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Dolce Svezia del Sud

Il ponte volante

Il mio ritorno in Svezia con la magia di Stoccolma ancora negli occhi (vedi Topic “Metropolis” con il pezzo dedicato alla bellissima capitale svedese) stavolta è via terra e l’obiettivo è gironzolare qualche giorno nelle tranquille campagne del sud del paese. La stagione è pre-estiva, di quelle senza gelo pertanto, coi prati fioriti, i panorami rilassanti, l’acqua del mare e del lago al suo posto, gli alberi sempre protagonisti.

prati fioriti, i panorami rilassanti, l’acqua del mare e del lago al suo posto

Percorro con l’auto il tunnel e il ponte che unisce Copenaghen a Malmoe alla modica cifra di 90 euro per il passaggio (!!). La prima vista è quella di un’isoletta artificiale che ti accoglie con una luce incredibile, quella del mattino dei cieli nordici, con le nuvole che vagano basse e corrono veloci. Per quasi otto chilometri ti sembra di volare nell’azzurro, circondato da squadre di romantici gabbiani, sul ponte sorretto da cavi più lungo del mondo.

Campagna svedese

Atterro nel verde. Dopo una visitina veloce al castello, alla chiesa principale, al grattacielo a forma di spirale e alla spiaggia di Malmoe lascio l’autostrada non appena posso, nel punto dove una strada bianca si perde nel nulla. Tanto per allungare il tragitto di un paio di orette. Ma voglio regalarmi un ritmo lento, strade di campagna di un verde splendente, dove il vento è conteso tra vecchi mulini ed enormi generatori eolici e nuvole minacciose e gonfie si alternano a schiarite spettacolari. Voglio arrivare a Falkøping, verso nord.

Fiuto il Baltico, la costa più meridionale della Svezia. Direzione Trelleborg, dove arrivano i traghetti dalla Germania, vi sono i resti di una fortezza vichinga circolare e un gruppo di buontemponi vive oggi come facevano i vichinghi allora. Sono al mare, nelle giornate più lunghe dell’anno, e fuori fanno sei gradi. Sulla litoranea si susseguono, senza soluzione di continuità, campeggi già affollati, cunette e dissuasori per la velocità, locali notturni. E un silenzio, un silenzio spettrale, interrotto solo dai versi dei gabbiani. Seguendo la litoranea arrivo a Ystad. Avessi più tempo mi imbarcherei per l’isola di Bornholm, appartenente alla Danimarca, di cui raccontano meraviglie. Invece mi aggiro per un’isola pedonale dove stanno aprendo i primi caffè e mi perdo tra vicoli in ciottoli, meravigliose case a graticcio e grandi edifici di mattoni rossi.

La nave misteriosa

A Ystad le strade hanno nomi curiosi

A Ystad le strade hanno nomi curiosi: “vicolo dei goccetti”, “vicolo degli imbroglioni”, “piazza dell’assistente del boia”, “strada della pompa”, “vicolo della campana”, “vicolo della pillola”. In piazza montano i banchi del mercato. Arrivo troppo presto per sentirne le voci, ma troppo tardi per sentire le note del corno di rame della guardia notturna che, da secoli, ogni quarto d’ora suona da una finestrella della chiesa principale. Vari gruppi di adolescenti dai lineamenti stupendi si dirigono a piedi verso il porto, per andare a Bornholm o in Polonia. Io invece vado a visitare una nave molto più antica, adagiata in cima a una collina, circondata dal verde, vista mare. Sto parlando di Ales Stenar, che fino a ieri non sapevo fosse la Stonehenge svedese. Si tratta di un mucchio di 59 pietre adagiate nel verde, disposte in maniera ovale, a forma di nave, lunga ben 67 metri. Non si sa a cosa servisse. Esclusa la funzione di tomba, si ipotizza quella di calendario. Leggo sulla Lonely Planet che le pietre più grandi, la prua e la poppa, indicano esattamente i punti in cui il sole tramonta nel solstizio d’estate e sorge in quello di inverno. Quando arrivo, il sole spende alto, il verde è abbagliante, tira un po’ di vento. L’atmosfera giusta per immaginarsi avventurosi viaggi nel Mare del Nord.

Ales Stenar, che fino a ieri non sapevo fosse la Stonehenge svedese

Come in Canada

Nel paesino sottostante, Kaseberg, case in legno, poca gente per strada e un porticciolo, minuscolo, che per associazione di idee mi ricorda vagamente Telegraph Cove, in Canada, a Vancouver Island, dove partii per vedere tutto il carisma delle orche nuotare in quadriglia. Me lo ricorda anche per l’odore intenso di alghe, i gabbiani e le casette in legno rosso scuro. Come se, a migliaia di chilometri di distanza, i pescatori avessero voglia degli stessi colori. E come se le spiagge baciate dalle acque fredde, parlassero lo stesso linguaggio di dune, di foreste e di vento. Spiagge bianche che attirano, qui come lì, per la potenza della natura, per il senso di wilderness, non certo per la voglia di tintarella.

