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Cultura da Viaggio

C’era una volta il Messico – prima parte

Rivivere il Messico

Il grande problema nasce quando il viaggio finisce.

Quando passa la magia della giungla e del mare dei Maya, degli altopiani indigeni o coloniali, di quella città incredibile e mostruosa che è la sua capitale, dei canyons e della polvere del Nord, della limpida e quasi trasfigurante bellezza della Baja California.

E la nostalgia ti attanaglia fino al prossimo viaggio, alla prossima esplorazione.

I modi per rivivere il Messico sono più o meno quelli noti che esistono per risentirsi vicino a un paese che si è amato tanto: la lettura di saggi e romanzi che parlano di vagabondaggi, rivoluzionari o echi caraibici, sfogliare un album di fotografie o un libro di arte e archeologia maya e azteca, mettere su il cd che ti ha stregato durante il viaggio a base di mariachi o chitarra romantica, recarsi in qualche cantina messicana in Italia dove il mezcal e i tacos siano più autentici possibili.

Oppure scegliere di vedere o rivedere qualche bel film. E da questo punto di vista le occasioni davvero non mancano! Ecco allora che risuona la campana, ecco che il mito rivive.

I modi per rivivere il Messico sono più o meno quelli noti che esistono per risentirsi vicino a un paese che si è amato tanto: la lettura...

Come in un fumetto

“El Mariachi”, “Desperado” e “C’era una volta in Messico”, scritti in undici anni dal 1992 in poi,

Se avete amato l’immenso territorio che si apre a nord di Città del Messico, coi suoi deserti e i suoi villaggi nella polvere come la desolata Acuna, con le deliziose cittadine del circuito coloniale – Guanajuato colorata e barocca sui fianchi delle coline, Queretaro storica e vibrante di echi rivoluzionari, la San Miguel de Allende rifugio di artisti e anime belle – allora apprezzerete il piccolo ciclo di film d’avventura di Robert Rodriguez, con protagonista assoluto Antonio Banderas, ben fiancheggiato in alcuni episodi da una sensualissima Salma Hayek, dal solito originale Jonny Depp, e da un manipolo di alcune tipiche facce “da cattivi” dei film messicani, Danny Trejo in primis, maschera ideale col suo ghigno e le sue cicatrici per tali ruoli.

El Mariachi”, “Desperado” e “C’era una volta in Messico”, scritti in undici anni dal 1992 in poi, in fondo affrontano tutti lo stesso tema e presentano tutti le stesse caratteristiche: l’eroe è un musicista girovago e ribelle che impugna (letteralmente) la sua chitarra come uno sconquassante fucile a pompa, il contorno è quello di banditi senza scrupoli, politici corrotti, indios sfruttati e umilissimi nella loro atavica povertà, cantine che sanno di tequila, di fumo, di carte, di strimpellate e di agguati, villaggi anonimi della sterminata provincia messicana dove El Mariachi di nero vestito piomba per raddrizzare torti, salvare gli ultimi, difendere fanciulle o presidenti e sgominare feroci avversari o bande di narcos.

In parecchie scene i film cedono volutamente agli effetti pulp e sembrano essere quasi una parodia surreale dei grandi western di Sergio Leone (la trilogia del dollaro con Clint Eastwood fu girata lo stesso in Messico). Non stiamo quindi parlando di capolavori ma sono dei film pittoreschi e azzeccati, creano sicuramente una eco, sembrano un Luna Park di emozioni, un grande fumetto, e un certo Messico in tante storie, volti, paesaggi assomiglia per davvero a un fumetto.

Bella la fotografia, molto calda nei toni, spesso color ocra, seppia, ruggine, poetiche le immagini di strade e mercati, chiese e balconi, un tributo incredibile alla cintura coloniale che si trova appunto a nord del Districto Federal. Belli gli abiti dei protagonisti, neri o scintillanti di colori. Coinvolgenti le acrobazie di Banderas che salta, spara, corre, salva, stermina. E poi quella musica, lenta, suadente, da risentire sul divano di casa mentre si sorseggia un mezcal o si prepara un taco alla maniera “nortena”.

Se avete amato l’immenso territorio che si apre a nord di Città del Messico, coi suoi deserti e i suoi villaggi nella polvere come la desolata

Dello stesso filone, anche se con risvolti meno truci ma più romantici, la commedia “The Mexican” del 2000, con Brad Pitt e Julia Roberts, un road movie riuscito a metà.

Il tema è quello della ricerca di una preziosa pistola dai misteriosi poteri ma presto la sceneggiatura ne somma altri come la ragazza rapita (i sequestri nel Messico del Nord sono una vera piaga sociale), il conflitto con la malavita, l’attraversamento di un territorio arido ma affascinante. La storia è un po’ debole ma gli attori famosi, le musiche stile Morricone e la ripetizione dello schema adottato da Rodriguez del “Messico da fumetto” rendono il film tutto sommato godibile.

