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Metropolis

Gli incubi di Phnom Phen

Cuore di tenebra

Gli incubi di Phnom Phen

Giornata dura, di quelle che non scordi.
Phnom Penh, il traffico è come quello di Bangkok, l’umidità pure peggio. Meno viali colossali, niente tangenziale sopraelevata, ma le case si assomigliano, cadenti e grigie.
So che mi aspettano da qualche parte il palazzo reale, le pagode, i mercati, i musei, i locali notturni e una diffusa voglia di normalità ma benchè mi sforzi non vedo tracce dello splendore della celebrata capitale dell’Indocina francese.
So che come in ogni posto dell’Asia posso sentire un richiamo, stordirmi col clima, perdermi nel brulicare delle genti e delle vie, farmi investire dai mille motorini, ma la mia mente ha un indirizzo preciso…

Phnom Penh, il traffico è come quello di Bangkok, l’umidità pure peggio

E allora cominciamo questo necessario (?) percorso del dolore.
Un pullmino ci porta al primo dei due siti che ricordano il genocidio effettuato dai khmer rossi. Si chiama Choeung Ek Memorial ed è appena fuori dal caos cittadino, circondato dal verde e da bambini che giocano. Proprio come in Ruanda, nelle due chiese-memoriale a sud di Kigali, sembrano quasi ignari di cosa ci sia appena oltre la siepe. E’ situato in un frutteto il più noto dei killing fields, quei luoghi atroci che noi occidentali abbiamo potuto avvicinare grazie a film come “Urla dal silenzio” di Roland Joffè, lo stesso regista che ci ha lasciato l’imponente film “The Mission”.

Ma cosa vediamo…?

Ottantasei fosse comuni, due terzi del totale, che hanno portato alla luce quasi 9.000 corpi. Era il terminale delle torture effettuate in città, nell’S-21, la scuola che visiteremo subito dopo. Resti di ossa e teschi sono pietosamente accumulati, ordinati per età e sesso, dentro l’edificio situato al centro del complesso, uno stupa buddista bianco e sobrio, con teche di plexiglas.

Resti di ossa e teschi sono pietosamente accumulati, ordinati per età e sesso

Attorno ci sono solo vari cartelli esplicativi, crudi e semplici nella loro atrocità. Non si usavano armi da fuoco, no, erano troppo preziose le pallottole. Per delle uccisioni perpetrate molte volte da tredicenni, gli uomini nuovi del regime, erano meglio vanghe, bastoni, coltelli, insetticida, alberi contro cui fracassare i corpi dei neonati.
Da alcune fosse comuni ancora affiorano resti di piccole ossa e numerosi denti umani. Dietro allo stupa ecco spuntare un lago, e non oso pensare cosa ci abbiano buttato dentro. Accanto a un albero un cartello che dice che, come nelle centinaia di Garage Olimpo argentini ai tempi della dittatura dei generali, anche qui si appendevano altoparlanti ai rami. Servivano a sparare alta in cielo la musica che potesse coprire i lamenti dei torturati…

Bizot e Duch

Accanto all’entrata c’è una palazzina adibita a museo. E’ la stessa in cui entrò Bizot, l’antropologo franco-canadese vincitore del Premio Terzani, l’unico occidentale a rimanere vivo dopo l’imprigionamento subito dai kmer rossi, al suo ritorno in Cambogia dopo quasi venti anni. Non riusciva a dimenticare, voleva capire i dettagli della follia. Ricordava le infinite discussioni con tale Duch, allora giovane e fervente rivoluzionario della giungla di Anlong Veng, permeato di ideologia maoista più che marxista, bramoso di giustizia e proteso alla creazione di una Cambogia solidale e contadina, fondata su fermi valori morali. Parlavano tanto i due, perché l’aguzzino voleva capire cosa facesse uno studioso di religioni, in quelle terre dimenticate da Dio, martoriate dalla guerriglia e dai bombardamenti.
Molti dei dirigenti khmer non potevano credere che non fosse una spia della CIA. Legato a una catena, mentre aspettava una probabile esecuzione, tentava di spiegare il suo lavoro e questo aveva trasformato il rapporto col guerrigliero in qualcosa di più profondo di una relazione carceriere-prigioniero. Attorno non si sentivano le torture, né i rumori delle esecuzioni. Si uccideva in silenzio. E Bizot per miracolo fu l’unico a salvarsi.

