Il colore di Mirò
Lo chiamavano il pittore della felicità e i motivi sono più che evidenti: “col suo surrealismo gioioso, Joan Mirò fece vibrare una nota di speranza in un’epoca segnata dagli orrori delle guerre” (Giulio Siro, “Meridiani Barcellona”). L’arte elevata a sogno, fuga e bellezza, il colore contro il grigio della vita e della politica e degli odii tra nazioni, la fantasia, l’allegria e i voli della mente capaci di sconfiggere da soli, fino alla veneranda età di 90 anni, la realtà di tempi difficili, cruenti e spesso incomprensibili.

Nativo come l’altro genio catalano Gaudì della provincia di Tarragona, il piccolo Joan si dimostra da subito molto vivace, estroso e assai abile nel disegno, soprattutto quello plasmato dalla luce, dal sole, dal mare e dai colori della bella isola di Maiorca dove scappa appena può nella casa della nonna materna, a riempirsi il cuore di immagini mediterranee. Capita spesso, ed è fondamentale assimilarlo come passaggio per provare a interpretare un percorso artistico, che il genius loci, in questo caso delle serene e azzurre Baleari, influenzi fortemente una personalità, un mondo interiore, un modo di esprimersi. Stessa cosa può dirsi del borgo campagnolo di Montroig, situato vicino a Tarragona, quel piccolo e amato universo, archetipo della natura catalana, di cui il giovane Mirò è capace di ritrarre ogni dettaglio, ogni foglia, ogni animale da cortile e ogni mattone. Opera simbolo in questo senso “La Fattoria” acquistata da uno scrittore che amava molto la Spagna, Hemingway.
Sulle orme di Gaudì
I genitori provano ad avviarlo a una carriera commerciale ma la sua natura resta sognante e poetica e Mirò preferisce dedicarsi alla pittura, frequentando fino al midollo l’ambiente alternativo e bohèmien delle Ramblas. Proprio come Gaudì Mirò trova un mecenate, il mercante d’arte Dalmau, che gli permette di organizzare la prima mostra dove si scatena il suo segno inconfondibile, il suo tratto un po’ rivoluzionario e un po’ naif, dove il colore acquista da subito un ruolo esplosivo e fondamentale. In pratica la riproposizione su tela del segno architettonico di Gaudì, del suo gioco vorticoso e policromo, ugualmente ludico, ugualmente aperto.
Un esempio chiaro di questa fase dedicata alla leggerezza e all’esplorazione del fantastico è il quadro “Il Carnevale di Arlecchino”, pieno di simboli, di buffi mostri, di stelle, di occhi. Più eterea “La Bagnante”, più onirico “Nudo”, più filosofico e spirituale “Fondo Blu” che se vogliamo tentare un paragone affascinante forse ricorda in letteratura le “azzurre lontananze” del poeta romantico tedesco Novalis.
Un collage surreale come difesa dal reale
Mirò è davvero aperto alle influenze più varie, si “abbevera” a varie fonti, le geometrie cubiste di Picasso, le opere di Chagall e di Stravinskij, il mondo dei balletti russi e dello scrittore surrealista Andrè Breton conosciuto nei frequenti soggiorni parigini, il paesaggio dipinto dai pittori della grande scuola olandese di Vermeer, e allo stesso tempo libera la sua arte nella cosiddetta forma del collage che sparge sul quadro colori, figure, animali, elementi astratti, come in un teatro di bizzarri personaggi.
Ma ridurre la sua arte a macchie di colore, temi infantili, funambolici e ingenui, privi di uno schema, di un progetto, di un calcolo, sarebbe un grossolano errore, perché coi suoi quadri Mirò affronta in modo gentile e candido le assurdità della vita, creando nuovi spazi, nuovi sogni e nuove possibilità. Una specie di forma d’arte nuova, quella che la critica d’arte Laura Papa chiama di “pittura-poesia”.

