I ranch dal volto umano
Questa è una storia di grandi spazi, del grande e gelido e boscoso Nord Ovest americano. Dove si impara che anche gli animali hanno dei diritti. Dove i ranch e le fattorie arrivano sotto le montagne alte fino a 3.000 metri e dove degli speciali cow boys hanno imparato a diventare amici dei cavalli e a lenire grazie alle loro conoscenze del comportamento animale addirittura i dolori e le ferite dell’anima. Una storia ripresa da un libro e da un film, protagonista un affascinante Robert Redford nel 1998.

Liberi come il vento

Tra il Parco Nazionale di Yellowstone e la scura catena delle Rocky Mountains, negli orizzonti infiniti di praterie di alta quota, vicini al cielo, liberi come il vento, in totale armonia con la natura, abbigliati di pantaloni con copri-frange, camicioni a quadri e scenografici cappelli a tesa vivono e lavorano comunità di ragazzi che non hanno paura della wilderness, della neve, del fango, delle rudezze della vita di montagna. E che hanno trovato nelle mandrie di bovini e soprattutto di cavalli selvatici il loro elemento che li completa, gli animali che gli fanno compagnia e che gli insegnano pure qualcosa. Loro hanno capito più di tanti altri allevatori o domatori lo spirito libero e sensibile dei cavalli, simboli di un legame antico tra l’uomo e la vita selvatica, gli animali che più di tutti hanno rappresentato l’idea stessa della fuga e dell’avventura, dai nemici, dai predatori o lungo nuove strade di viaggio, coi loro corpi bellissimi e muscolosi che esistono da molto prima del motore!
Montana selvaggio
Il Montana non è una terra per tutti perché non è una terra facile. Bisogna cavarsela in chilometri di freddo e di vuoto, bisogna accettare che per un litro di latte o per leggere un giornale si debbano percorrere anche 60 km col pick up, per fare rifornimenti in uno di quegli empori in legno con le insegne penzolanti e un distributore di benzina arrugginito a fargli da guardia.

Qui per giorni si incontrano solo alberi, fiumi, nuvole, pascoli e balle di fieno, i branchi di lupi ululano nella notte, enormi grizzly e alci dalle corna monumentali si aggirano indisturbati e le comodità delle città sono poco accessibili. Le strade sono gelate, le fattorie isolate, le persone separate, le bestie riparate. Si vede solo il fumo di un camino uscire da tante casette di legno.

La doma dolce
Da una terra del genere, da un paesaggio così primordiale, così naturale e così forte arriva la teoria del Natural Horsmanship, secondo la quale i cavalli non vanno mai addestrati con la forza, con le grida, col frustino agitato nervosamente. E’ la cosiddetta “doma dolce”, o etologica, ideata per primo da tale Monty Roberts, uno che aveva come amico fraterno James Dean e che aveva intuito, osservando a lungo i cavalli all’aperto, che l’animale non si addomestica con una rude sottomissione, ma con una forma di addestramento gentile che tiene conto della sua natura, dei suoi codici di linguaggio e di comunicazione e di comportamento derivati dalla vita del branco.

Gli uomini che sussurrano ai cavalli
I sussurratori del Montana come Buck Brannanan, l’ispiratore del personaggio di Redford, rispettano a fondo il cavallo, lo guardano, lo vedono galoppare, ansimare, respirare, masticare, lo abituano a movimenti naturali, a piccoli esercizi, a un tono di voce pacato, a dei bocconcini succulenti dati come premio e soprattutto si accostano a loro con amore e con gradualità, fino a che anche quando i destrieri più aggressivi e indomabili non abbassano timidamente la testa, non accettano le carezze e i sussurri appunto. Un approccio lento, ammirato, quasi solenne.

I tipi come Buck sono profondamente convinti che chi sa relazionarsi coi cavalli sappia farlo anche con gli esseri umani, perché serve un’empatia simile.
Lassù nel Montana i cavalli lo capiscono se i cow boy sono poco sereni, poco pazienti, percepiscono se hanno un modo di fare nervoso o un approccio al contrario troppo timido, sanno che se l’uomo ha paura trasmette paura e che se emana fierezza e dolcezza trasmette fierezza e dolcezza. Perché i cavalli sono splendidi animali sociali.

