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Cultura da Viaggio

Il cinema che racconta il west americano – prima parte

Il grande sogno

Se pensi a un grande paese ritratto sul grande schermo, a quello raccontato con più maestria, più suggestione, più continuità, c’è poco da fare, ti viene in mento soprattutto un nome: l’America. In modo particolare i grandi spazi dell’ovest americano e quel senso spesso precario di avventura, di estraniamento e di ricerca che solo certe zone della California, dell’Arizona, del Nevada, dello Utah e del Colorado sono capaci di esprimere. Quel brivido, quella poesia e quella vertigine di una vita tutta spesa on the road, fra quinte naturali di sconvolgente bellezza, orizzonti vuoti, polverosi e selvaggi.

Si chiama per sintesi, per abitudine, il Far West, dove andavano tutti, dove sognavano tutti, dove qualcuno si perdeva e qualcun altro si trovava. La strada al polo opposto della civilizzazione che iniziò con gli emigrati europei sulla costa atlantica, nelle grandi metropoli dell’Est, per finire viaggio dopo viaggio, carovana dopo carovana, miraggio dopo miraggio, frontiera dopo frontiera, sull’altro Oceano, il Pacifico. Dove sorse, sempre più veloce, moderna e sognante un’altra America altrettanto scintillante.

viaggio dopo viaggio, carovana dopo carovana, miraggio dopo miraggio, frontiera dopo frontiera

In mezzo rimanevano i grandi spazi attraversati da Harley Davidson o Ford Thunderbird, da viandanti e da hippies, da pionieri, da giovani in fuga o alla ricerca di qualcosa, da eroi maledetti, da donne coraggiose e indipendenti, da tutti quelli che in qualche modo credevano nel “grande sogno”.

Questo sogno, questo Ovest americano, tanto indimenticabile cinema ha provato a narrarlo, mettendo in scena una volta un deserto, una volta un villaggio, un’altra una città nascente. O una strada infinita con tutti le icone del west, i motel, i cactus, i canyons. Passando dalle locations scelte per i film di James Dean a quelle di capolavori come “Easy Rider” e “Thelma & Louise”, dai grandi vuoti di “Zabriskie Point” e “Fandango” agli orizzonti silenziosi ma insieme musicali di “Paris, Texas” o “Baghdad Cafè”. Dai romantici tramonti di “Balla coi Lupi” alle file di vigneti presenti in “Sideways” o ne “Il profumo del mosto selvatico” fino alle montagne di “Wild” e più su alla glaciale bellezza dell’Alaska di “Into the wild”.

E allora ti chiedi davvero se certi viaggi non finiscono mai. Se è tutta colpa del mito, del cinema, della letteratura e della musica o se alcuni luoghi emanano già da soli un fascino infinito.

Oppure rifletti con le parole del cantautore Luciano Ligabue che certe atmosfere e strade americane le ha raccontate benissimo ma è rimasto più volentieri nella sua terra, l’Emilia, perché “visitare quel paese lo farebbe smettere di essere America, di essere sogno”. In fondo anche Emilio Salgari inventò la figura e i paesaggi e le tigri, i pirati, le giungle e le isole di Sandokan senza essere mai stato in Malesia. Affidiamo quindi ai grandi film “Born in the Usa” questo potere evocativo del no where americano.

Affidiamo quindi ai grandi film “Born in the Usa” questo potere evocativo del no where americano

Gli anni di James Dean

Tre film in due anni, il 1955 e il 1956, un sogno breve per una vita breve. Il giovane istintivo e malinconico Dean, icona dei “ribelli senza causa”, fu l’attore protagonista di “La valle dell’Eden”, “Gioventù bruciata” e “Il Gigante”, storie emozionanti che raccontano il brusco e doloroso passaggio all’età adulta, sullo sfondo di grandi paesaggi come quelli della Salinas Valley, la parte più verde e agricola della California, di una Los Angeles agli albori della sua impressionante crescita, e del Texas dei latifondi e della polvere che vede cambiare il destino delle famiglie di allevatori con l’avvento dei pozzi di petrolio. Sparsi nelle trame ecco il germe della rivolta, l’idea della speranza, del fallimento come del cambiamento. Con l’Ovest americano pronto ad accogliere tutto questo.