nelle due foto prese da wikipedia Bizot a sinistra e Duch a destra
*Copyright

(nelle due foto prese da wikipedia Bizot a sinistra e Duch a destra)

Duch aveva iniziato credere alla sua innocenza ma aveva problemi politici da risolvere e conflitti di potere, quelli che scateneranno le epurazioni interne al movimento degli stessi khmer rossi, con dirigenti che volevano la morte del prigioniero, e subito. Bizot sopravvisse nei tre mesi di prigionia per la testardaggine di Duch che, come gli comunicò in seguito dal carcere nel loro insolito rapporto epistolare, scompariva spesso dal campo per trattare il suo rilascio, convincere la dirigenza, salvargli la vita. Ci riuscì grazie al rapporto che scrisse e, incredibilmente, all’intermediazione di Pol Pot. Del suo aguzzino serbava un ricordo contraddittorio – sapeva che torturava e picchiava i prigionieri – ma anche, in parte, un legame di affetto, un sentimento di riconoscenza mai sopito.
Dopo gli anni del terrore, Duch tornò a fare il professore di matematica e si convertì al cristianesimo, fino a quando, scoperto da un giornalista, fu processato per crimini contro l’umanità e, nonostante il pentimento (fu l’unico ad essersi pentito e ad aver chiesto perdono ai parenti delle vittime) fu condannato a 35 anni di carcere, che finiranno nel 2034.
Torniamo al… presente. Entrando nella tetra palazzina Bizot vide quello che ho visto io. Pannelli esplicativi, i pigiami neri e le sciarpe a quadretti bianchi e rossi della divisa dei khmer rossi appesi al muro, accanto ai sandali fatti di pezzi di pneumatici. Armi, spiegazioni, mappe e, su fondo nero, dieci foto-ritratti. Li fotografo tutti, per non dimenticare. Sono i volti dei dieci Amici: Pol Pot, Ta Mok, Khieu Samphan e tutti gli altri. Alcuni uccisi, altri morti, altri ancora che hanno ricoperto incarichi di governo, altri fuggiti in qualche giungla o metropoli asiatica, altri processati e solo lui, il suo vecchio carceriere, orecchie a sventola e sorriso in una foto vecchia, viso rugoso da sessantasettenne in una più recente e più grande, processato e esemplarmente condannato.
Cosa avesse spinto un giovane rivoluzionario a diventare carnefice, responsabile dei campi di prigionia e delle esecuzioni, della tortura e dell’esecuzione di migliaia di prigionieri e dello sterminio degli ultimi rimasti prima dell’arrivo dei Vietnamiti, Bizot non seppe mai spiegarselo. Entrando in quella stanza, fece un salto nel passato chiedendosi quali spaventose metamorfosi avesse attraversato Duch per diventare tale. Io, invece, riesco a dare un volto a 150 pagine di libro teso e coinvolgente. Fisso la foto del vecchio Duch, quello pentito, e sembra un anziano innocente. Quello giovane assomiglia invece a un ragazzo spensierato, con le gonnelle da inseguire come unico pensiero.
Poi giro lo sguardo e osservo, appesa al muro accanto, una mappa stilizzata della Cambogia: l’interno è riempito di teschi, mentre i fiumi (il Tonle Sap e il Mekong) e il lago Tonle Sap sono di colore rosso sangue. E penso davvero che l’orrore, la tenebra, può nascondersi in chiunque.