Se incontri l’alce

Lascio spiagge e colline ondulate per andare verso nord, non ci metto molto ad essere circondato da milioni di conifere, ai due lati di una strada dritta e monotona. Il pensiero corre in questo caso ad altri luoghi della Scandinavia e del Nord America. Le strade sono come quelle ferrovie finlandesi che puntano a nord come una freccia, come le piste dello Yukon dove la distesa di alberi sembra non aver mai fine. Tutto intorno ecco un mare verde, fitto e buio, sento la stessa impressione di mistero, la stessa sensazione di impotenza di fronte a una natura che fa quello che vuole, che cresce libera, vigorosa, a tratti inquietante. Per evitare una strage di animali, soprattutto alci, le foreste ai lati dell’autostrada sono recintate per chilometri. Sono lì anche per proteggere gli uomini, perché un alce pesa quattrocento chili e se si butta in mezzo alla strada e lo prendi, rischi grosso anche tu.
In un paio d’ore arrivo al parco naturale di Store Mosse. Mi regala ulteriore silenzio, millenni di muschio, una lunghissima passerella in legno su un terreno umido e infido, uccelli di ogni tipo, migliaia di libellule, conifere, betulle rosse, odor di legno e funghi. Paesini piccolissimi che capisci di esserci arrivato solo perché le casette in legno con le verande bianche aumentano leggermente di numero. La sensazione di una vita intima, pulita, perfetta. E in più, dal nulla, su un prato illuminato, compare una chiesa di legno rossa, la mia prima Stavkirke, un capolavoro di semplicità. Nella macchia timidi spuntano due cerbiatti, l’alce invece non riesco a vederlo. Un leprotto vicino a un cespuglio rosicchia non so cosa. Poco più in là migliaia di tronchi segati: andranno a rifornire l’Ikea?

In un paio d’ore arrivo al parco naturale di Store Mosse

Carnevale inaspettato

Capito nella silenziosa e noiosissima Värnamo nel giorno più rumoroso dell’anno. Sì, perché questi scandinavi sono strani, anche a Copenaghen accade. Fanno come l’indimenticabile giudice Montenegro della saga andina di Manuel Scorza. Spostano le date del calendario per poter festeggiare quando hanno voglia. Arriveranno, come nel romanzo “Il cavaliere insonne”, ad accorciare gli anni per festeggiare di più? E così il carnevale cade alla fine di maggio o all’inizio di giugno, perché sono le settimane dal tempo clemente. E quindi per le vie di Värnamo, battute ironicamente da un inclemente acquazzone, si aggirano scuole di samba, ballerine scosciate, percussionisti scatenati, majorettes venute da Helsingor, orchestre di flauti. Tra maschere e costumi in piume di pavone, odore di croccante e zucchero filato, tutto il paese è in piazza ad assistere all’evento dell’anno, circondato da giostre che non vedevo da secoli, tiri a segno, macchine volanti, roba da luna park degli anni Cinquanta.

Natura da soli

La luce del nord colpisce ancora. Mi alzo alle cinque e in venti minuti sono in viaggio. Nessuno per strada, ovvio. Sei gradi e rugiada. Ho solo un paio di cose da vedere, per il resto seguirò l’istinto, le strade più contorte, i segni nascosti sulla cartina. La prima sosta è nei pressi di una chiesa cistercense, metà in pietra bianca, la parte inferiore, metà in legno, il tetto e l’intero campanile. E’ circondata da un silenziosissimo e poetico cimitero che non ha più senso chiamare all’inglese, perché se ne vedono in tutta Europa di così belli. Poco oltre incontro altri tre cerbiatti, appena mi avvicino si spaventano e scappano, bellissimi, saltando, dalla radura verso il bosco che li proteggerà.
I segnali stradali indicano che sonno arrivato nella Vetland, la terra umida. Sarà una giornata vagabonda, chilometri percorsi tra terra e acque, pietre runiche e chiese in legno, natura e mistero.
La seconda chiesa che incontro da noi sarebbe una modesta parrocchia di campagna di nessun interesse: in legno, tutta rossa, con un campanile snello. Ma vedere chiese rosse, anche se mi ci sto abituando, mi fa un certo effetto. Alle spalle il verde della radura, la fila di alberi scuri che la chiude. Oltre, il lago. Su una piccola collina un’altra pietra con incisioni runiche. Se ne trovano tante di pietre con questo alfabeto da Signore degli Anelli. La maggior parte sono state interpretate ma alcune no, restano un mistero, un codice vikingo tutto da scoprire. La ammiro e proseguo, perdendomi in stradine sempre più strette. Infilo nello stereo la colonna onora più adeguata, Into the wild di Eddie Vedder, il mio disco da viaggio preferito in assoluto.
Continuo a notare tante, troppe fattorie isolate e allora parte la riflessione. Nella Svezia meridionale la scelta è quella di affrontare la natura da soli. Forse anche per questo ne è rimasto il timore, e il rispetto. Raramente la natura l’ho vista così amata come da queste parti. Violata solo con case e granai in legno, anche esse quasi sempre di color rosso scuro. Mi immagino famiglie che vivono dei prodotti del campo e del bosco, che riuniscono i figli in qualche scuola o in qualche stavkirche per i momenti sociali, che prendono il largo con una barchetta e i loro pensieri, che vedranno prima o poi i figli andare a studiare a Stoccolma, a Goteborg o a Malmoe.

