I ponti uniscono rive e regalano storie
Si può decidere di andare a Mostar, nel cuore della Bosina, anche solo per ascoltare o rivivere una storia, quella del “Signore dei ponti”.
La strada è quella che passa tra bellissime montagne e che nei tempi di guerra si faceva a fari spenti, per evitare le imboscate, e con lastre di cemento ai finestrini, lasciati semiaperti, per evitare l’esplosione delle schegge. E’ una strada bellissima che si arrampica sui monti e varca un crinale, facendoti atterrare nel bacino della Neretva che è un fiume di una bellezza selvaggia, verde brillante, circondato da vette, che termina la sua corsa nell’Adriatico. A Konjic, più o meno a metà strada, gli occhi leggono un cartello turistico che indica un Most, un ponte, non menzionato dalla guida del Touring. Si segue l’istinto e si gira a sinistra: in Bosnia i ponti sono vita, uniscono destini, regalano storie.

Non ci si sbaglia coi ponti in Bosnia. Si tratta di un ponte ottomano, spettacolare, risalente al 1682. Le sei arcate sono di pietra chiara e, al centro, c’è la tipica iscrizione che rende grazie al suo costruttore. Pare che sia questo uno dei ponti più antichi e belli di tutta la Bosnia, al pari di quello di Višegrad e di quello, ahimé, di Mostar. Anche questo fu distrutto. Non nel conflitto di Bosnia ma alla fine della seconda guerra mondiale, poco prima che i partigiani di Tito cacciassero via i nazisti dalla Jugoslavia. E’ stato ricostruito da poco, grazie agli aiuti del governo turco e non sembra essere recente, sembra portarsi addosso le rughe e gli acciacchi degli anni, mentre si specchia, circondato da moschee e minareti, nelle acque verdi della Neretva.
Il signore dei ponti
Anche a Mostar, raggiunta dopo aver sceso le gole della Neretva, a dare il benvenuto sono le case dai muri ancora crivellati e una temperatura oltre i trenta gradi. Ci vuole poco ad arrivare al ponte, anche perché tutte le strade in discesa portano lì. Si tratta di vicoli in ciottoli, pieni di negozietti turistici, case a graticcio e di turisti, tanti turisti.
Sul ponte di Mostar se si arriva a mezzogiorno ci si deve far largo, con qualche gomitata. Meglio trovare il modo per salirci sopra in perfetta solitudine, verso sera.

E’ a gobba d’asino, e la salita dai due lati, in ciottoli, è interrotta da bande di marmo orizzontali. Non è lungo quanto te lo aspetti ma è parecchio alto. Ventiquattro metri più in basso scorre la Neretva, verdissima e freschissima. Dall’altro lato del ponte, un quartiere turco è caratterizzato da strade e da case con terrazze con vista sul gioello architettonico, da una bella moschea e da negozietti che vendono teiere, utensili in rame e, purtroppo, oggetti artigianali di discutibile gusto come carri armati, jet e portachiavi costruiti con bossoli di pallottole, baionette, stemmi di stoffa dell’armata musulmana, delle brigate croate, baschi dell’esercito jugoslavo. Tutto, tutto ti fa pensare a una guerra finita da quasi venti anni. Col ponte lì, testimone e custode di memorie paurose e dolorose.
Il ponte di Mostar, costruito nel 1566 per ordine di Solimano, fu distrutto il 9 novembre 1993, la stessa data della caduta del Muro di Berlino. Demolizioni figlie dello stesso processo storico, con finalità opposte. Il Muro fu demolito per costruire e per far convivere gente separata da troppo tempo, il Ponte per separare coattamente e crudelmente gente che viveva insieme da secoli.

Non era un ponte strategico, non veniva usato per scopi militari, che so, trasporto di truppe o munizioni, no. Mostar era croata da una parte del fiume, musulmana dall’altra. Le parti immediatamente adiacenti al ponte erano, tuttavia, entrambe musulmane, ma da un lato c’era l’acqua, solo da un lato. Quell’acqua che durante un assedio è preziosa.
Il ponte era un obiettivo, strategico e “morale”, era stato coperto da teli per impedire dall’alto di notare il suo attraversamento: farlo era rischiosissimo, in diversi vi morirono.
Già prima della sua distruzione era stato preso di mira e danneggiato, anche dai Serbi.
In un negozio pieno di libri sulla Bosnia mostrano un filmato che fa vedere come non si trattò di un solo colpo, casuale, ma di una serie di colpi mirati, fino al crollo, giù, con un tonfo triste nelle acque della Neretva.
Ricordo quel giorno. Provai una rabbia incredibile.
Don’t forget
Le pietre cadute nel fiume furono pazientemente raccolte per la ricostruzione, una ad una, tra sospiri e bestemmie, ed il ponte, dal luglio 2004, è di nuovo lì, a unire quel che l’esercito croato aveva voluto separare. Ma non ha più lo stesso fascino cadente e romantico, perché è un ponte ferito.

