Buongiorno, altopiano
Svegliarsi prima dell’alba, tanto per cambiare, dà il vantaggio di poter salire a un punto più in alto e godere del panorama dei monti circostanti dipingersi di arancione. Quindi di assistere al risveglio della città, una cosa che mi ha sempre affascinato, al mercato che apre, alla prima campana della messa, ai contadini che prendono a testa bassa e ben infagottati la via dei campi. Mangiamo per colazione una specie di gnocco fritto con un ripieno, appena accennato, di formaggio fuso, accompagnando il tutto con un mate de coca (che come ho ripetuto più volte nel diario andino usata così è tutto fuorchè una droga). Sulla piazza il buongiorno reale ce lo danno dei paciosi bambini boliviani.

In jeep tra letti di fiumi, canyon impervi e distese di cactus
Abbiamo tre jeep, la nostra guidata da Mario, fratello di Alejandro, padrone dell’agenzia. Hanno iniziato insieme, portando i ragazzi del posto a conoscere i dintorni. Poi han fatto da guide al colosso turistico di Tupiza, Tupiza Tours, infine si son messi in proprio. Conoscono le strade e le mulattiere, i trucchi del mestiere: faranno strada.
Costeggiamo il fiume Tupiza, oggi quasi secco, ma a gennaio gonfio d’acqua, fino ad arrivare a El Angusto, dove la strada, tra rocce rosse, cactus e nidi di pappagallo si infila in un tunnel. I fianchi delle montagne sono pieni di cactus San Pedrito. Mario mi racconta che se ne lavora la polpa e che il risultato è qualcosa di molto simile al peyote: muy util para ver Dios.
Passato il tunnel si arriva alla confluenza con un fiume più grande, il San Juan de Oro, in un posto non a caso chiamato Entre Rios. Il fiume è attraversato dalla ferrovia a binario unico che corre a sud verso l’Argentina, a sole tre ore di rotaia. C’era oro da queste parti, e un po’ ce ne è ancora, e non è difficile incrociare instancabili cercatori con padelle e setacci. Tanto lavoro per poche pietruzze, mi racconta Mario. E le mani che lentamente si screpolano.

Lungo le rive del fiume, un oro di tipo diverso di cui la Bolivia è piena: tracce striate di salnitro, ingrediente fondamentale per la polvere da sparo, per il quale la Bolivia perse lo sbocco al mare a favore de Cile. Il fiume è di un colore rossastro e, in fondo, si alza un monolite alto quaranta metri, ancora più rosso. Sulle rive riposano un camioncino, dei cavalli e una motocicletta Poderosa, quella con cui il Che attraversò il continente. Un gruppo di ciclisti si spoglia e guada il corso d’acqua, bici in spalla.
La tappa successiva è il belvedere della Quebrada Seca, letto di un fiume senza un goccio d’acqua, circondato da rocce bianche, grigie e rosse. Il rosso vince la lotta dei colori poco più in là, quando la strada sterrata di tornanti è circondata da guglie, pinnacoli, mesas possenti, scorci incantati, fino ad arrivare a un panorama incredibilmente bello, a picco sul fiume, in una quinta naturale impressionante. Proseguendo ancora un po’ incrociamo un piccolo cimitero di montagna, altre guglie, e inizio ad arrampicarmi come una capra, saltellando tra rovi e rocce, per fotografare i cactus più belli e pelosi. A pranzo scendiamo a valle, dove il fiume San Juan fa un’ansa, circondato da picchi rossi. Il pranzo consiste di sorprendenti tamales, ovvero palle di mais decorticato, ripiene di cipolle, peperoncino, olive, uva passa, cotte a vapore nelle foglie dello stesso mais. Il posto è spettacolare, il sole a picco, il cielo azzurrissimo.