Urla del silenzio

Duch divenne il responsabile del carcere Tuol Seng, più noto come S-21, situato nel cuore di Phnom Penh. Di ventimila reclusi ne uscirono vivi solamente sette. E’ un ex istituto scolastico formato da cinque edifici a due piani. All’ingresso c’è un cartello pazzesco che invita a non ridere, ma credo che nessuno ne abbia la voglia, non siamo qui in crociera di piacere. Faccio solo foto in bianco e nero, e mi viene quasi spontaneo. Per rispetto non voglio pubblicarle. Forse è un modo per allontanare negli anni gli eventi trascorsi all’interno di questo quadrilatero circondato da filo spinato; per porre un po’ di distanza; per non sentirmi male. Forse sto inconsapevolmente esorcizzando l’orrore.
Ci sono celle spoglie dal pavimento a quadri con letti di ferro arrugginito, sbarre alle finestre che danno su un cielo terso e su altissime palme, strumenti di tortura, foto di cadaveri allucinanti e volti, migliaia di volti nelle foto appese al muro. Perché dell’orrore si teneva la contabilità, ognuno aveva il suo numero. Sono volti impauriti, di tutte le età. Gridano spietati nel tuo cuore. Lamentano tutta la follia del genere umano. Sono loro le urla del silenzio.
Il viaggio nell’abisso non è ancora finito. Gli attrezzi da ginnastica in cortile erano mutati in strumenti di tortura e, all’interno, è ancora esposto il regolamento del carcere:

  1. Devi rispondere attenendoti alla mia domanda. Non tergiversare.
  2. Non cercare di occultare i fatti adducendo pretesti vari, ti è severamente vietato contestarmi.
  3. Non fare il finto tonto, perché sei un controrivoluzionario.
  4. Devi rispondere immediatamente alle mie domande senza sprecare tempo a riflettere.
  5. Non parlarmi delle tue piccole azioni immorali o dell’essenza della rivoluzione.
  6. Non devi assolutamente gridare mentre ricevi l’elettroshock o vieni frustato.
  7. Non fare nulla, siediti e attendi i miei ordini. Se non ci sono ordini, rimani in silenzio. Quando ti chiedo di fare qualcosa, devi eseguire immediatamente senza protestare.
  8. Non inventare scuse sulla Kampuchea Krom4 per nascondere i tuoi segreti da traditore.
  9. Se non segui tutte le regole succitate, riceverai moltissime frustate con il cavo elettrico.
  10. Se disubbidirai ad una sola delle mie regole riceverai dieci frustate o cinque scosse elettriche.

Vengo infine a sapere che la foto della mappa dei teschi esposta ai killing fields non è un’elaborazione grafica, ma un qualcosa di reale, ritrovato dai vietnamiti dopo l’invasione, formata da trecento teschi e altre ossa. E continuo a pensare che all’orrore non ci sia mai fine e che l’animo umano possa essere capace di indicibili aberrazioni. Che neanche il più crudele degli animali riuscirebbe a concepire, perché almeno loro, anche i più feroci, riescono ad avere il minimo senso di pietà; perché almeno loro uccidono per mangiare.

L’orrore. L’orrore.

Le ultime frasi di “Apocalypse Now” continuano a rimbombarmi, senza pietà, per l’ennesima volta in testa.

la locandina del film “Urla dal silenzio”
*Copyright

(qui sopra la locandina del film “Urla dal silenzio” e qui di seguito il trailer e alcune scene, tragiche e commoventi del film vincitore di tre premi oscar):

Una luce splendente

Restano poche ore da passare a Phnom Penh.
Incredibilmente ciò che abbiamo visto non ci toglie l’appetito e, dopo aver visitato un mercato dove acquisto alcuni quadretti su Angkor Wat, l’ultimo pranzo cambogiano è basato su un pollo al curry verde piccantissimo (quando chiedo “spicy” il ristoratore mi guarda soddisfatto) innaffiato di abbondante birra.
Più tardi visitiamo il palazzo reale, più sobrio di quello di Bangkok, dai viali più larghi, dai colori meno accesi e con più spazio per il verde. Infine l’ultimo tempio, circondato da numerose scimmiette e da un elefante indiano che fa tristemente il testimonial per una birra con una scritta blu in fronte.

