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Il Cile estremo di Atacama

Cile gelato

Il Cile estremo di Atacama

L’ennesima attesa e meravigliosa giornata sudamericana della mia vita comincia con dei paciosi lama visti a distanza ravvicinata, in due recinti tra i monti. Un mare di muschio verdastro è intervallato da lastre di ghiaccio, con il vulcano, possente, sullo sfondo. Varcato un passo a quota 4.850 metri (!!) ci fermiamo in una laguna abitata da pochi fenicotteri e da molte loro cacche, infatti l’odore non è il massimo nonostante ci sia la purezza del paesaggio e il clima freddo a rendere tutto più limpido. Il bianco delle lastre di ghiaccio ancora non scongelate si mischia con il colore giallastro delle rive, in una tavolozza tipica quando si attraversa l’altissima regione andina. Poco oltre, un’altra laguna circondata dal nulla e il nostro primo Salar. Il sale, marroncino, è scavato ed estratto da imprese cilene.
Anche per i rapaci più grandi del mondo fa troppo freddo. Non vediamo condor in volo. Il cono del vulcano Licancabur svetta in una valle segnata dalle recenti nevicate. L’atmosfera è surreale, silenziosa, rarefatta, e si gelano anche i pensieri. La frontiera Bolivia-Cile è un posto del genere, si ricorda per emozioni del genere e anche perché è da qui che sali su uno di quei miracolosi piccoli pulmini che sfidano le montagne, la neve, i deserti, le notti gelide, le piste polverose per portarti al Deserto Di Atacama.

Il cono del vulcano Licancabur

Il vino e gli alternativi di San Pedro

In meno di un’ora scendiamo dai 4.500 ai 2.500 metri, a San Pedro de Atacama, un paese che fa parte dell’immaginario stesso dell’America Latina.
All’ingresso del paese i doganieri controllano solerti ogni zaino, a caccia di oggetti di artigianato, cibo e verdura non dichiarata. Tutto in maniera rapida e funzionale, in una fila così ordinata che neanche in Italia. Arriviamo nell’alberghetto prenotato, fermo un cameriere. Vino, voglio vino rosso cileno. Per scaldarmi finalmente, per sentirmi il fuoco nelle vene, per sentirmi per qualche attimo un poeta come Pablo Neruda, un ribelle come Luis Sepùlveda, una scrittrice sognante come Isabel Allende.
Siamo scesi quel che basta per poter bere qualcosa. Pago in dollari, ricevendo il resto in valuta locale. Memore delle lezioni di Sepùlveda sull’importanza dei diminutivi nel sud del mondo, chiedo un vasito de vino tinto por favor. Un bicchierino. Me ne portano un calice strapieno. “Avresti dovuto chiedere una copita. Vasito e vaso son lo stesso per loro” mi diranno dopo.
Prendiamo possesso delle stanze, cambiamo i soldi e partiamo per una breve escursione pomeridiana che ci porta prima presso tre monoliti chiamati con molta fantasia Las tres Marias (sembrano figure inginocchiate) e poi sulla cresta di una collina, nel cratere della Valle de la Luna, tra strane forme di rocce e dune di sabbia, colori incredibili e un bellissimo tramonto con il vulcano Licancabur a dominare la potente e nuda scena di natura estrema cilena.
Il panorama si dipinge di sette colori e lascia le guglie sottostanti in un’atmosfera ovattata, quasi onirica. Per una volta non siamo soli, ci sono altri turisti e quando sono discreti fa anche piacere perché davvero per km veniamo da piste solitarie, lama, condor e basta.
Non viviamo quel che io chiamo “il momento della scoperta”, ma va bene lo stesso. Mangiamo a menù fisso. Passeggiamo per le strade sterrate del piccolo paese, fondato da hippies e ora covo di rasta, scoppiati e marginali. Dello stesso tenore, viranti sull’etnico, i negozi che vendono artigianato e i turisti, alternativi o finto-alternativi.
Siamo troppo stanchi per fare le ore piccole e domani ci aspetta la sveglia più atroce del viaggio.

le strade sterrate del piccolo paese, fondato da hippies e ora covo di rasta, scoppiati e marginali

Le ultime domande prima di crollare sotto tre pesanti coperte sono sul perché tanti giovani in giro per un fantastico continente hanno deciso di piantare le tende qui: perché vogliono restare il più lontano possibile dalla civiltà? Perché hanno qualcosa da nascondere o magari una dimensione tutta loro, tutta intima, tutta essenziale da cercare? Perché tra droghe e fumi e bottiglie hanno perso per sempre la strada di casa e le chiavi della vita tradizionale? O perché la bellezza tremenda e gelata del Cile Nord li ha incatenati per sempre?