Torniamo indietro e, passando sotto un arco di roccia rossa, passeggiamo per il Canyon del Duende. Il paesaggio è arido, rosso, tanto per cambiare, e il canalone che si arrampica verso la parete di roccia piena di guglie, è circondato da cactus che sembrano scesi dal cielo. Quelli pelosi attirano la luce del sole e sembrano, in controluce, circondati da un’aureola magica. Il canyon successivo, chiamato dell’Inca, è meno percorribile. Si tratta di un pertugio che si insinua tra due pareti rosse ma occorre arrampicarsi e faticare di brutto per oltrepassarlo e serve mezza giornata per percorrerne i quattro chilometri. Passiamo un paio di ostacoli, poi torniamo dagli altri del gruppo per arrivare alla Valle de los Machos, un posto che, se non ci fossero milioni di cactus, assomiglierebbe alla Cappadocia. Ci sono, infatti, numerosi pinnacoli rossi e, non a caso, data la loro forma, il posto è chiamato anche Valle de los Penes.
Anche lì mi arrampico tra i cactus, per avere una prospettiva migliore. Poco oltre si apre la Puerta del Diablo, un’ampia fenditura in una lunga parete di roccia, ormai quasi scomparsa. Una volta, così come il Canyon dell’Inca, era un passaggio strategico a difesa dagli abitanti del Chaco, che salivano in altura a caccia di ortaggi e donne.

Come in Arizona
L’ultimo spettacolo è la Poranga, altro monolite, un po’ più distante, e sembra Arizona, Arizona pura. C’è poi bisogno di recarsi nel sudovest degli States dopo un giorno pieno di queste meraviglie? In alcune vallate sarebbe potuta tranquillamente apparire la diligenza di “Ombre Rosse”, un apache in agguato dietro le guglie, Tex Willer a cavallo con i pards, Wil Coyote a caccia dell’odioso e velocissimo bipede.
Nel viaggio entriamo più in confidenza con la guida: Mario è un esperto di strategie “commerciali” di sopravvivenza, ci racconta come campano i contadini a queste altezze senza pagare le tasse, srotolando le merci o le pannocchie sul tappeto, vendendo al volo in un mercato il pasto caldo per minatori o mandriani, facendo da concorrenti alle taverne del pasto. Lotte tra poveri, le uniche possibili per sfangarla. Fino alla lite dovuta in genere a una bottiglia di troppo.
Da domani sarà dura. Nell’arco di una giornata potremmo passare da trenta sopra a venti sotto lo zero. Invece degli avvoltoi incontreremo lama e vigogne. E il puma continuerà a nascondersi, come fa da secoli.
Heaven and Hell
Il regno dei cieli: uscire da Tupiza di buon’ora, formulare una preghierina laica per Butch e Billy uccisi (?) qui vicino nel 1908, ripensare alle immagini vintage del film, arrampicarsi con quattro jeep fino a un valico, dopo un ultimo saluto a una spettacolare quebrada di guglie rosse.
Al valico scendere dalle macchine ed ammirare il panorama da entrambi i lati, a quota 3000. Verso la cittadina il panorama è ancora un misto tra Arizona e Cappadocia, con un fianco della montagna che si divide, come fosse pettinato, in tante sottili sfoglie rosse. Con infiniti saliscendi, tra quota 3600 e 4300, si raggiungono i panorami del paradiso dove alcune miniere ancora attive giustificano la presenza di piccolissimi centri abitati. Hernan, l’autista, non smette mai di parlare. Lo provoco un po’ sugli abitanti dei paesi confinanti…
Definisce Peruviani ed Ecuadoriani hermanos, gli Argentini indipendenti, i Brasiliani come roba portoghese, i Paraguayani mangiatori di pesce crudo, chissà perché. “E i Cileni?” gli chiedo. Si scatena, il dente duole. Li chiama ladri di territori, traditori del continente, perché privarono la Bolivia dell’accesso al mare e fornirono appoggio agli Inglesi, contro gli Argentini, durante la guerra delle Malvinas-Falkland. Ci dice che i Cileni attaccarono la Bolivia, nella guerra del salnitro, i giorni di carnevale e con l’aiuto degli inglesi, che esiste un trattato mai applicato per restituire il mare al suo popolo. Segue non so quale filo logico e narra che un folle dittatore, Melgaredo, cedette parte dell’Amazzonia boliviana al Brasile in cambio di un cavallo bianco. E ride mentre dice quest’ultima cosa, e non capisco se per orgoglio o per compatimento della pazzia del Caligola sudamericano.
La pampa a 4000 metri: una landa brulla, centinaia di lama che scappano, rincorsi discretamente per una foto. Tira un vento gelido e i ciuffi di erba gialla ondeggiano violentemente, uguali per chilometri. E io mi sento toccare il cielo con un dito, risento tutte, se non ampliate le emozioni del mio viaggio andino, alto e puro, delle lagune colorate e dell’abbacinante Salar de Uyuni. Sul cielo azzurro e sotto un sole cocente si stagliano perfetti coni vulcanici e, in fondo, la Cordillera del Lipez, parte delle Ande. Diversi colori dipingono i monti e, accanto al letto di fiumi quasi in secca, splendono strisce bianche di salnitro. In un paesino comparso dal nulla coesistono case di argilla e pannelli solari.

