tutti ad eccezione dei quadri politici e degli ex ministri e di chiunque si ritenesse colluso con il governo filoamericano, convocati nello stadio di calcio e massacrati seduta stante. Perché chi si è compromesso col regime cambogiano non è più khmer e va fatta pulita, a costo di svuotare il paese. Purtroppo Pol Pot e compagni ci andarono molto vicino.

Alla fine del regime del terrore la popolazione cambogiana era ridotta di un terzo

I perché di un massacro

Alla fine del regime del terrore la popolazione cambogiana era ridotta di un terzo, e i mancanti all’appello erano quasi due milioni di persone. Seppelliti nelle fosse comuni e sparsi a milioni nei campi, nelle risaie e nei pozzi erano minoranze etniche, soprattutto vietnamiti, professori, chi aveva studiato, parlava le lingue, portava gli occhiali, era troppo, o appena grasso, quindi borghese. Uno scenario “filosofico” terribile: qualunque cosa desse l’idea di città invece che di campagna in una persona poteva segnare la sua fine. Eri morto se non eri capace di arrampicarti su una palma da cocco, ad esempio. Le stesse palme si raccontava che a Phnom Penh fossero altissime perché crescevano con speciale concime umano…
I quadri dirigenti dei khmer rossi avevano studiato a Parigi, ma disprezzavano chi lo avesse fatto in patria. Volevano il ritorno alla grandezza khmer e l’eliminazione di tutto ciò che fosse ricollegabile al mollume e alla corruzione cittadina. Bisogna ricominciare dalla purezza del chicco di riso, amava dire Saloth Sar, alias Pol Pot. Volevano formare l’uomo nuovo, sogno di ogni rivoluzionario, abolendo quello vecchio, e non importa se per farlo i figli dalla notte al giorno sarebbero diventati delatori dei padri, se avrebbero dovuto distruggere violentemente e velocemente tutto: le professioni borghesi, la cultura, le biblioteche, le scuole, la medicina occidentale, la religione, il denaro. Già il dio denaro…
La prima cosa che fecero non appena entrati nella capitale fu far saltare la banca centrale e abolire il denaro, che svolazzò per ore, bruciacchiato e ormai inutile, per le vie di Phnom Penh.

nelle due foto prese da wikipedia: a sinistra il sanguinario Pol Pot, capo ideologico dei khmer rossi, a destra uno degli ultimi scatti che ritraggono Tiziano Terzani
*Copyright

(nelle due foto prese da wikipedia: a sinistra il sanguinario Pol Pot, capo ideologico dei khmer rossi, a destra uno degli ultimi scatti che ritraggono Tiziano Terzani, il più grande giornalista italiano specializzato in reportages sul sud est asiatico)

Cambiarono poi il calendario, ricominciando a contare dall’Anno Zero, iniziarono a chiamarsi tra loro Amici. Distrussero qualunque cosa significasse famiglia. Terzani racconta che, entrati nei villaggi precedentemente in mano ai governativi, raccoglievano e distruggevano tutte le pentole di piccole dimensioni e fornivano al villaggio un unico, enorme, pentolone. Per evitare che il riso fosse cucinato e mangiato in intimità. Perché anche durante i pasti ci fosse il controllo di tutti su tutti.
Anche le ambasciate furono chiuse, quella di Francia fu l’ultima ad evacuare il suo personale, attraverso un allucinante viaggio via terra fino al ponte di Poipet. Il regime si chiuse in sè stesso con le sue follie, che solo alcuni profughi raccontavano, non creduti, all’estero. Quattro anni lunghi e crudelissimi, anni di terrore e carestie, conditi da massacri, fosse comuni, epurazioni all’interno, e da piccoli sconfinamenti e guerricciole contro il Vietnam, ritenuto usurpatore del delta del Mekong, vecchio territorio khmer, in politica estera. Così nasce l’invasione vietnamita e l’occupazione decennale.

Il declino di Pol Pot

Ma Pol Pot e gli Amici non sono morti: si rifugiano nella giungla e, giochi della guerra fredda, chi era considerato un pericoloso assassino comunista ora va finanziato dal “disinteressato” grande governo americano, perché il Vietnam filosovietico non conquisti troppa importanza.
Sono anni di occupazione, carestia (perché i khmer rossi riuscirono a distruggere il millenario sistema di irrigazione) e di guerriglia finanziata da Cina, USA e Thailandia, fino a quando l’ONU è protagonista di una costosissima missione che porterà elezioni democratiche ma anche i khmer rossi a una sorta di amnistia, ponendo massacratori e vittime sullo stesso piano. Un vomitevole compromesso, da considerare accanto al fatto che, una volta ceduto il potere, le elezioni i guerriglieri invasati le boicottarono sempre. Che anche dopo continuarono a spargere terrore, rapendo e uccidendo anche turisti. Vedremo quanti di loro e solo recentemente, sono stati giudicati da un tribunale internazionale e condannati.
Pol Pot, lui no. Dato falsamente per morto nel 1996, condusse l’ennesima epurazione interna due anni dopo ma non gli riuscì, anzi ne rimase vittima. Fu processato e condannato, ma solo moralmente. Nell’aprile del 1998 morì d’infarto, impunito, nel suo letto, come dichiararono i khmer rossi o fu fatto morire, come sostennero invece gli americani. Questi ultimi, dopo averlo sostenuto per anni, lo avrebbero voluto vivo per processarlo per crimini contro l’umanità. La richiesta era di Kissinger, nobel della pace, sterminatore di cileni e di altri popoli insignificanti. In pratica un boia che si arrogava il diritto di volerne giudicare un altro.
Appena l’anno precedente, nella prima intervista rilasciata in diciotto anni di potere e anonimato, nella giungla di Anlong Veng, un Pol Pot malato rispose a un giornalista americano, con un sorriso serafico. “Sarei forse un mostro? Ho la coscienza pulita. Sappi che tutto quello che ho fatto l’ho fatto per il mio paese” – “Vuole chiedere scusa per tutte le sofferenze che ha causato?” – “No”.

Al ritorno in Italia, scovo vecchi articoli di giornale sui suoi ultimi giorni. Lo raccontano in compagnia della sola moglie, in preda a malattie, solitudine, pianto, dissenteria. In confino, abbandonato dai suoi. Continuo a cercare. Leggo che da quelle parti, nella giungla al confine con la Thailandia, c’è chi ancora oggi lo sogna, chi in sogno si fa passare i numeri del bingo, chi non lo ritiene colpevole, chi, dopo la cremazione, ha iniziato a venerare il Fratello Numero Uno, chi ritiene che pregarlo può far guarire.
La mancanza decennale di un giudizio di condanna ha creato anche queste aberrazioni. E oggi c’è chi visita la sua tomba per curiosità turistica, guidato da ex khmer rossi.
Nella Cambogia moderna c’è chi preferisce dimenticare, chi non vuole dimenticare e cerca qualcuno che possa pagare l’orrore. Ma c’è anche chi lascia fiori.

Nella Cambogia moderna c’è chi preferisce dimenticare, chi non vuole dimenticare e cerca qualcuno che possa pagare l’orrore. Ma c’è anche chi lascia fiori.

(segue)

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