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Luoghi magici

Chiamiamolo Uluru

La “scoperta” del monolite

All’enorme monolite rosso che sorge nel cuore dell’arido e sterminato outback australiano è toccato in fondo un destino simile a quello dell’America “scoperta” da Colombo: in realtà essa era stata scoperta da un bel pezzo, dai nativi indiani, ma poi arrivò la colonizzazione del cosiddetto mondo evoluto e quel 1492 sembrò l’ingannevole ed opportunista inizio di tutto.

l'enorme monolite rosso che sorge nel cuore dell’arido e sterminato outback australiano

Come accadde qui, nel Northern Territory, per i geologi la terra più antica del pianeta, una porzione immensa di territorio desertico e infuocato, dove i primi aborigeni sono arrivati addirittura 50.000 anni fa e sono rimasti orgogliosamente isolati da tutti gli altri umani giunti successivamente in Australia. Il loro destino non fu affatto facile perché subirono le brutalità dei coloni arrivati dopo il Capitano Cook come quelle dei galeotti inglesi spediti a vivere quaggiù, ma furono capaci di conservare intatta e segreta la propria cultura, la propria fede e la propria arte che come vedremo appartiene a un tempo speciale, conosciuto come “Il Tempo del Sogno”.

E allora diventa una forma di rispetto chiamare questa montagna arenaria alta poco meno di 350 metri e con una circonferenza di quasi 9 km, Uluru e non Ayers Rock, perché il nome di Ayers gli venne dato soltanto nel 1837 dall’esploratore William Gosse che scalando la sua forma di gigantesca balena ne raggiunse la vetta e dedicò la sua “scoperta” non agli indigeni ma a quello che allora era, più banalmente, il primo ministro australiano.

Ma né Gosse né tantomeno gli occidentali che seguirono, altri esploratori, i curiosi o peggio gli uomini d’affari che costruirono nei pressi di questo miraggio di roccia delle strutture alberghiere o delle piste di atterraggio adatte al turismo di massa, hanno potuto mai capire tutte le leggende e i richiami ancestrali della montagna aborigena Uluru. Perché questa montagna per gli indigeni locali è stata sempre un luogo sacro, un concentrato unico di visioni e di rituali, una patria leggendaria, un crocevia simbolico di tutti quei sentieri che venivano percorsi al “Tempo del Sogno”.

Il Tempo del Sogno

Uluru riti e miti

Cosa è questa dimensione onirica e antropologica? A quali sogni si riferisce? Quale cultura ricorda? Ogni clan, ogni tribù aborigena (detta Arunta) che vive nel bush, nella terra rossa, a centinaia di km di distanza dal villaggio più vicino, faticando a mantenere vive le proprie tradizioni, ricordando a malapena il significato delle pitture rupestri o dei tatuaggi, attaccandosi a una bottiglia d’alcol nelle giornate di evasione a Alice Springs, sentendosi emarginata e dimenticata, derisa e umiliata, in realtà è legata nel sangue e nella memoria a un sistema di antichi totem, di antenati (a volte mitizzati come Giganti Preumani o Enti Supremi) che diedero il nome a terre, monti e fiumi, animali e sterpaglie e che coi loro sogni appunto, quelli che un altro viandante occidentale come lo scrittore nomade Bruce Chatwin avrebbe chiamato “Le Vie dei Canti”, avevano creato il mondo e insegnato alle tribù a viverci in armonia.

Chiamiamolo Uluru

Le Vie dei Canti

Queste piste del sogno, queste millenarie scie e tracce di parole e di note, di cammini e di canti, si incrociavano secondo la cosmologia aborigena proprio qui, sotto la magnifica roccia rossa di Uluru. Chatwin ha seguito tutte queste orme e tradizioni e col suo diario di viaggio più bello e intenso ci ha lasciato insieme un dialogo filosofico e un affresco antropologico che contiene una spiegazione decisiva: l’Australia dei nativi va vissuta come una affascinante partitura musicale che svela coi suoi sentieri spirituali e invisibili la segreta armonia della creazione. E queste vie dei canti sono state per gli antenati nomadi un modo per delimitare il loro territorio e per organizzare le loro leggi e i comportamenti sociali e religiosi. Scrive Chatwin: “La filosofia degli aborigeni era legata alla terra. Era la terra che dava vita all’uomo, gli dava il nutrimento, il linguaggio, l’intelligenza e quando lui moriva se lo riprendeva… Un canto faceva contemporaneamente da mappa e da antenna. A patto di conoscerlo, sapevi sempre trovare la strada”. Una verità semplice ma profonda, che i 200.000 abitanti odierni di questa infinita landa grande come la Francia, l’Italia e la Spagna messe insieme continuano a difendere con gelosia.

Uluru: l’oltraggio delle scalate alla mitologia aborigena

Per decine di anni infatti gli aborigeni hanno osteggiato le scalate dei turisti sulla vetta della montagna. I turisti salivano, fotografavano, ridevano, ruzzolavano, bevevano: tutto in faccia al loro luogo sacro, tutto che diventava un fenomeno di consumo, ben lontano dai canti degli antenati. Per gli aborigeni già il nome Ayers Rock è sempre stato un oltraggio, figuriamoci quelle chiassose invasioni come fossero viste… come una violenza, come una minaccia ai propri riti e ai propri miti. Ai propri Spiriti. E probabilmente alla loro stessa sopravvivenza che sempre meno nei tempi moderni è assomigliata ai sogni.

