Un Africa che sa poco di cartolina
Lontana, molto lontana dall’Africa dei grandi paesaggi, dal corso del Nilo come dalle città imperiali e artistiche sull’Atlante marocchino, dalle meravigliose savane coi big five e dai paradisi marini dell’Oceano Indiano, dal fascino caotico e millenario del Cairo o da quello quasi nordico di Cape Town, esiste un’Africa ben diversa, di megalopoli disastrate e violente, sporche e pericolose. Dove la vita assomiglia di più a una lotta per la sopravvivenza, a una complicata scommessa quotidiana, a una gara a farcela tra le bidonvilles, le bande di teppisti, gli squadroni militari della morte, i mille disservizi, la povertà, l’ignoranza, la precarietà.
Provateci a vivere nella sterminata Lagos, nella siccità che colpisce da sempre Adis Abeba, nella Tripoli del post Gheddafi, nella Mogadiscio degli assalti armati, nella Algeri più integralista che mai, nel cuore di tenebra di Kinshasa, nella Luanda dei rapimenti e delle violenze o nella Karthoum della guerra civile…

Algeri

E’ diventata una città malinconica Algeri, una città di partenze. Una città brulicante di traffico e di uomini soprattutto, perché la gran parte delle donne rimane nascosta in casa. Gli uomini nelle moschee, a fumare sul lungomare, a giocare e a bere indolenti ai tavolini dei Caffè e le donne ancora tutte prese dalle esclusive faccende domestiche…, coperte dai veli, timide, rassegnate. Sensualità interrotte.
Il regno poetico e orientale di Algeri è la sua grande Casbah, animata dalle mille voci e dalle mille corse dei bambini, dalle merci, dagli scambi, dai numerosi scippi perpetuati ai danni dei turisti più distratti, che però col rinnovarsi del fervore integralista, arrivano in numero sempre minore.
Algeri ha anche un protagonista silenzioso, il suo popolo berbero, quello originario del paese, quello più orgoglioso e attaccato ai suoi costumi. Che scende dalle colline mangiate ormai dallo sviluppo disordinato della città per andare a esporre ortaggi, tessuti, spezie e anfore nei mercati.
Una volta la capitale algerina era più attraente, più viva, la chiamavano la Ville Blanche dal colore abbacinante delle sue mura, delle sue piazze, delle sue case e moschee, dei suoi palazzi governativi rivestiti di marmo e onice. Il suo altrettanto bianco Front de Mer lungo quasi due chilometri e costruito dai Francesi ospitava Caffè e alberghi alla moda.
Furono proprio i francesi a modificare per sempre l’impianto urbanistico ottomano e a costruire la città aperta alla luce come appare ancora oggi. E che ha nella Moschea di Sidi Abderrahmane, nella parte alta, il suo principale luogo di culto e preghiera. Ancora più su si trova la Fortezza che domina il panorama di tutta la baia e del porto, dove con un fagotto di speranze molti giovani sognano di imbarcarsi verso Marsiglia.

I problemi moderni sono come in molte altre metropoli africane quelli del traffico e della sicurezza (sono passate alla storia le rivolte dei “piedi neri”, gli abitanti dei sobborghi più poveri) e ancora di più il crescente integralismo islamico una minaccia neanche troppo velata, e per questo Algeri vive parecchio in tensione: classi separate nelle facoltà universitarie, un divisorio creato anche nelle moschee, i discorsi infuocati degli imam tuonanti contro la morale occidentale, i lamenti dei muezzin che si alzano dai numerosi minareti e che non si sa mai quali comportamenti possano ispirare, una certa ondata di puritanesimo di ritorno, osteggiata, questo sì, dal libero e moderno pensiero di molti giovani e dai ritmi e versi ribelli della musica Rai.
La dimensione culturale di Algeri è invece affidata a due grandi musei, il Bardo con le collezioni del neolitico e dipinti provenienti dai grandi deserti del Tassili e dell’Ahaggar e il Gsell coi suoi tesori e mosaici greco romani, coi tappetti e gli oggetti artigiani più autentici. Molto belli anche il Jardin botanico d’Essai e il Museo Nazionale di Belle Arti che contiene sculture di Rodin e quadri di Delacroix.