Leggende narravano che riuscisse a rimanere in piedi, tanto era ardito, solo grazie a un angelo che lo sorreggeva. Altre che, come ogni ponte di Bosnia, dentro ci fossero murate vive delle persone.
Nel caso di Mostar, una zingara catturata mentre allattava un bimbo. Pregò, mentre la muravano, che lasciassero un foro attraverso il quale potesse continuare l’allattamento, invano. La leggenda narra che da quel muro colasse liquido e che le donne prive di latte strofinassero lì i loro seni.
Era talmente solido il ponte di Mostar da aver retto il passaggio dei carri armati tedeschi nel secondo conflitto mondiale. Non riuscì, invece, a sopportare la pugnalata alle spalle, inferta dalla sua stessa gente. Su uno dei monti che lo sormontano, da dove partirono alcuni dei proiettili che lo distrussero, hanno costruito una croce enorme, quasi ad aver pietà di chi era lì, se ne conoscono nomi e cognomi, a non voler dimenticare quel posto, quel gesto, quella colpa, quella data.
La scritta “don’t forget” campeggia su una delle pietre del lato turco, appena prima della rampa d’accesso.
Chi si tuffa e chi no

Quando si torna e si ritorna sul ponte, nella breve vacanza estiva a Mostar, vi sono spesso sopra dei ragazzi a torso nudo. Il ponte è tradizionalmente usato, ogni 27 luglio, per un tuffo collettivo, che sta a significare il passaggio all’età adulta, una specie di rito di iniziazione. Perché ci vuole coraggio, il salto è davvero grande, il fiume non è neanche troppo profondo e la sua acqua è gelida.
Negli ultimi tempi questi ragazzi, manco si fosse ad Acapulco o a Polignano a Mare o a Negril si tuffano anche per i turisti. Non si sa se chiedano soldi, e se siano pagati da qualcuno per farlo ma, a candela, si tuffano, dritti come fusi, atleti splendidi sul memoriale di guerra, più volte al giorno, tra le urla e gli applausi della folla.
I croati di Mostar ovest invece non vi si tuffano più. Perché facevano parte dell’esercito che lo distrusse, perché temono ritorsioni, perché sulle sue due torri sventola una bandiera che non gradiscono, quella della prima indipendenza della Bosnia, diversa da quella di oggi. Ai lati del ponte, due torri ospitano musei sulla sua costruzione e distruzione e ti consentono di fotografarlo da insolite prospettive. Una scalinata porta, invece, sulle rive della Neretva, a valle, e puoi quindi ammirarlo dal basso.
Fa caldo, e un gruppo di ragazzi si incontra a mangiare all’ombra di una rupe sporgente. Un panino, una bottiglia di vino. Davanti al ponte, davanti al fiume. Si può mangiare liberamente e beatamente così, dove una volta si mangiavano solo le speranze degli abitanti, con le bombe, con le pietre che cadevano in testa, coi cecchini che ti lasciavano secco sopra le arcate.
Oppure si può mangiare in un ristorante panoramico, una forchettata e uno sguardo all’angelo protettore, un cevapcici e una strizzata d’occhio al monumento di pietra, una zuppetta, una grigliata dalle dimensioni colossali, un liquorino locale e il vento a ricordarti i sibilìi lontani e crudeli.

Che direbbe la Vergine di Bosnia?
Vicino al ponte si possono incontrare anche i pellegrini reduci da Medjugorije, dove dicono che apparve la Vergine. Un luogo di culto mariano frequentatissimo, non ancora riconosciuto dal Vaticano. Puoi leggere che il suo capo spirituale fu favorevole alla distruzione del ponte perché simboleggiava l’integrazione e una convivenza religiosa che non gradiva, allora come oggi.
Chissà cosa verrà raccontato a quei pellegrini in visita a Mostar… La cattiva favola dell’orco musulmano mangia-bambini? Che il ponte fu distrutto dalle saette del loro Dio, per castigo, invece che dai proiettili degli obici? Spaventa la fede che odia, che divide, che non include. La Madonna era più buona, certamente. Cosa direbbe se per miracolo apparisse ancora oggi? Cosa direbbe dell’orrore vissuto da Mostar, del suo sfregio? Cosa direbbe procedendo il viaggio verso Foca, una delle enclavi serbizzate a forza, teatro di stupri legalizzati, ad appena uno sputo da Goražde? E cosa avrebbe detto agli assediati di Goradze, stremati dal freddo e dalla fame sui sentieri invernali di questi monti?
Dove arriva la Drina
L’inverno da queste parti picchia duro. Non a caso, centinaia di persone ora, alla fine della stagione secca, stanno preparando, tagliandola con l’accetta nel cortile di casa, la legna da ardere nei mesi freddi. Il viaggio finisce nella valle Drina, fiume storico, che a Foča è affiancata da un brutto quanto imponente stabilimento industriale. Col romanzo “Il ponte sulla Drina” Ivo Andric pubblicò un testo e un documento fondamentale per conoscere fino in fondo la storia della Ex-Jugoslavia e della Bosnia stessa, terra sospesa da sempre tra due mondi, quello dell’impero ottomano e quello della civiltà europea, quello della cultura orientale e della religione musulmana e e quello della cultura occidentale e cristiana. Due mondi che paradossalmente per secoli hanno vissuto mescolati e spesso in pace. Fino al disastro che conosciamo.
Prima di finire la sua corsa nella Sava, e quindi nel Danubio, la Drina vedrà altri ponti e altri posti, Goražde, Višegrad, tutti inesorabilmente macchiati di sangue. Srebrenica è appena poco più su. In fondo il Signore dei Ponti a Mostar ha conosciuto un destino addirittura meno atroce.

Non ci sono Commenti