La terra del Robin Hood svedese

Ecco Eksjö, dove la parte vecchia, sopravvissuta a tutti gli incendi della storia

Ecco Eksjö, dove la parte vecchia, sopravvissuta a tutti gli incendi della storia, è ancora interamente in legno, quasi sempre dipinto di rosso. Cortili e case, vicoli e negozi. Le bellissime case in legno affiancate ricordano quelle di Dawson City, territorio dello Yukon. Non vi sono memorie di Jack London e di antiche cacce dell’oro, ma gli immensi alci si nascondono nei boschi circostanti, così fitti da non lasciar passare la luce. Caro, maestoso alce, ti decidi a uscire fuori dalla foresta? Guido fino a Skurugata, dove da un’altitudine di ben trecento metri, si apre alla vista un panorama di laghi e foreste, come a Koli, in Finlandia, tanti anni fa. Sotto di me un tappeto uniforme verde scuro, intervallato da laghi e rarissime radure. Leggo sulla guida che in passato le fitte foreste servivano da rifugio per i partigiani antimonarchici. Dopo la separazione della Svezia dalla Danimarca, questa era terra di confine, e i cambiamenti, connessi a limitazioni dei traffici commerciali oltrefrontiera, alla religione e alle aumentate tasse, causarono malcontenti diffusi. Il capo della rivolta dei contadini che quasi fece cadere il re, un tal Nils Dacke, uccideva “sceriffi” locali, esattori di tasse e mercenari tedeschi a colpi di balestra con i suoi allegri compagni, proprio come un Robin Hood svedese, sicuramente più cruento… Applicava tecniche da Vietnam, agile guerriglia nei boschi contro formazioni lente e pesanti. Una volta ucciso in battaglia, come monito per future ribellioni, pezzi del suo corpo furono appesi nelle piazze, le stesse dove oggi diverse statue ancora lo celebrano come un indomabile Braveheart locale.

La runa di Rok

Riprendo il viaggio tra paludi con aironi, arrivo a un grande specchio d’acqua, leggo un cartello: “suonare se si vuole attraversare il lago in battello”. Che è lì, fermo, sbattuto dal vento, con lo spazio appena per quattro macchine. Accanto, le tariffe. Gratis per i pedoni, o al loro buon cuore. Suono. In due minuti arriva un ragazzo in bici e da ciclista si trasforma nel marinaio che in cinque minuti mi porta sull’altra sponda del lago di Sommen, su una strada stretta e sterrata, fino a che, dopo un bel po’ di pioggia, arrivo alla pietra di Rök. E’ la terza pietra runica del viaggio, alta due metri e mezzo, ed è quella che riporta l’iscrizione più lunga del mondo, tra le tremila esistenti ovunque arrivarono i vichinghi nel loro peregrinare, dalla Norvegia fino al fiume Dnepr, vicino al Mar Nero.