vogliono restare il più lontano possibile dalla civiltà

Geyser e miniere

Sveglia selvaggia e freddissima, ore 3.30. Infilo una maglia lunga, due pile, giacca termica, foulard e cappello di lana himalayano. Si risale, si arriva a quota 4.300… Avanti, nel buio, si intravedono fari di macchine che percorrono la stessa strada. La luna calante, ma quasi piena, consente di vedere i coni vulcanici in serie che delimitano la Cordigliera delle Ande. Fratelli nella notte. Profili neri, severi, carismatici quasi.
Arriviamo al geyser de El Tatyo poco prima dell’alba. Sputa fuori dal terreno i suoi soffioni a 85 gradi, con notevole intensità. Sembrano l’alito del drago in una mattina così livida. Già dentro il pullmino si assidera una coscia, quella accanto al finestrino, per uno spiffero che arriva non so da dove. Fuori fanno quindici gradi sotto zero e, nonostante l’imbacuccamento totale, il freddo raggiunge prestissimo le estremità degli arti.
Il chiarore che precede l’alba ci regala un paesaggio lunare, solfatare e colonne di fumo caldo che si stagliano contro la cordigliera. Ma più di venti minuti non resisto. Dopo un doppio bicchiere di cioccolata calda servito al gelo, sono sul pullmino con pochi intimi, a scaldarmi le mani, a tentare di muovere le dita dei piedi, a tentare di sentire quel dolore che è vita, quel che fa riprendere la circolazione. Poco più tardi ci rechiamo ai geyser più grandi (e più pericolosi) e c’è una vagonata di turisti. Due pazzi del gruppo prendono il coraggio a due mani, si tolgono tutti gli strati, restano in costume da bagno e si buttano in una pozza calda. Dicono che è bellissimo, ci credo, ma sento ancora più freddo, solo a guardarli.

Arriviamo al geyser de El Tatyo poco prima dell’alba

Sento tanto, tanto freddo. Dalle gambe sale verso la pancia e non basta a riscaldarmi il primo apparire del sole e la vista di un uruguagio che spippetta la sua calda yerba mate da una bombilla ricavata da uno zoccolo d’animale. Sarà quello di un lama?
Sale il sole, scendiamo rapidamente di quota, gli strati calano a due quando ci fermiamo in un piccolo villaggio situato in fondo a una valle e controllato ai due confini da un bosco di fichi d’india giganteschi e dal cactus solitario più alto che abbia mai visto, come una specie di invincibile sentinella. Mi fermo a parlare un po’ con un vecchietto in piazza. Il bello dello spagnolo, comprese le sfumature dialettali, è che davvero con un po’ di impegno e di lentezza ascolti, capisci, rispondi: comunichi.
Il tipo lamenta una siccità troppo prolungata e un’agricoltura che, lungo le rive dello striminzito fiume, non riesce a decollare. Terre selvagge nei dintorni del villaggio. Sotto i coni dei vulcani, su colline aspre e brulle, si aggirano lama e vigogne che bevono l’acqua da un ruscello parzialmente ghiacciato, danzandoci sopra come fragili ballerine, e ci sono pure grossi conigli che si mimetizzano a perfezione tra le rocce.
Basta scendere un altro po’ di quota perché il ghiaccio ceda il posto a terre secche e perché le colline siano sostituite dalla Piana del silenzio, piatta, vasta, arida, marrone.

L’arrivo nel deserto

Ora siamo ai limiti del Deserto de Atacama, landa inospitale che, dopo rarissime piogge, regala le rose più belle del mondo. Quelle metafore di resistenza e resilienza che hanno dato il dolce titolo a un libro di racconti di Sepùlveda.

Quelle metafore di resistenza e resilienza che hanno dato il dolce titola a un libro di racconti di Sepùlveda
*copyright

Pranziamo al sacco in un paesino che ospita in piazza una piccola chiesa bianca a due campanili che assomigliano a tutte le missioni messicane che ho visto sugli albi di Tex. Attorno a noi, i bambini della scuola, in piazza, sono impegnati nell’ora di ginnastica, seguendo gli ordini di un severo fischietto. Arriviamo a Calama, cittadona di appoggio a Chuquicamata, la miniera di rame a cielo aperto più grande del mondo. Indossiamo giubbetti fosforescenti ed elmetti, assieme a un altro gruppo di turisti, compresi gli italiani del gruppo parallelo al nostro. Sono in numero minore, più anziani e uno di loro, atterrando direttamente alla folle altitudine cui si trova La Paz, è stato colto da edema polmonare e ricoverato.
Sul pullman che ci porta in miniera, un omino senza sorriso ci racconta cenni storici e misure di sicurezza. Appena guardo fuori facce rugose, antiche, che nonostante tutto sorridono.