Dopo le delusioni della Guerra Civile spagnola manifestate nel suo ciclo più aspro, quello dei cosiddetti “dipinti selvaggi” (e qui il riferimento non può che essere la celebre Guernica di Picasso…), dopo il dolore causato dalla Seconda Guerra mondiale, Mirò diventa più introverso e meditativo, si rifugia in Francia e allo stesso tempo nel mondo e nel ciclo pittorico e lirico delle Costellazioni, che Giulio Siro definisce “uno squarcio poetico di commovente intensità, canto d’amore per la bellezza e per il mistero che si alza sopra la pagina nerissima della nostra storia recente”.
Possiamo chiamarlo periodo minimalista, di certo nelle piccole cose, nell’immagine tranquilla della notte e dei piccoli astri sparsi nel cielo, Mirò intravedeva tutta la purezza possibile. Come nei dipinti “La scala della fuga” o nel bellissimo “Risveglio all’alba”, così pieno di figure femminili, mezzelune e uccelli.
L’approdo alla scultura
Il fiume della creatività del genio catalano arriva più tardi negli Stati Uniti d’America e si esprime anche con la scultura, con forme metalliche, lucenti, ispirate alla natura, adottate dalla pop art, dal mondo nascente ed effervescente dei muralisti, dei pubblicitari e dei grafici. Finchè nel 1976 ecco il regalo più sentito a Barcellona: nasce nel parco del Montjuic la famosa Fundaciòn, casa, museo e regno indiscusso delle sue opere e del suo talento.
Anche da vecchio Mirò continua a creare, a sognare, a inventare, a sperimentare. Con le sue code di aquiloni, le sue figure zoomorfe, il suo senso interno del ritmo, coi colori più accesi, coi bronzi, con la pietra, con le ceramiche, addirittura con gli scarti dei materiali da costruzione (e qui è evidente l’altra somiglianza con Gaudì, per esempio nella panchina a onde del Parc Guell).
All’entrata del suo atelier che contiene tra le varie arti figurative e plastiche sperimentate da Mirò oltre 10.000 pezzi, l’artista fece appendere un cartello con su scritto “Questo treno non fa fermate”. Fu questa la sua principale cifra stilistica, l’essere capace di creare un linguaggio artistico sempre nuovo, emozionante e stravagante.

(il pavimento dedicato a Joan Mirò sulla Rambla di Barcellona, immagine presa da wikipedia)
E un carattere dinamico come quello dei catalani come fa a non adorarlo un artista del genere? Colori come quelli della bandiera catalana, il giallo, il rosso, il blu, i più usati guarda caso da Mirò, come fanno a non appartenere all’anima della città? Come può in queste storie appassionate non scattare una scintilla? Come non possono eternarsi nella cultura catalana opere come “Il sorriso dalle ali in fiamme” o “L’oro dell’azzurro”?
Amore eterno quello tra Mirò e la sua Barcellona.

I grandi panorami
Dopo i suoi due più grandi artisti non possiamo che descrivere Barcellona coi suoi principali panorami. Sulla collina del Tibidabo si sale con una teleferica e dalla grande ruota panoramica la vista abbraccia tutto fino al mare. Sul Tibidabo ci si va anche per visitare il Tempio del Sacro Cuore e l’Osservatorio astronomico. La città si apre grande, luminosa, un bel posto in cui vivere.

Anche sulla collina del Montjuic si sale con una teleferica o con una scenografica scalinata percorribile a piedi. Quassù si trovano il Castello, il Museo Fondacion de Mirò, El Palau Nacional ovvero il Museo d’arte principale della Catalogna, lo Stadio Olimpico e El Poble Espanyol, la suggestiva ricostruzione di antichi angoli e villaggi del paese, dalla Galizia all’Andalusia, nel cui perimetro è ospitato anche il Museo delle tradizioni popolari. Più in basso le Torri gemelle di Plaza de Espana costruite nel 1929, la Font Magica con spettacolari giochi d’acqua, il polo fieristico di Barcellona e la grandiosa Plaza de Toros, anche se le corride a Barcellona non hanno mai impazzato come nel resto del paese.


L’Arco di Trionfo si ammira sul grande viale del Passeig de Sant Joan, arrivare qui significa passeggiare anche nel grande parco verde della Ciutadella, con lo zoo e i musei scientifici. Barcellona si fa elegante, civettuola, monumentale e in certe strade può sfidare tranquillamente in bellezza e grandiosità anche Parigi.

Finiamo con le torri della Barcellona del futuro che si stagliano all’orizzonte e difronte al blu del Mediterraneo. Davanti a un panorama del genere capisci che la città non ha mai rinunciato a niente, alle architetture moderniste come all’orizzonte del mare. Che ha un cuore grande, un respiro grande e che ti aspetta negli angoli e nei quartieri più diversi per emozionarti ancora.

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