Dean, icona dei “ribelli senza causa”, fu l’attore protagonista di “La valle dell’Eden”, “Gioventù bruciata” e “Il Gigante”

La strada hippy

Easy Rider” con Peter Fonda, Dennis Hopper e Jack Nicholson, uscito nel 1969 è sempre stato considerato il manifesto di tutti i film on the road, per il fascino dei paesaggi, dei deserti, delle strade, delle moto. Sì è anche inserito alla perfezione nel contesto culturale dei movimenti studenteschi che hanno infiammato il mondo giovanile nel ’68, esprimendo l’idea assoluta di liberta, di non-omologazione e di ricerca di esperienze-altre. In un viaggio che da Los Angeles attraversa il Sud Ovest degli Stati Uniti, approdando alla New Orleans del jazz e del Carnevale. Senza poter raggiungere la Florida…

I protagonisti sono invisi alla società piatta e medio-borghese dell’epoca, per il loro modo di vestire, di viaggiare, di parlare, per la confidenza con la marijuana, l’alcol, l’amore libero, gli acidi psichedelici. Il grande falò che brucia la moto di Fonda-Capitan America è forse il sipario che cala su quella generazione e su quei diversi sogni proibiti. Una grande colonna sonora rock fa il resto del piccolo miracolo cinematografico che tanto potere ebbe contro i pregiudizi e l’intolleranza di una parte importante di società americana.

All’anno dopo risale “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni, definito dalla critica un po’ favola e un po’apocalisse, se vogliano un film ancora più metafisico e realmente basato sulla filosofia dei grandi spazi vuoti del deserto americano, stavolta quello della Valle della Morte nella California più arida e selvaggia. La scena più celebre del film è quella dove i due giovani in fuga e in viaggio fanno l’amore all’aperto, in una valle, davanti all’orizzonte estraniante del deserto. Non mancano anche qui le grandi e vuote strade americane che portano nell’Arizona di Phoenix, le pompe di benzina isolate, le officine col cartello penzolante, il vento che muove i cespugli, i tramonti rosso-fuoco. Non mancano i temi psichedelici ed onirici e gli slogan pacifisti, non manca anzi straborda, la sensazione di libertà da tutto. Accompagnata come spesso accade in questi film dalla grande musica dell’epoca: i Pink Floyd, i Rolling Stones, i Grateful Dead.

“Easy Rider” con Peter Fonda e “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni

L’amicizia on the road

Ognuno di noi ama molto un film che non è per forza un capolavoro, ma lo ama per quel certo tocco di leggerezza, per il momento in cui lo vede e lo vive, per le sensazioni agrodolci che gli lascia quella idea di giovinezza che fugge via. A me è successo con “Fandango” dove il ballo finale di un giovanissimo Kevin Costner con la ragazza dalle lentiggini, attirata col suo foulard, in una notte americana con le stelle, il deserto e le lucine di una festa tutte al loro posto che creano una magia unica. Leggera, appunto. “Fandango” esce nel 1985, avevo 16 anni, e fu un colpo al cuore e ai sensi, perché fu un semplice inno alla vita e alla voglia di partire, di scoprire, di viaggiare.

una notte americana con le stelle, il deserto e le lucine di una festa tutte al loro posto che creano una magia unica. Leggera, appunto. “Fandango”

La storia non era neanche tanto importante ma mi lasciava un messaggio chiaro di scelte da compiere, di occasioni da sfruttare, di futuro da prendermi.

Cinque studenti universitari del Texas, ovviamente il bello, il matto, il genio, il poeta, il goffo, compiono un ultimo viaggio insieme nel deserto, quel viaggio che segna inevitabilmente il passaggio da una fase all’altra della vita, perché dopo, subito dopo, stanno per arrivare la laurea, il matrimonio, le responsabilità e la partenza militare per il Vietnam.

Tra le chicche del film, scanzonato e allo stesso modo malinconico, la scena della bottiglia di Dom Perignon nascosta nel deserto sul Rio Grande e il successivo brindisi alla libertà e alla giovinezza con davanti un panorama puro, bello e sconfinato, la notte degli amici trascorsa sul set de “Il Gigante”, i passaggi con la grande auto nei drive in o in mezzo ai cactus, il volo col paracadute e appunto quella festa finale che mi commuove ogni volta che la rivedo. Per il suo ultimo ballo, per quel fandango maledettamente nostalgico.