Nostalgica e integralista, coloniale e artistica, moderna o rifugiata nel passato, scossa da nuovi brividi, da divisioni aspre: vedremo il futuro prossimo quale Algeri ci consegnerà. Il primo segnale di un vero cambiamento potrebbe venire senz’altro da una nuova partecipazione delle donne alla vita pubblica.
Tripoli
Quanta storia, quanto orrore e quanto sangue sono stati vissuti dalle strade e dalle genti di Tripoli… Specie dopo la cruenta fine di Gheddafi che ha lasciato il campo da una parte a una dilaniante guerra civile e dall’altra all’insopportabile fenomeno dei trafficanti di uomini, messi su fatiscenti barconi per arrivare (?) un giorno sulle coste siciliane o calabresi o torturati in innominabili lager.
Ma c’era un prima, appunto: l’animato lungomare tripolino, le sue file di palme, le sue spiagge dorate, poco distanti le magnifiche rovine archeologiche di Leptis Magna e appena all’interno il grande vuoto del deserto con le oasi e quel libro di storia unico al mondo che sono le immagini rupestri del Fezzan. In più a Tripoli ci sarebbe il fascino del Museo archeologico, dell’Arco di Marco Aurelio, della Fortezza dei Cavalieri di Malta. Tutto rovinato dal nuovo porto di cemento che si è inghiottito ogni forma di bellezza artistica e naturale. Tutto inquinato dalla scoperta del petrolio, rivelatosi ricchezza improvvisa, maledetta e fugace. Tutto rovinato dall’incuria, dalla sabbia, dalle faide, dagli spari e dal tempo.
Per chi arriva nonostante tutto nella capitale libica, fondata dai fenici, dominata nel corso della sua turbolenta storia da arabi, ottomani e italiani che gli lasciarono in eredità antiche culture e moderne infrastrutture, asservita come poche altre nazioni per molti anni ai deliri di onnipotenza e alle intuizioni sagaci del Colonnello Gheddafi, preda oggi di nuovi scontri tra fazioni di militari e di civili di opposte regioni, le tappe obbligate sono sicuramente il pittoresco mercato di El Mouchir dove si trovano a buon prezzo kilim e altri tappeti, gioelli in argento e oggetti in cuoio, il Castello Rosso, le porte antiche, la sua Cattedrale (prima)-Moschea (poi) e il Palazzo del Governatore.

Resta da vedere nei tumulti attuali di oggi quale fazione tornerà al comando della città e della nazione: gli islamisti jihadisti o i gruppi laici? I giovani rivoluzionari, gli anziani tecnocrati o gli ex ufficiali di Gheddafi? Tornerà prima questo paese a essere uno degli stati guida dell’Africa?
E poi francamente possiamo dirlo, la Libia è stata lasciata in pratica da sola a giocarsi il suo destino, sola dall’Onu, dalle forze di pace, dalle grandi potenze occidentali, Italia, Francia e Gran Bretagna in primis. La nuova lotta per il potere ha riaperto le ferite, le rivalità tribali, la corruzione endemica presente nei gruppi militari. La road map è alquanto incerta, la minaccia di quelli di Tobruk forte. Non è facile oggi camminare sereni sul lungomare di Tripoli…

Addis Abeba
La capitale dell’Etiopia può esibire un grande patrimonio, quello delle feste e dei riti religiosi. Ma può anche soccombere per i suoi due problemi endemici, i governi ridicoli minacciati o appoggiati sempre dalle giunte militari e la tremenda siccità che causa la povertà agricola e la piaga della sete. Sì, la sete è il problema assoluto di questa aridissima nazione del Corno d’Africa.
Addis Abeba si sviluppa ancora attorno al piano regolatore deciso dal regime fascista italiano: grandi viali, zone verdi, palazzoni di rappresentanza. E pensare che prima era solo un villaggione di pastori, nobilitato dalla vicenda umana e storica di Menelik, colui che forse nascose l’Arca dell’Alleanza dentro una anonima chiesetta sorvegliata a vita da fedelissime stirpi di guardiani.