Poi inizia il delirio, la discesa agli inferi.
Essendo la strada più breve per arrivare a Quetana Chico, meta finale, impraticabile a causa di neve e massi sulla carreggiata, siamo costretti ad allungare il tragitto, girando alle spalle della Cordillera, attraverso la grande pianura. Peccato che gli autisti inizino a sfidarsi e che il nostro, che occupa la retroguardia, nonostante la nostra opposizione, lasci la strada principale e le altre jeep, buttandosi in una stretta strada secondaria di sabbia, terra e arbusti. Non ci sono cartelli, i cellulari non funzionano e l’unico riferimento sono i monti che, dopo poco, scompaiono, perché il sole cala velocemente mentre gli altri sono scomparsi. Ci ritroviamo al buio, da soli, al centro di un minuscolo villaggio dove ci dicono “dovete arrivare al ponte, mancano 12 chilometri. Poi altri 28 e siete arrivati”. Senza l’aiuto della luna piena, che sorgerà poco più tardi, impieghiamo un’ora a trovare il ponte dopo che il fiume ci sbarra la strada per almeno un paio di volte. Con chiarezza, si capisce che Hernan si è completamente perso, gira a vuoto per strade sabbiose, inizia a preoccuparsi, mentre noi, ormai muti, lo siamo da un pezzo, perché è così che a volte nel terzo mondo si perdono o muoiono i viaggiatori…
Il ponte appare come un fantasma, non se ne vede la fine. Visto come funzionano le cose da queste parti, potrebbe anche mancarne la discesa, scendiamo prudentemente a controllare per non rischiare di finire al buio in burrone. Dopo l’attraversamento incontriamo la prima jeep, guidata da un altro idiota che, per dar prova di essere un ottimo guidatore, ha staccato le altre due, date per disperse. Averlo trovato, proveniente dalla direzione opposta, è un caso pazzesco e mi rendo conto che una luce nella notte più buia è un’incredibile fiammella di speranza. Siamo in due equipaggi ora, que suerte!