Il rispetto dei pascoli
E sempre da qui si è sviluppata a coinvolgere tante aree rurali dell’America più selvaggia e profonda la cosiddetta gestione olistica dei pascoli che consiste nello spostare la propria mandria di continuo, per non farle mai brucare troppo la stessa erba, cosicché il manto verde d’alta quota possa rigenerarsi presto e meglio. Ogni filo d’erba ha valore, ogni equilibrio va cercato e mantenuto.
Tutto torna nel film
Ma torniamo ai cavalli bellissimi e selvaggi, vera icona dei ranch e degli spazi vergini e assoluti del Montana. E di un commovente romanzo e film: “L’uomo che sussurrava ai cavalli”.

La trama ha un inizio drammatico: durante una gita in montagna due amiche coi loro cavalli scivolano sul ghiaccio e un grosso camion le investe. Una coppia (si parliamo di coppia perché nel Montana è giusto dire che esseri umani e equini sono così affini da meritarsi di essere definiti così!) muore, l’altra resta segnata per sempre: Grace con la sua gamba amputata, i suoi silenzi e gli abissi nell’anima; il suo amato cavallo Pilgrim ferito in modo gravissimo, probabilmente scosso per sempre nei nervi e quindi trasformatosi in una bestia irascibile e aggressiva dal fedele compagno di avventure e giochi che era. La mamma di Grace non si abbatte e siccome sa benissimo che l’unica speranza di veder rifiorire la vita in sua figlia è legata alle condizioni di salute del cavallo ottiene a fatica, dopo una ricerca sul web, il supporto di Tom Booker, di professione “sussurratore”.
Indimenticabile la prima telefonata tra i due: “Pare che lei aiuti le persone che hanno problemi con i cavalli – io aiuto i cavalli che hanno problemi con le persone”.
E molto delicate le pagine del romanzo di Evans: “Sin da quel primo momento del Neolitico in cui un cavallo venne imbrigliato ci furono alcuni uomini che l’avevano intuito. Essi potevano vedere nell’anima di quelle creature e lenire le ferite che vi trovavano. I segreti bisbigliati dolcemente nelle orecchie turbate: questi uomini erano conosciuti come i sussurratori”.

Un cammino di rinascita
L’inizio del rapporto uomo-cavallo tanto nel romanzo quanto nella spettacolare versione cinematografica è assai inconcludente, ogni sforzo di rendere mansueto e amico l’animale scioccato risulta vano, ma un saggio Robert Redford, a suo agio tra giacconi di pelle, stivali, scuderie, prati meravigliosi e orizzonti innevati, capace di rimanere per ore accovacciato nell’erba a guardare e a “farsi sentire” dall’animale, trova la chiave proprio nella pazienza, nella sensibilità, nella perseveranza.
Per lui aspettare non ha un costo, entrare in sintonia col cavallo significa ascoltare la natura e fondersi con essa, in un rapporto nuovo che crea equilibrio, dona speranza e che può cambiarci per sempre.
Così aiuta anche l’adolescente nel suo tormentato percorso di recupero fisico e psicologico, perché la vita di Grace passa esattamente da questo, dal poter tornare al galoppo di Pilgrim. Scatta ovviamente l’attrazione fatale con la mamma di Grace che però capisce che il suo posto è la sua famiglia e alla fine con grande commozione decide di lasciare il Montana e l’uomo che sussurrando al cavallo di sua figlia le ha donato una nuova vita che proseguirà tra le luci e i rumori di New York.

Natura da fiaba
Nel film di cui Redford è anche il regista e in cui appare accanto a Kristin Scott Thomas la giovanissima Scarlett Johanson, ma anche nelle belle pagine di Nicholas Evans, grande parte della scena è rubata dai favolosi paesaggi del Montana, coi suoi cavalli bradi, gli alti picchi, i fiori selvatici, i torrenti e i tramonti. Il Montana che non concede sconti ma in compenso regala in abbondanza le sue distese erbose, la sua brezza e la sua neve. In certi momenti sembra di rivedere “La mia Africa” a un’altra e gelida latitudine, in un’altra romantica ballata spirituale. Fotografia e musica straordinarie fanno il resto.

L’ultimo Western
E nel nostro immaginario questi spazi resistono, così come la figura dell’abile cow boy, antesignano dei sussurratori e dei ragazzi di oggi e della loro rivoluzione verde. Resta questa fiaba pulita e sognatrice, questa storia possibile solo nello sconfinato Montana. Che ci insegna quanto tempo e quanto amore e quanta empatia siano necessari per guarire un animale e un essere umano da dentro, dove il buio ha preso il posto della luce. C’è chi per descrivere questo ritmo lento e questi panorami e animali stupendi ha definito il film come “l’ultimo western possibile” (Emanuela Martini). Specie chi ha avuto il privilegio di galoppare in mezzo all’erba e col vento in faccia sarà d’accordo.


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