E’ la terza pietra runica del viaggio, alta due metri e mezzo

La runa si trova accanto a una strada, trafficata oggi come ieri, e ricordava ai viandanti l’amore di un padre, Varin, per il proprio figlio, Vamod, ucciso in una guerra di un paese lontano, nei tempi in cui in Svezia non esisteva chiesa e la religione era quella che ancora oggi resta nei nomi di qualche giorno della settimana inglese (Thor, il dio del tuono, da cui Thursday, giovedì). E’ considerata il primo pezzo scritto di letteratura svedese e risale al nono secolo. La trovarono incastonata nelle pareti della chiesa costruita alle sue spalle ed è in ottimo stato di conservazione, con incisioni su cinque lati, alcune ostiche da interpretare, come se fosse stata scritta in codice, come se celasse qualche segreto rituale. Leggo una delle tante traduzioni possibili sui pannelli esplicativi del museo all’aperto, e mi perdo tra navi vichinghe e valchirie, nascite e sacrifici, Teodorico e Thor, lupi, leggende nordiche e racconti su venti re leggendari. E mi accorgo che è davvero un mondo vasto e misterioso di cui non so nulla e che della mitologia nordica qualcosa comunque ti tocca dentro, ti affascina.
Seguo poi prati geometricamente divisi in settori gialli e verdi, tutti inesorabilmente flagellati dal vento proveniente dal grande lago Vattern che, pochi chilometri più a ovest, è come una lunga ferita, scavata da nord a sud. Trattori nei campi e altre piccole case rosse, una riserva naturale per gli amanti del birdwatching, piazzali per il rito collettivo del barbecue all’aperto.

grande lago Vattern

I pazzi della mongolfiera

Tutto calmo, molto calmo, troppo calmo, forse. Nuvole basse, gonfie di pioggia. Vento incessante che evidentemente dà alla testa e suggerisce manie di grandezza ed idee presuntuose. Salomon August Andreé, nato a Granna, cittadina sul lago famosa per le caramella alla menta (sic), ebbe la splendida idea, a fine 1800, di raggiungere il Polo Nord partendo con una mongolfiera chiamata Aquila, con due altri esploratori. Decollarono dalle ospitali isole Svalbard, ameno posto a nord della Norvegia dove, ancora oggi, devi girare sempre con un fucile per difenderti dagli assalti degli orsi bianchi. Fortissimi venti e una pioggia ghiacciata li costrinsero all’atterraggio sul pack dopo quasi 500 chilometri e tre giorni di folle volo. Ben equipaggiati, riuscirono a trainare le slitte sul pack ghiacciato per due mesi, coprendo una distanza di 300 chilometri, per arrivare finalmente su un’isola, Kvitøya, appartenente alle stesse Svalbard. Lì non resistettero per più di due settimane. C’è chi dice che morirono per aver mangiato pesce infetto, il che sarebbe paradossale, se si pensa che sopravvissero alle temperature polari e agli orsi polari. Incredibile, no? Li scoprirono solo nel 1930: per anni fu uno dei grandi misteri delle spedizioni artiche.

Chiese a sorpresa

A Vastena, il posto più settentrionale mai raggiunto dalla mia Yaris, ci sono una cattedrale, un imponente castello sul lago, un municipio medioevale e un museo ferroviario all’aperto. Per me c’è anche tanta stanchezza e poco tempo per concludere il giro del lago come mi sarebbe piaciuto fare. Entro ancora in una chiesetta che ha dei semplici affreschi: non vorrei bestemmiare ma non ho mai visto una “Ultima Cena” così chiara e umile al tempo stesso. Intorno il solito pacifico e verdissimo cimitero. In un’altra mi sorprende una sorta di colorato graphic novel religioso, usato probabilmente dal prete luterano per far capire ai fedeli il significato delle scritture. La religione insegnata attraverso una gigantesca opera a fumetti.

La danza delle gru

Falkøping è una città di servizi per la zona rurale che la circonda e Wiki le dedica appena sei righe e mezzo. Una metropoli, insomma, famosa per le mucche e qualche tomba megalitica. Mi accoglie con una pioggia fitta e della città vedrò un hotel, un teatro, un ristorante. Mi godo i pochi altri punti positivi: la sauna e l’idromassaggio dell’albergo che mi fanno sentire viziato, ma ci volevano dopo quasi mille chilometri di viaggio su strade polverose.

a cittadina è famosa perché piena di gru nere

La cittadina è famosa perché piena di gru nere, splendidi volatili che in inverno migrano verso zone più calde, come la Francia e la Spagna. Sono in realtà di colore grigio chiaro, hanno gli occhi arancioni, il collo un po’ più scuro, a volte nero e, sopra la testa, grigia, bianca e nera, spunta come un vezzo, una bellissima chiazza rossa. Si ritrovano a Falkøping e mangiano, si chiamano, si corteggiano e ballano tutto il giorno sulle rive del lago Hornborga, qui, a due passi. Me ne compro una ma non per finirla in un piatto di cacciagione, bensì sotto forma di souvenir, la accarezzo sul collo argentato e la eleggo a simbolo di questo tour solitario nella Svezia del sud.

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