C’è tuttavia tanta strada da fare, almeno ottanta chilometri, siamo completamente fuoristrada e costretti a guadare un fiumiciattolo che al buio non possiamo vedere quanto sia profondo, e a chiedere informazioni ovunque. Fino a quando, dopo quindici ore quindici di sterrato, arriviamo a un rifugio gelido e le altre due jeep non ci sono. Si sono fermate saggiamente prima e dormiranno altrove. Io crollo dal sonno, con solo un mate e biscotti sullo stomaco, ma sotto una stupenda stellata.
Paradiso e inferno: viaggiare tra i colori più belli che l’occhio possa immaginare e, poco dopo, precipitare nelle ancestrali paure del buio e dell’insicurezza. Vestito dentro il sacco a pelo, con tre coperte di lana sopra, mi risveglio alle 7.30, come un angioletto.
Le scritte di Quetana
Il giro mattutino in solitaria mi porta alla scoperta di una “metropoli dell’altopiano” costruita a scacchiera. Così poche cuadras che ci potresti giocare a tris. Case di mattoni, di fango, un po’ di latta. Qualche tetto di paglia, strada non asfaltate. Ma comunque un buco del mondo dove i contadini, i minatori, i pastori si ritrovano nel mercato e nella taverna o nella chiesa. Quetana Chico è proprio un buco di catapecchie di color chiaro, circondato dai monti, il più maestoso dei quali è un vulcano di oltre seimila metri, con uno spruzzo di neve ancora in cima. Sulla cima accanto, fiumi di zolfo. Nella piazza principale c’è una chiesa minimale con un campanile bassissimo, e due scritte. Una recita Dios es amor, l’altra, orgogliosissima chiama Quetena la sentinela morena de la Bolivia. Da un recinto escono lama diretti al pascolo e mi ritrovo in un istante circondato da questi originali e salivosi camelidi. Anche i muri della caserma, formata da grosse costruzioni a forma di igloo, parlano: “il mare ci appartiene per diritto, riprendercelo è un dovere”. Leggere una frase del genere oltre le Ande, a un’altitudine oltre i tremila metri, con il mare un pochino lontano, fa un certo effetto e dà l’idea di quanto scotti ancora, oggi, la sconfitta patita con i Cileni.

In quota
Percorriamo sotto un cielo splendente le stesse strade su cui vagavamo sperduti la notte precedente. Nei numerosi ruscelli da guadare ci sono ancora tracce di ghiaccio, la terra è desertica, solo cespugli gialli ed ispidi resistono all’azione del freddo e del vento. Appaiono uomini dal nulla, chini sul terreno a cogliere chissà se pietre, minerali, patate o sale. Sono raffiche fortissime quelle del vento quando arriviamo a Tres Gigantes, un canyon che si ammira da un altopiano situato a quota 4500 metri. Frusta la pelle, spacca le labbra, fa lacrimare gli occhi. Indossiamo giacche termiche d’alpinista che ci coprono anche collo e testa, un pile e una maglietta: ci muoviamo come palombari per l’ingombro di tanti strati.
Continuiamo a percorrere l’altopiano su strade sempre più precarie, fino ad arrivare dall’altro lato del vulcano, lì dove si trovano la Laguna Negra, piccola e quasi interamente coperta di ghiaccio, e la Laguna Celeste. Quest’ultima ha la forma di un ferro di cavallo e se ne può percorrere in jeep la penisola che ne separa i due bracci. Nel lato destro rispetto alla penisola l’acqua scorre, e non è celeste. E’ acqua da disgelo, marrone, a tratti giallastra. La tocco con la mano ed è ghiaccio fuso. Sul lato sinistro, verso il vulcano, è totalmente ghiacciata. Tiro un grosso sasso, rimbalza sul ghiaccio spesso con un tonfo sordo. Saggiamo anche lo spessore del ghiaccio, vorremmo evitare di distrarci alla ricerca di Butch Cassidy e Billy the Kid e sprofondare all’improvviso maldestri in un abisso di gelo.
Lo scenario naturale è incredibilmente bello. Una striscia di strada rossa, due colline gialle e bluastre, il vulcano, il biancore dello specchio d’acqua. Non ci sono riflessi, ma è natura, allo stato puro e selvaggio. Lo sguardo si perde lontano mentre il viso è flagellato da un forte vento gelido, mentre si avvicinano minacciose nuvole grigie. Stanotte potrebbe nevicare, penso mentre passeggio per le strade del paesino, stavolta in gruppo. Un ferragosto gelido, lontano da tutto e tutti. Ma non mi manca niente.

Il Cile di là
Anzi forse qualcosa mi manca, il tempo e l’occasione di varcare la frontiera, di superare il cono maestoso del vulcano Licanbur, di rivedere le migliaia di fenicotteri rosa fotografati nel mio primo viaggio andino, di visitare le miniere a cielo aperto dove Guevara si fermò con la sua Poderosa, di entrare in Cile, di passeggiare tra le strade polverose e gli hippies finiti a vivere a San Pedro de Atacama e di ammirare le uniche rose al mondo capaci di fiorire in un deserto.
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