Nel favoloso Palazzo Ghebbì visse anche il potente Selassiè, l’ultimo imperatore etiope che vantava la sua discendenza addirittura dalla mitica Regina di Saba e da Re Salomone. La città ha conosciuto sotto il suo Negus l’aggressione italiana, periodi di caotica guerriglia e poi, dopo il suo ritorno, una lunga fase di sviluppo che fino al 1974 ha visto un accentramento dei poteri nelle sue mani ma insieme una buona fase di crescita economica, di alfabetizzazione del popolo, di controllo delle riottosità nobiliari e militari, di pace ai confini, di rapporti in fondo diplomatici con tutti i grandi della terra, di collaborazione con l’ONU, di difesa delle istanze africane. Chiaramente il suo era un controllo totale sull’Etiopia e più che di persone abili si circondava di una schiera di fedelissimi.
Il mito di Selassiè superò i confini africani per arrivare a essere celebrato dal rastafarianesimo fino in Giamaica: in alcuni pezzi di musica reggae e nei colori della bandiera etiope adottati come capi di vestiario ai Caraibi, in onore di quello che veniva giudicato e onorato come il nuovo Gesù difensore della razza nera mondiale.

La morte del Negus avviene nel 1975, fu fatto soffocare dal colonnello marxista Menghistu che subito dopo impose all’Etiopia la svolta comunista il cui obiettivo fu quello di spezzare gli ultimi vincoli feudali per dare il potere, le terre e l’istruzione al popolo. Sogno fragile perché minacciato di continuo dal fuoco guerrigliero e secessionista degli eritrei e dalla famigerata siccità, catastrofica per i destini economici di un paese in rampa di lancio (perlomeno per gli umili parametri del continente africano).
Nei tempi moderni la capitale etiope si ritrova con la sua storia, i suoi culti e la sua arte solo nei momenti delle grandi celebrazioni ortodosse che si svolgono tra i templi e i falò, tra la cattedrale della Trinità e il Mausoleo di Menelik. Di retaggi italiani si ha percezione seguendo gli eventi dell’Istituto di Cultura, guardando qualche architettura e viale di stampo fascista ed entrando in qualche pizzeria o in quello che, come in italiano, si chiama proprio il Mercato, coi suoi colori, cibi e merci, la sua babele di dialetti, tribù. Per il resto il morso dell’Africa si fa sentire duramente anche qui… a poco è servito costruire con il venerato architetto Teklè l’Africa Hall, il palazzo con le grandi finestre di vetro dipinto che testimonia il sogno mancato della città, quello di diventare il polo dell’unità tra i vari stati africani indipendenti.

Mogadiscio
Che vi aspettate di trovare nella capitale somala? Un traffico degno degli alveari americani e asiatici oppure gli elefanti che ancora si abbeverano all’alba negli stagni vicini? Il fascino del centro storico con le botteghe artigiane degli orafi, i profumi e gli odori arabi e indiani o le strade decadenti, i vecchi bar e le case screpolate della ex colonia italiana? Alcuni tratti somatici fra i più belli dell’intera Africa oppure gli sguardi truci delle bande armate che imperversano per lunghi periodi nelle periferie poverissime della città? Probabilmente tutto questo, confuso nella polvere, nella luce e nel vento. In riva a un mare selvaggio, in mezzo alle tensioni islamiche, a gruppi di bambini che girano mezzi nudi e seguendo lo sguardo delle splendide ragazze locali che continuano ad attrarre tutti gli europei rimasti a vivere e a lavorare e a sfruttare quaggiù.

Il destino della Somalia è stato simile rispetto a quello di altre nazioni africane: diventata indipendente nel 1960 rispetto alla potenza europea di turno (in questo caso l’Italia), fuggito in esilio il grande dittatore dopo insediatosi (in questo caso Siad Barre) il paese è rimasto ostaggio di vari gruppi anarchici, clan nemici guidati da due infidi signori della guerra, guarda caso due feroci generali.
Morti, fame, povertà assoluta, massacri di innocenti. Alla disperata l’Onu con l’operazione “Restore Hope” ha provato a riportare un po’ d’ordine e di pace, consegnando il cibo coi suoi marines a bambini ormai ridotti pelle ed ossa… Impacciato e poco gradito, come sempre quando riguarda l’intervento in un paese che è stato una sua ex colonia, il ruolo dell’Italia nella risoluzione dei problemi locali.
Nel 2014 dopo 23 anni di assenza abbiamo riaperto l’ambasciata italiana in città, ma purtroppo specie tra il 2017 e il 2020 il nuovo disordine ha preso le fattezze della tremenda guerriglia jihadista di Al Shababb. Per questo la vita sulle banchine del porto, nella città vecchia e dentro le stesse moschee è diventata una specie di pesante cappa grigia. E poco fuori la sua capitale la disperata Somalia continua a vivere nella povertà e nella polvere.

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