Il paesaggio sterminato e dolente intorno ad Alice Springs

Il territorio aborigeno intorno a Alice Springs è immenso, abitato più che da uomini da cespugli, canguri e dingo, da serpenti e iguane, e ogni tanto da mandriani burberi che sorvegliano ranch grandi come la Sicilia. Viene solcato dal rombo dei road train, camion paurosamente grandi, bestioni d’acciaio che tagliano orizzonti infiniti. È quella regione lontana da tutto, lontana 3000 Km dalla moderna e opulenta Sidney, dove ancora oggi molti bambini partecipano alle lezioni scolastiche via radio, dove i farmaci si conoscono non per nome ma per numero, dove i medici raggiungono le fattorie isolate a bordo di piccoli aerei, dove i pochi soldi che arrivano si fanno grazie a quadri astratti e colorati, dove gli indigeni vagabondano spesso sporchi per cogliere le piante basse di spinifex per costruirci le capanne. Questo paesaggio umano sa poco ormai di avventura o cultura o di mito della creazione, piuttosto fa pensare a un lento e inesorabile declino. Molto malinconico.

L’unica risorsa dei nativi: le loro pitture

L’unica risorsa dei nativi: le loro pitture

Probabilmente l’unico riscatto di Alice Springs, la capitale nera distante 470 Km da Uluru, The Centre come la chiamano qui per trovarsi nell’ombelico afoso del continente, risiede nelle sue meravigliose gallerie d’arte che espongono tele colorate, pitture ocra e gesso su corteccia e su sabbia. Le tecniche usate dagli aborigeni sono quelle del cross-etching (linee incrociate che spesso indicano viaggi o percorsi spirituali) o del dotting (a puntini) e il loro messaggio artistico è chiaramente quello di riprodurre il Tempo del Sogno, in senso sacro, storico e geografico: la terra per loro è una mappa e solo quando la si disegna o la si canta si definisce ed esiste.
Partendo da accampamenti o luoghi di riposo o pozzi nel deserto (in genere la simbologia per rappresentare questi luoghi è affidata a un piccolo insieme di cerchi concentrici) ogni tribù comincia una sorta di vagabondaggio perenne dell’anima, alla ricerca delle proprie origini, in spazi estremi e antichissimi, solitari o onirici. E spesso questo “walk about” finisce sulle loro tele.

Le tecniche usate dagli aborigeni, il dotting

La notte prima sotto Uluru

Tornando alla vita sotto Uluru quando un clan, in precise date del calendario lunare aborigeno, per rinverdire le sue tradizioni, arriva alla sua patria ancestrale dopo lunghe giornate di cammino, passa la sera prima dei riti – ed è proprio al tramonto che la montagna acquista il suo indimenticabile colore rosso fuoco – a cucinare le prede catturate nel deserto come conigli selvatici ma anche serpenti e topi, a intonare canti, a ballare in trance il corroboree o a suonare i lunghi tubi di bambù chiamati didgeridoo, a raccontare sogni, a pitturarsi il viso e il corpo con scene di caccia e di pesca, a entrare in contatto coi suoi spiriti.

La notte prima sotto Uluru

Uluru per gli aborigeni, Ayers Rock per gli altri

Il mattino seguente mente e corpo degli aborigeni sono pronti per le cerimonie sacre, lo scambio di doni, i matrimoni combinati o altri complessi e misteriosi riti di iniziazione. E allora soltanto loro possono evocare gli spiriti benigni e maligni di Mimi e Mamo, tradurre le incisioni rupestri, raccontare le leggende della lucertola alla ricerca del boomerang smarrito, rievocare le lotte feroci tra popoli nemici, indicare il lago del sangue alle pendici di Uluru o la grotta proibita che non va neanche guardata.

Solo loro possono ritrovare le singole caverne e le pozze e le sorgenti legate al “Dream Time”, solo loro possono riconoscere ogni fenditura nella roccia del monolite, ogni rilievo, ogni colore, ogni cespuglio, ogni animale. Loro, i figli di Uluru, i figli di quello che per alcuni scienziati è l’ultima cosa che resta di una luna terrestre, non i turisti in bermuda e col mega obiettivo Nikon appeso al collo che vogliono arrampicarsi su Ayers Rock come in un Luna Park per una foto-ricordo. Per molti anni l’hanno fatto, fino a 200.000 persone l’anno, alcuni sono morti per infarto, altri per insolazione (in estate qui si arriva ai 50 gradi…), altri ancora per le cadute lungo le lisce pareti, altri forse per aver profanato il monolite?

Uluru per gli aborigeni, Ayers Rock per gli altri

Chiamiamolo dunque Uluru, guardiamolo da lontano, accontentiamoci, guardandolo sussurriamo un sogno nelle orecchie della persona amata e probabilmente il misticismo della montagna sacra e l’energia magnetica del Serpente Arcobaleno che abita sulle vicine 36 cupole dei Monti Olga si impossesseranno davvero di noi. Sarà bello e sarà sufficiente visitarla così l’infuocata Red Zone dell’Australia e vederla colorarsi lentamente di ocra, di oro, di rosso, di arancio, di viola, fino a sprofondare nella notte scura.

P.S
Il Tempo del Sogno è stato ascoltato: a fine ottobre 2019 per volere del governo australiano c’è stata l’ultima scalata sull’enigmatico santuario di Uluru, con la gente in fila come ai tempi della Corsa all’Oro, ansiosa di “sentire” le ultime vibrazioni. Gli aborigeni della Never Land ringraziano e continuano sicuramente più sereni di prima il loro walk about alla ricerca delle Vie dei Canti dei loro antenati.

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