Appena guardo fuori facce rugose, antiche, che nonostante tutto sorridono

Quel che ritengo opportuno riportare qui è che la miniera, aperta nel 1915, apparteneva agli Stati Uniti – la politica del cortile di casa applicata sulla pelle degli indios, no? Fu “acquistata” per il 51% dal Cile dopo le seconda guerra mondiale e nazionalizzata totalmente da Allende nel 1971. E poi ti chiedi quanto l’economia crei la storia, quanto il rame abbia spinto Kissinger a decretare, con le armi, la fine di un governo democraticamente eletto, fino a lasciarlo per sedici anni nelle mani di Pinochet, assassino, dittatore e torturatore: che la terra non gli sia lieve.
E’ la stessa miniera dove il Che arrivò durante il suo viaggio con Alberto Granado a bordo de La Poderosa, la moto mitica che attraversò il continente con a bordo il Guevara giovane alla scoperta di tutti i torti subiti dai poveri e della sua coscienza militante.
Probabilmente si trattava di qualcosa di diverso allora, di un girone dantesco dove si lavorava in condizioni disumane senza l’ausilio della meccanizzazione, e dove nessuno, nessuno aveva il coraggio di ribellarsi dal destino degli eterni sconfitti. Non ancora, non allora. Fatto sta che quella acquisizione fu uno degli eventi ad aver fatto diventare il Che quel che diventò. Oggi la miniera, saldamente in mani cilene, è l’orgoglio della nazione. La bandiera sventola sugli scavi immensi di una vena che si esaurirà solo tra sessanta anni, dicono i geologi, ed è la prima entrata nazionale.

Quel che non si vede è la fatica, e fa senso. Che differenza con i convogli di Potosì, i salari da fame e le bocche dei minatori piene di foglie di coca. Dal belvedere si guarda in basso e vi sono ottanta scalini di dimensioni ragguardevoli, concentrici, fino ad arrivare in fondo alla buca, alta un chilometro, lunga cinque, larga tre. A forza di esplosioni si tira fuori la roccia, trasportata a monte su lunghe strade diagonali, da camion giganteschi che hanno ruote dal diametro di quattro metri e dal costo di duemila dollari. Poi il materiale ferroso viene separato dal rame a 1200 gradi e la lavorazione può iniziare: destinazione finale la Cina, maggior compratore.
All’ingresso della miniera, accanto al villaggio che fu abbandonato perché gli scavi che crescevano troppo ne minacciavano la sicurezza, si possono leggere cartelli del tipo: “miniera aperta da tot giorni ininterrottamente” o “tot giorni senza incidenti sul lavoro”. Vorrei tanto sentire anche la campana dei lavoratori e sapere se è tutto oro quel che luccica.
La tappa successiva è una visita veloce della Valle della Luna e della Valle della Morte, canyon dove si alternano sabbie e rocce maestose e dove il paesaggio sembra quasi extraterrestre. Poi tocca alle grotte con le pitture rupestri di Hierbas Buenas e alle acque rossicce della laguna di Piedras Rojas. Poi tocca alla steppa percorsa da poetici vigogna, e infine verso Antofagasta alla enorme mano di pietra che esce dal deserto a simboleggiare l’importanza millesimale dell’uomo e la sua stessa solitudine in mezzo a un orizzonte così sconfinato.

la enorme mano di pietra che esce dal deserto a simboleggiare l’importanza millesimale dell’uomo e la sua stessa solitudine

Mentre torniamo a San Pedro, attraversando la landa brulla e assolata che costeggia il deserto di Atacama, gli occhi si chiudono. Sarà l’alzataccia, o l’essere passati in due ore da quindici gradi sotto zero a più trenta? Mi risvegliano i rilievi e le forme pazze della Cordillera del Sal, che ieri al tramonto ho visto tingersi di rosso. Corro in paese, vado dal pelouquero e c’è una fila pazzesca. Fa la barba a due lire, ma solo col rasoio elettrico. Volevo mani anziane e pazienti a massaggiarmi le guance: desisto.
Giro allora per una cittadina abitata da anziani hippies e da gente fuori di testa, assomiglia molto a quel quartiere di Katmandu, Thamel, visitato anni fa. Alcuni di essi, a forza di farsi di San Pedrito, sono completamente fusi. La piazzetta mantiene, però, tra le centinaia di negozietti tutti uguali, una sua identità. Il tetto della chiesa, bianca come quella vista nel pomeriggio, è fatto di fango fuori, di legno di cactus dentro, ruvido e poroso. Dei punkabbestia ci entrano con un cane, che gli importa?
Aperitivo con empanada gigante e birra chiara, cena a base di bistecca, dopo cena in una cantina fumosa e piena di turisti che domani non dovranno alzarsi alle tre del mattino. Un pisco-sour miscelato male mi accompagna nel mio ultimo sonno ai bordi del deserto di Atacama, il luogo probabilmente più secco della terra, dove in alcune zone proprio non si ricordano, a memoria d’uomo, le piogge.

Atacama, il luogo probabilmente più secco della terra

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