Dello stesso filone, anche se con risvolti meno truci ma più romantici, la commedia “The Mexican” del 2000, con Brad Pitt e Julia Roberts, un road movie riuscito a met

Tra storie di chitarre, polvere e pistole queste pellicole ci lasciano comunque la voglia di scoprire il Messico del Nord.

Confine maledetto

Ma il Nord del paese diventa maledetto quando si arriva nei pressi del complicato confine con gli Usa. Quanta letteratura, quante tragedie e quanto cinema esistono sul tema!

Ne abbiamo parlato a lungo nei due articoli sul “Confine” (vedi “Il grillo viaggiante”, topic “I grandi reportages” – “Tutti i colori del Messico”), ora ci soffermiamo su quei film che meglio di altri hanno messo in risalto le storie di violenza e di droga, di disperazione e di corruzione, di fuga verso la libertà o verso il niente, a seconda del destino, della forza di volontà, dell’affidabilità del coyote di turno, delle alleanze torbide che nei chilometri duri del confine si intrecciano e si cambiano.

Questo di sicuro non è un viaggio affascinante o privo di pericoli ma l’idea di un Messico così malmesso durante i miei viaggi non mi ha mai abbandonato. Non c’è nessuna poesia nel riviverlo, le storie sono crude, a volte atroci, un vero pugno allo stomaco, ma elevano il tuo amore e la tua responsabilità nei confronti di chi su quella frontiera esiste e resiste, dei pochi che riescono a non cadere nel vizio, negli affari loschi, nelle bande sanguinarie, nei complotti della polizia di frontiera, nei terribili omicidi.

“Sicario” del 2015 con Emily Blunt e Benicio del Toro (protagonista anche del sequel “Soldado” firmato dal regista di “Suburra” Sollima), “Traffic” con lo stesso Del Toro

Vicende come quelle narrate in “Sicario” del 2015 con Emily Blunt e Benicio del Toro (protagonista anche del sequel “Soldado” firmato dal regista di “Suburra” Sollima), “Traffic” con lo stesso Del Toro (premio Oscar nel 2001 insieme al regista Soderbergh) e altri grandi attori, “Viaggio in paradiso” (2012) con Mel Gibson o “Border Town” (2006) con Jennifer Lopez, non raccontano un Messico da cartolina, ma sordido, polveroso, rancoroso. Con pochi eroi positivi, con molti problemi in cambio.

La serie di Netflix “Narcos”, per lunghe sequenze girata in Messico, è un vero viaggio nell’incubo dei cartelli di droga, “Sicario” e “Traffic” della lotta alla droga descrivono tutto, dalle colpe individuali alle barbarie collettive, dalle ferite alle vendette. Ovunque trionfano la violenza, il contrabbando, la criminalità e luoghi come Ciudad Juarez e Tijuana sembrano davvero usciti dalla pancia del diavolo. Sullo sfondo, ma neanche troppo nascoste, le evidenti colpe degli Usa, che dall’altro lato del confine emanano cinismo, avidità, arroganza o debolezza difronte al vizio universalmente diffuso della droga.

Lavori minori, poco conosciuti in Italia, come “La gabbia dorata”, “La Caja”, “Sin Nombre” ti fanno invece conoscere i destini dei tantissimi che soffrono e dei pochissimi che ce la fanno: a passare di là, a saltare sui treni merci o sotto il filo spinato, a sognare un futuro diverso oltre il confine maledetto.

Ecco alcuni dei trailer dei film sul “Confine”:

Dentro il Mostro

Città del Messico non può lasciarti indifferente. Mai.

E’ una città insieme eccitante e terribile, pazzesca e dolorosa, dove ci sono i ricchi più ricchi del paese ma anche sacche di povertà enormi, dove si alternano quartieri borghesi e puliti, coi giardini profumati, le case eleganti, le macchine costose, le gallerie d’arte e i locali di lusso, a periferie senza servizi, senza fogne, senza niente, perse nel fango, a chilometri e chilometri dal centro, dove regnano soltanto la precarietà e la violenza.

Città del Messico raccontata nei suoi film è un po’ tutto questo, una megalopoli interminabile che si sta continuando a mangiare le colline vicine, un luogo che colpisce al cuore, per le opere lasciate dai muralisti e da Frida Kahlo, per gli echi storici, culturali e rivoluzionari, per la vita vibrante che permette, ma è la stessa città che ti impressiona anche per il suo traffico, il suo rumore di fondo, le sue piaghe sociali come i sequestri, come quello raccontato magistralmente in “Man of fire” del 2004.

Nell’intenso film il protagonista Denzel Washington estirpa il male proprio dove sembra non annidarsi e per farlo sacrifica se stesso in un viaggio disperato nelle immense periferie di baracche, di fili elettrici, di panni stesi, di polvere e di regolamenti di conti. Le periferie di Città del Messico, esatto… Quegli agglomerati provvisori, complessi, dove la gente continua ad arrivare perché crede in qualcosa, cerca qualcosa e poi finisce ingoiata dal “Mostro” come la chiama uno dei suoi più abili narratori, Pino Cacucci.

