Finisterre
Fino a che ci arrivi.

Dove la terra lambisce il freddo e grigio Oceano, dove i borghi dei pescatori ti aspettano silenziosi e incastrati in fondo alle rias gallegas, le versioni spagnole dei fiordi norvegesi.
Dove la Spagna ha poco della terra solare e meridionale che siamo abituati a immaginare, dove il paese è anzi lontano dai suoi stereotipi di movida, di corrida, di paella, di flamenco e di chissà cos’altro.
Dove la vita è di provincia, il clima piovoso e umido, la gastronomia basata sul pesce e sui frutti di mare una vera prelibatezza, le tradizioni marinare altrettanto forti e sentite di quelle sparse sull’immenso e arido altopiano centrale della Castiglia.
Dove gli uomini una volta emigravano in continuazione, specie verso l’Argentina, più di recente verso le Canarie, ma dove oggi secondo nuovi studi tanti altri stanno sognando di tornare, nei piccoli villaggi, nei loro 1.200 chilometri di coste frastagliate, di spiagge fredde, di boschi verdissimi, nel cuore della natura fra le più belle di Spagna.
La conquista del Cabo di Finisterre coi miei amici ai tempi dell’Università avvenne a bordo della solita mitica Panda azzurra, che nella sua vita ha senz’altro percorso più chilometri nella penisola iberica che in quella italica. Tra il vento che sibilava forte, gli schizzi delle onde misti a quelli della pioggia, scattai una delle foto che ho amato di più nei miei viaggi: “Preghiera tra le onde” la chiamai e ritraeva delle monache che esponevano le loro tuniche sulle scogliere nere, in faccia ai flutti e ai temporali. Timorose di nulla, solo di proteggere fattezze e volto nell’estremo nord-ovest spagnolo.

Quando ripenso alla Galizia la foto che provo a riprodurre sfocata (qui sopra) è la prima immagine che mi viene in mente. E mi regala memorie di viaggio, di serenità e di missione compiuta: eravamo dunque arrivati alla fine della Spagna. Al luogo adatto a una preghiera tra le onde, a una invocazione al mare, la stessa che probabilmente hanno rivolto al grande oceano i pellegrini di tutti i paesi dopo la visita obbligatoria compiuta a Santiago de Compostela, distante solo 90 km e altri tre giorni di camminata.


Rìas Altas
Già perché dopo l’essenza artistica e religiosa di Santiago qui apriamo un altro capitolo della Galizia: quello della regione sul mare. Un viaggio che si deve assolutamente fare per completare la conoscenza della Spagna.
Prima e dopo l’esperienza ai confini del mondo di Finisterre si visitano i fiordi della Galizia.
A nord del mitico promontorio, nella zona cantabrica di El Ferrol, porto industriale abbastanza anonimo, sede principale della Marina spagnola, si scoprono con meraviglia tanti piccoli villaggi colorati che fanno, letteralmente, compagnia al mare. Un mare forte da queste parti, freddo e ventoso come solo l’oceano sa essere. Le barche rosse e blu vanno a caccia di pulpos y mariscos, che la sera si traducono in formidabili ricette nei piatti delle osterie. Il pulpo a la gallega è ormai famoso in tutto il mondo per esempio, ma nasce come tapas galiziana e così i frutti di mare di queste parti possono essere sfidati solo da quelli che si trovano nei Paesi Baschi.

Non mi ricordo tutti i nomi dei paesini attraversati nei Fiordi Alti ma erano degli acquerelli rivisti solo in Irlanda o in Cornovaglia, erano sulla costa vicino Cedeira, nei pressi del promontorio di Ortegal, nella pittoresca Estaca de Bares dove passammo una notte in spiaggia con un gruppo di spagnoli ad ascoltare l’oceano ruggire, nel mare di pescatori di Vivero che regala milioni di mariscos e di mejillones, le nostre cozze.

I ricordi sono tanti, a volte frammentati, come le curve percorse, le onde viste, le piogge prese. Il quadro d’insieme è comunque fra i più autentici che escono dal personale “Diario di Spagna”, chiudo un attimo gli occhi e la Galizia così verde, lontana, marinara è ancora tutta dentro di me.

La Coruna che si protegge dal vento
Nei viaggi tutti basati sulla natura a volte le ore trascorse in città sono delle liete parentesi e di vere città di mare, pulsanti, popolate, divertenti in Galizia ce ne è soprattutto una.
La Coruna è la città più commerciale della Galizia, nata e cresciuta intorno al suo porto, ai traffici via mare. Innanzitutto ha un monumento romantico e rarissimo, l’unico faro romano al mondo ancora in funzione, la sua Torre di Ercole, che simboleggia storie antichissime di navigazioni e di conquiste.
Poi merita almeno la visita di una giornata per una passeggiata lungo le due baie di spiagge ventose, per una degustazione della squisita cucina marinara e per delle foto da scattare sotto le case signorili con le ampie verande vetrate che si affacciano sul lungomare di Avenida de las Marinas.
I gallegos le chiamano galeries e hanno il compito di proteggere le abitazioni dal vento e dalla pioggia di un clima spesso, molto spesso, capriccioso.
Lo scenario è da Europa del nord ma è uno di quelli dove l’aria fresca e il profumo del mare ti fanno stare bene.