visitiamo il palazzo reale, più sobrio di quello di Bangkok

Dall’albergo trascino parte del gruppo in riva al fiume.
La luce comincia a cambiare, l’umidità a dare un po’ di tregua e voglio assolutamente vedere il fiume.
Non posso essere arrivato così a Oriente e non aver perlomeno visto il possente Mekong. Che fa di Phnom Phen un importante porto fluviale per i commerci di questa parte del sud est asiatico. Una città che nonostante il passato pesi come un macigno prova a riorganiizarsi, a guardare avanti e a farcela.
Arriviamo alla sua confluenza con il Tonle Sap durante un bellissimo tramonto e lì dove le acque si mescolano sembra un mare infinito che, dopo 4.500 chilometri attraverso Himalaya, Cina, Birmania, Laos, Thailandia e Cambogia diventa delta e corre verso il Vietnam e la sua foce.
Il gigante d’acqua, portatore di vita come in passato di cadaveri, attraversa tutti gli stati dell’Indocina.
Il cielo è ormai rosa, il tramonto dietro la pagoda d’argento affascinante, e sul lungofiume sventolano i colori di numerose bandiere nazionali. E’ un fiume che mi invita a un altro viaggio e mi induce a sognare il Vietnam, su cui ho letto troppo per non andarvi in pellegrinaggio prima o poi.
Lungo il fiume si affacciano molti locali, come al solito provvisori e non, equivoci e non. Provvisoria, equivoca, tragica, eppure capace di speranza. E’ questa la Cambogia.
Andiamo su una terrazza a bere cocktail e frullati, forse per raschiare il groppo in gola che ancora abbiamo dentro. Giochiamo a biliardo, circondati dalle cameriere, bellissime ragazze khmer.
E c’è sempre il dubbio, sempre l’incertezza che si possano avvicinare e chiederti “bum bum? tot dollars” ma fortunatamente non accade. Ad un certo punto la più bella scompare, proprio nell’istante in cui quello che abbiamo scoperto essere il maiale del gruppo se ne va, e ricominciano i dubbi, i sospetti, la tristezza.

Lungo il fiume si affacciano molti locali, come al solito provvisori e non, equivoci e non
Andiamo su una terrazza a bere cocktail e frullati

Riattraversiamo la città in tuk tuk e siamo di nuovo al cospetto di sua maestà il Mekong.
Concludo l’esperienza gastronomica cambogiana a cena su un’umida terrazza, assaggiando, nell’ordine, spaghettini di soia con verdure, manzo al paneng (un curry rosso molto delicato in cui dominano il gusto della galanga e delle foglie di lime), pesce Amok al curry giallo, dessert al latte di cocco.
Una delizia, adoro la cucina indocinese.

spaghettini di soia con verdure, manzo al paneng

Mentre sono sull’aereo infinito che da Colombo mi porta a Milano ripenso commosso a una scena vissuta al Palazzo Reale di Phnom Penh. Ho deciso che il mio racconto sulla Cambogia deve finire con questa specie di tardivo omaggio.
All’uscita del Palazzo ci attendevano i soliti venditori, cui è ovviamente precluso l’ingresso perché i templi che rigurgitano salmi non possono ospitare le miserie del proprio popolo.
Che umanità, mamma mia…
E’ una corte dei miracoli che suscita pietà e che non riesci a non guardare. Ci sono mutilati, storpi, ammalati, vestiti di stracci, tra poliziotti indifferenti e procacciatori di affari.
Tra i fratelli delle mine e i figli del napalm, che continuano a nascere deformi in tutta l’Indocina grazie agli effetti dell’Agente Orange, sbuca una bambina di dodici anni. Non saprò mai il suo nome ma per è l’archetipo di tutte le bambine sfortunate cambogiane.

La ragazzina ha potuto permettersi solo tre mesi di scuola

La ragazzina ha potuto permettersi solo tre mesi di scuola, perché troppo costosa. Però è riuscita a studiare privatamente l’inglese, che padroneggia con una sicurezza estranea ai suoi coetanei italiani, e con una triste e consapevole allegria. Ci scambiamo qualche parola mentre, con il fratellino, tra storpi e mendicanti che si inseguono sul marciapiede e si picchiano, sorridendo delle loro sventure, vende bottiglie di acqua fresca ai turisti accaldati che escono dai palazzi dorati, dalla città a loro proibita.

Per ogni bottiglia d’acqua venduta, accumula quel mezzo dollaro che potrà farla riprendere a studiare.
Dopo tanto orrore, spero che questo paese dal passato di tenebra possa contare, nel futuro, su questa luce splendente.

Buona fortuna, piccola.

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