Città flamenca

Il Flamenco nasce, ancora una volta, da una contaminazione: quella del cante hondo, intriso di motivi popolari andalusi, con l’estesa, passionale e variopinta cultura gitana. Come gli alcazar, come i patios, come lo stile mudejar, come le ricette della cucina locale. Diventa la musica e il canto dell’Andalusia, il suo cuore artistico, quel ritmo inconfondibile, quella passione insopprimibile che si sente per le strade e per le notti di Siviglia, di Cordoba, di Granada e di Cadice. Che risveglia dal loro sonno i pueblos blancos delle colline, che accompagna i pellegrinaggi gitani e le feste più folkloristiche della regione.

Le melodie sensuali delle chitarre che ascolteremo unite al flamenco secoli dopo arrivarono in Europa via Andalusia via Arabia. La prima scuola musicale di un certo rilievo fu quella fondata nel ‘300 a Cordoba con Zyrab. La stessa musica flamenca ha origini moresche perché la sua cadenza ricorda quella del richiamo musulmano alla preghiera, in più ha degli indubbi connotati gitani perché è capace di esprimere una forma di passione forte, quasi mistica, che confina spesso e volentieri con uno stato d’estasi e di trance emotiva.
Nato come genere musicale alla fine del ‘700 il flamenco non era una forma di spettacolo come oggi, serviva più che altro a sfogare emozioni, gioie e dolori in un linguaggio intimo, spesso sofferente, accompagnato dal solo battito delle mani e dei piedi, dallo schioccare delle nacchere. Le voci migliori che lo hanno accompagnato nei tempi moderni non sono state mai soavi, bensì roche, ruvide, capaci di tendere naturalmente al grido, al lamento, al pianto. La chitarra migliore è stata sicuramente quella di Paco de Lucia. E poi ognuno di noi può avere il suo pallino, da quel personaggio romanzesco che è stato il Camaron de la Isla (il suo disco “Soy Gitano” è stato il più venduto nella storia del flamenco) al famoso complesso dei Gipsy Kings nato nella Francia del sud ma cresciuti nella cultura spagnola e gitana dell’Andalusia, fino al fantastico gruppo dei Luna Negra di Otmar Liebert, forse quello che ascolto di più, per ore e ore, quando scrivo e leggo e sogno di Spagna.

(sopra e sotto una foto di Paco de Lucia e un murales dedicato al Camaron de la Isla: immagini prese da wikipedia)

Per ascoltare “Soy Gitano”

Per ascoltare “Un amor” dei Gipsy Kings

Il flamenco va ben oltre l’evento puramente artistico, in Spagna e nel mondo è diventato un fatto di stile e una moda. Grande protagonista è l’abito della ballerina, col suo trionfo di pizzi e di balze, quei pois rossoneri che ricordano la cultura e la sensualità gitana, gli accessori fondamentali quali le robuste scarpe chiodate per pestare bene il tablao, i grandi orecchini e le collane e i bracciali da esibire luccicanti, i ventagli da muovere con grazia o con impeto, le nacchere a dare il ritmo, gli scialli finemente ricamati, i fiori e i piccoli pettini tra i capelli. Tutto crea un look provocante, estroso e sfacciato.
Se il flamenco tutto (canto, musica, ballo, costume) merita una chiosa è questa: il suo segreto più che nella tecnica risiede nell’interpretazione, più che nella bravura sta nel sentimento, nella generosità dell’esecuzione. Questi artisti sono stati capaci di trovarsi e di isolarsi, di esprimere una gamma infinita di sentimenti, di ricordi, di nostalgie, sospesi tra la sensualità e la drammaticità.
Forse è per questo che piace così tanto.
Siviglia a tavola
A tavola Siviglia può significare molte esperienze, molti colori e molti sapori, soprattutto mi è sembrata una celebrazione del campo col suo formidabile gazpacho, una squisita minestra fredda di verdure condita con olio al crudo e erbe e con sparsi ai bordi del piatto, tagliati a pezzetti o a striscioline, tutti gli ortaggi riunti e mescolati nella vellutata di base: peperoni, cipolle, melanzane, zucchine, pomodori…
Eccezionali anche i formaggi e i salumi, le olive, le acciughe e i gamberi, le polpette, le tortillas, tutte quelle tapas (da “tapado”, il boccale di vino tappato, coperto con una fetta di cacio o di salame) diventate nel tempo un fenomeno culturale oltre che culinario e una sfida perpetua tra i sapori andalusi e quelli baschi, catalani o castigliani. Come bevanda, manco a dirlo, la sangria all’arancia.