Rìas Bajas
Da La Coruna a Cabo Finisterre intercorrono un centinaio di chilometri se si scelgono le strade interne, più o meno il doppio se si compie la scelta (migliore) di seguire il profilo frastagliato della Costa della Morte, quella dove non si contano le croci tra le scogliere, a memoria di pescatori morti in mare, di raccoglitori di percebes caduti dalle rocce, di naufraghi che hanno ceduto alle onde, di equipaggi di navi finiti male.
Ecco il porticciolo e la spiaggia di Malpica, le sagome delle selvagge isole Sisargas che sono una riserva per uccelli marini, il cosiddetto Cammino dei Fari che permette di fare un bel trekking panoramico tra le dune erbose, il mare, i piccoli cimiteri, i greggi al pascolo, i resti di alcuni fortini e le orgogliose torri con la luce che hanno sempre salvato tanta gente.

Una sosta più lunga la merita il villaggio di Camarinas, popolato da pescatori e abili merlettaie che tessono tovaglie e sciarpe, da bambini vivacissimi che giocano a pallone sulle fredde spiagge e che trepidanti aspettano il ritorno serale delle barche per indicare per nome tutti i pesci pescati da padri e nonni silenziosi e rugosi.
I più ardimentosi tra loro tornati a terra cercano ancora di sfruttare il mare e si calano con delle corde lungo le scogliere per cogliere i percebes, frutti di mare che assomigliano a degli artigli di un drago, tanto brutti quanto buoni e rari, che crescono aggrappati alle rocce più alte invase dalle onde oceaniche.
Poi arriva appunto il Cabo coi sentimenti che solo lui può suscitare, col suo senso di paesaggio estremo e finale. Con la sua croce e il suo faro. Col suo silenzio.
Secondo la mitologia greca al suo largo cominciava il paese dei morti, qui davanti si fermarono dubbiose anche le legioni romane e il mare oggi sembra anche a noi una massa grigia e immensa, un preludio reale a un altro mondo. Mi spiegano che le piccole tracce di falò vicine al Monumento allo Scarpone sono i resti dei calzini bruciati dai pellegrini che si spingono fino a qui, in un ultimo tratto di Cammino e in un ultimo gesto catartico.
Più a sud, nelle curve pittoresche tra Muros e Noya non sai se guardare di più il mare o la campagna, le onde o le fattorie, le barche o le mucche e i cavalli. Il verde e il blu si abbracciano di continuo. La dimensione della Galizia capisci qui che è davvero bucolica.
E’ questa la regione dei Rias Bajas, dei Fiordi Bassi: meravigliosa, primitiva quasi.
Si dice che la spiaggia del campo di stelle dove fu ritrovato il corpo dell’apostolo Giacomo fosse proprio da queste parti, tra i fiordi Noya e d’Arosa. Gli stessi fiordi dove nelle trattorie si cucinano pesce, frutti di mare e le iconiche conchiglie del santo, che hanno il sapore delle capesante, in maniera sublime.
Nelle Rìas Bajas la memoria di tradizioni secolari è affidata a piccole e originali costruzioni rettangolari di pietra, gli horreos, usati da sempre per custodire il grano dalla forte umidità e dal tempo bizzarro che imperversa sulle coste della Galizia.

Il paesaggio parla.
Parla di sensazioni di solitudine e di malinconia, di forme di vita antiche e selvagge. Per secoli si pensava che oltre queste coste scure dell’estrema frontiera occidentale di Spagna non ci fosse niente, che qui appunto ci finiva la terra, il mondo conosciuto.
Poi venne l’epoca di Colombo e degli altri grandi navigatori a disegnare nuovi orizzonti.

Il finale
Pontevedra è un porto sul mare, suggerirebbe una deviazione nelle sue campagne, per vedere da vicino un’altra folle festa spagnola, “A Rapa das Bestas”: nel borgo di San Lorenzo da Sabucedo i giovani si aggrappano ai cavalli dentro un grande recinto, per tagliare loro code e criniere ed esibirle, magari a una bella ragazza gallega, come trofeo o pegno d’amore. Ma non abbiamo più tempo e ci accontentiamo di leggere qualcosa in merito.
Vigo dopo tanta clamorosa natura segna soprattutto il ritorno alla civiltà e per me l’ultima cartolina di questi incredibili ed emozionanti viaggi spagnoli. L’Italia del Mundial ’82 cominciò qui coi suoi tre pareggi il suo futuro clamorosamente vincente. Dagli spalti del Castello del Castro guardo quella che è forse la mia ultima Rìa, la mia ultima insenatura in Galizia, l’ultima luce oceanica. Gli abitanti locali amano raccontare che i fiordi nella loro regione furono creati da Dio il settimo giorno della creazione, quando posò le dita sul paradiso terrestre per riposarsi…
Rifletto il tempo di un temporale gallego su tutta la Spagna vista e mi accorgo che alla Spagna, a tutta la Spagna, devo dire solo una cosa: Gracias!


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