Opere come “Amores Perros” del 2000 non lasciano spazio all’immaginazione o alla speranza, vanno in scena realtà crude, dove destini umani e animali spesso si sovrappongono e si confondono.

Con questi tre piccoli cortometraggi collegati tra di loro Inarritu ci apre le porte della città disperata e borghese, dei combattimenti tra cani e degli amori in declino, delle fughe impossibili dal destino. Un po’ gli stessi temi ripresi dal regista in “Babel” (con l’episodio della badante in fuga sul confine) e “21 Grammi”, in quella che è stata chiamata dallo stesso regista e da tanta critica “la trilogia del dolore”.

Mentre in lavori come “Nuevo Orden” e “La Zona” (rispettivamente del 2020 e del 2007) si esplora l’alto potenziale di conflitto tra le classi sociali differenti che abitano la città: i ricchi e tutti gli altri.

L’elemento di divisione può essere fisico, un quartiere, un muro, oppure casuale, come una festa di matrimonio dove tutto è perfetto, il banchetto, i vestiti, le musiche, le conversazioni. Ma quando la scintilla del conflitto si innesca le conseguenze sono quasi sempre tragiche e violente (e ricordano quelle del film coreano “Parasite”).

In sostanza da questo nuovo cinema messicano affiora netto un messaggio: il “Mostro” ha mille facce e mille luci, tutte mischiate, ma come quando la lasci e dall’aereo vedi tutte queste luci per almeno venti minuti e immagini che delle luci siano di teatri, ville, ristoranti, strade lussuose e altre di fornelli da campo, di candele, di immondizia che brucia, così appare evidente quanto l’equilibrio su cui si regge la città sia veramente sottile e quanto i conflitti latenti possano scatenarsi da un momento all’altro, creando situazioni che vanno dal surrealismo più lieve all’orrore più bieco.

Per finire la galleria dei film dedicati a Città del Messico non può mancare “Frida” (2002) che ripercorre con una Salma Hayek impressionante per somiglianza, l’esistenza tormentata e talentuosa di un artista anticonformista e geniale. Allo stessomodo merita più di un commento “Roma”, un film neorealista, in bianco e nero, ambientato nel 1970 e dedicato alla colonia di Roma nel Districto Federal.

Questa delicata opera di Cuaròn in lingua originale che ha vinto l’Oscar per miglior film straniero, miglior regia e fotografia nel 2019 è un elogio della cultura indigena e meticcia che tanto ha contribuito allo sviluppo e all’agiatezza della grande città e della sua classe sociale più benestante e fortunata.

Lo sguardo si posa di continuo sull’umile lavoro di una domestica india dentro una casa borghese. La camera da presa si fissa per lunghi piani-sequenza sul terrazzo coi panni stesi, sul patio sempre da lavare, sulle stoviglie sempre da pulire, sui bambini coccolati e accuditi in ogni momento, dalla colazione del risveglio alle canzoncine della ninna nanna, dai giochi alle merende fino alle liti.

Cleo dedica la sua vita a quella degli altri e sono teneri i pochi momenti di libertà e vedere come li sfrutta: con passeggiate tra le vie, i negozi, i caffè e i cinema di una città che cresce e che quasi la confonde; col momento di ginnastica e confidenze serali a lume di candela con la sua unica amica; con le sue visite alle periferie fangose dei dintorni dove ha i pochi affetti che contano, dove i bus finiscono nelle pozzanghere, come le continue promesse elettorali conclamate dagli altoparlanti; e con la gita in campagnadove sente tutte insieme la natura e la libertà.

Inevitabilmente Cleo diventa l’anello di congiunzione di una famiglia con dei figli viziati e vivaci, un padre adultero e distratto, una moglie sola e ubriaca per la delusione subita. Cucina e prega per tutti mentre tutto passa sopra la sua vita: un amore ingrato, un figlio nato morto, i terremoti che scuotono la capitale (bello il contrasto della terra che trema mentre Cleo vede da dietro un vetro i neonati che spera un giorno di avere: la vita e la morte che si sfiorano), i moti studenteschi soffocati nel sangue (altra scena di contrasto con dei ragazzi uccisi nel magazzino dove lei sta scegliendo la culla).

Il film scorre via così, come un’elegia di quello che è stato, come un testimone neutrale ma implacabile del tempo, della storia e dei volti contrastanti della grande città (i venditori di palloncini, i ragazzini che corrono, i poliziotti che picchiano), come un racconto anticipato della metropoli che sarà.

Molto bello l’epilogo al mare di Veracruz dove vanno in scena le confessioni finali: la signora confessa ai figli che si sta separando dal marito e Cleo dopo l’eroico salvataggio dei bambini che stavano per annegare, può liberarsi del senso di colpa confessando a quella che ormai diventerà la sua unica e nuova famiglia che in fondo il bambino perso non lo avrebbe voluto.

Da questo momento la domestica india potrà credere nel suo futuro.

Alcuni i trailer dei film sul “Mostro”:

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