Il film americano che racconta meglio di ogni altro una storia e una fuga di amicizia al femminile è sicuramente “Thelma & Louise” di Ridley Scott, del 1991. Sinceramente: può esistere un finale più commovente? Più sconvolgente? Uno che lascia così il Segno?

una fuga di amicizia al femminile è sicuramente “Thelma & Louise” di Ridley Scott

Oppure: vi ricordate forse un legame ugualmente intenso tra l’immenso paesaggio della Monument Valley, una macchina che sfreccia veloce e una musica che accompagna quasi liricamente un gesto così estremo di coraggio, una scelta così ribelle di vita?

Della vicenda impersonata dalle eccellenti Susan Sarandon e Geena Davis, oltre che da Harvey Keytel, Brad Pitt e Michael Madsen che ben rappresentano tre prototipi di uomo, mi sono rimasti dentro in modo impressionante alcuni dettagli del paesaggio americano, che spazia dall’Arkansas al New Mexico, dallo Utah col suo Arches Park al Colorado che col suo fiume scava le alte rocce rosse, dal Grand Canyon al simbolico precipizio finale: quel vento, quella polvere, quei silos, quei tramonti, quei motel e quei locali country western (sia quello del tentato stupro che quello dell’incontro con Brad Pitt sono nei pressi di L.A), quelle lunghe linee d’asfalto, quegli eterni picchi e guglie di terra bruna.

“Thelma & Louise” ha fatto epoca per l’irriducibile voglia di amicizia, indipendenza e libertà delle due donne che piuttosto che tornare indietro, farsi di nuovo sottomettere, umiliare, imprigionare, preferiscono il salto più estremo e idealista in un canyon dello Utah. Libere da uomini, dolori e leggi. Libere per sempre.

Senz’altro meno riuscita la trasposizione in film del romanzo manifesto della Beat generation, l’”On the Road” di Jack Kerouac che racconta un viaggio e una vita al ritmo della musica jazz e alla ricerca dei confini della propria libertà negli Usa degli anni ’40. Sesso, avventure, droghe leggere, strada, un viaggio stravagante, senza soldi e senza meta, tutto il repertorio insomma è presente, ma più che alle scene sullo schermo la mente torna alle pagine memorabili che descrivono la fraterna amicizia, la purezza e la follia di Dean Moriarty e Sal Paradise.

On the Road” di Jack Kerouac che racconta un viaggio e una vita al ritmo della musica jazz

E’ la magia della lunga strada, la Route 66, la “Mother Road”, quella che era una strada-villaggio, coi suoi miti, i suoi motori, i suoi protagonisti di provincia, i motel dove buttarsi qualche ora su un materasso, le officine dove riparare un catorcio o fare benzina, i santuari delle bistecche o delle torte di mele servite da indimenticabili cameriere, i km senza niente, anzi con qualcosa di ben definito, i camion lunghissimi, i pali del telegrafo, la polvere sui jeans, le ultime ghost town, gli incontri casuali con gli altri e col mondo, tutto quello che diventava l’insostituibile e necessario palcoscenico dell’umanità.

La strada ritratta fedelmente e minuziosamente nel delizioso cartoon della Pixar “Cars”, anche.

La strada ritratta fedelmente e minuziosamente nel delizioso cartoon della Pixar “Cars”, anche

Usa West, piccola galleria cinematografica (1):

mix con James Dean

il trailer e il viaggio verso “Zabriskie Point”

“Fandango”, la sigla iniziale, il brindisi nel deserto e l’ultimo ballo

“Thelma & Louise”, il trailer e Amiche per sempre

“On the Road”, trailer

“Cars”, Route 66 ed Escape from Radiator Springs

(continua…)

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1 Commento

  • Ilaria
    7 Gennaio 2023 at 6:07 pm

    Sempre interessanti i tuoi racconti! E utili per il prossimo viaggio! Vado a preparare le valigie!

    Reply

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