La riserva naturale
Il Parco Nazionale del Coto Donana è un vero santuario della natura, soprattutto per la presenza delle sue dune, delle aree paludose e delle sue mille specie di uccelli. Gli appassionati di birdwatching arrivano qui da tutto il mondo, in quella che una volta era la riserva di caccia di alcuni marchesi locali, per ammirare gli stormi migratori dall’Africa che vengono a riposarsi alla foce del Guadalquivir. Tra i boschi di pini ed eucalipti e la macchia mediterranea nei 750 kmq del Coto Donana vive anche la rarissima lince, oltre ai daini, ai cerbiatti e ai cinghiali.


(due immagini del parco naturale prese da wikipedia)
L’intero ecosistema con le dune mosse dal vento, gli stagni coi fenicotteri, i canneti e le querce da sughero dove nidificano cicogne, aironi, gru, nibbi e poiane e aquile imperiali, oche e anatre e pochissime coppie di delicati fenicotteri, ricorda quello della nostra Maremma. Va protetto dalle forme di turismo invadente, dalle strade e dal cemento, dagli scarichi inquinanti nelle acque, per lasciarlo così libero e bello nel sole e nel vento.

Pellegrinaggio gitano

Ma il Parco forse cattura ancora di più per il suo elemento umano: è proprio qui infatti, nella zona di Almonte, che ogni anno tra la fine di maggio e l’inizio di giugno si riversano fra la macchia e i canneti, le spiagge e le paludi, migliaia di gitani che a bordo dei loro carri trainati da buoi o al trotto di bellissimi cavalli selvaggi raggiungono il santuario della Madonna del Rocìo, chiamata la Paloma Blanca.
Il pellegrinaggio di Pentecoste è davvero sentito, è’ un tripudio di colori, di musica, di ardore religioso, di cultura gitana che si esibisce in riva al mare, nei boschetti o nelle sere attorno a un fuoco. Con le danze sevillanas, coi versi lamentosi del flamenco più autentico che esiste, con gli sguardi ammaliatori delle zingare, coi loro vestiti ampi e scintillanti, coi fiori che ricoprono queste carrozze strapiene di bambini, di stracci, di pentole, di unguenti, di carte da indovini.

Pare che il record di presenze mai raggiunto di fedeli in pellegrinaggio al Rocìo sia di un milione di persone, una massa incredibile, variopinta, adorante di confraternite di gitani provenienti da Siviglia, da Cadice, dal resto della Spagna, dalla Francia del sud e qualche volta da più lontano, che cantano la loro Madonna e affermano la loro identità. Le donne con gli abiti tipici del flamenco, gli uomini col traje campero che ricorda il costume dei nostri butteri.
Il Camaron de la Isla era l’idolo del Rocìo, l’ospite fisso, benvenuto in ogni accampamento, a ogni focolare, a ogni banchetto. Si metteva en camino coi gruppi di gitani, nel paese dei caminos: a nord quello spirituale di Santiago, che racconteremo alla fine di questo “Diario di Spagna”, a sud quello della religione e del folklore gitano.
C’è un forte senso di comunità e di condivisione e di commozione in questo camino al Rocìo, l’Andalusia gitana ci si riconosce, si conta e si racconta, si aiuta e si diverte, si abbraccia, piange, ride, balla, canta, beve e dorme sotto le stelle. I buoi arrancano sui sentieri fangosi, i cavalli si fermano a mangiare nelle praterie, gli zingari si godono ogni tappa, ogni musica e ogni notte. Qualcuno viene battezzato, altri partono per il cinquantesimo camino della loro vita. Bello come il primo, emozionante come il prossimo. Ad attendere e a sollevare il baldacchino con la Madonna ogni anno un mare di braccia.


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