Restare
Restare è una dimensione spesso difficile e coraggiosa nel cinema che racconta il west americano: restare in un luogo piccolo e sperduto, sentire di appartenere a un luogo, amarlo e difenderlo contro ogni evidenza, perché permette di incontrare gli altri o di ritrovare se stessi; restare perché in fondo ne vale la pena, perché il posto del cuore non tradisce mai; restare per scelta, dove piace il sole, il verde, il vino, il mare o anche la polvere del deserto.
“Bagdad Cafè” del 1987 è un film insieme molto e poco americano.

Molto americano per le scene, perché è interamente girato nel deserto del Mojave, in California, un vero luogo per sognatori, un posto di frontiera. Molto americano perché descrive benissimo pezzi e volti della provincia profonda.
Poco americano perché gli ingredienti ben miscelati sono: nessun eroe, nessuna ricchezza, nessuna bellezza, nessuna enfasi, nessun successo ma la ricerca minuziosa di uno spazio di autorealizzazione, quasi a sorpresa, da parte di una viaggiatrice tedesca grassa e poetica che sta semplicemente desiderando un posto per rinascere e per riavere un po’ di fiducia nell’avvenire.
Nel mezzo di un’estate bollente dopo una lite col marito Jasmin si ritrova con le sue valigione e col suo goffo costume tirolese ad approdare in un piccolo albergo situato letteralmente in mezzo al nulla, anzi in mezzo a rocce, cactus e coyotes, in un posto ristoro piuttosto dimesso, gestito da una donna di colore, Brenda, anche lei stanca e indurita dalla vita.
Il Motel e il Caffè sono frequentati da quella che possiamo teneramente chiamare “un’umanità minore”, strana e pittoresca, un coro di camionisti che capitano lì perché vi si mangia un buon piatto e ci si rifornisce di benzina, da pittori naif e artisti di tatuaggi, campeggiatori in transito, un ragazzo che suona solo il pianoforte, tutti personaggi di casa o di passaggio, tutti con un pezzo di storia da insegnare o da raccontare. E con Jasmin che li conosce, li intrattiene con giochi di prestigio e magia e col suo sorriso bonario, creando una chimica, un’empatia con questo piccolo universo nascosto.
Una poetica quindi più minimalista, più europea direi. Un modo di dire che l’allegria, l’amicizia, il calore umano e l’affetto possono nascere e fiorire anche in un luogo dimenticato da tutti, in una tavola-calda border line. Proprio per questi motivi in questo piccolo film si ritrova più che altrove tutta la magia, la mistica e l’insegnamento della strada.
“Bagdad Cafè” ti coinvolge per i suoi silenzi, le sue atmosfere rarefatte, per la dimensione onirica (all’inizio del film la turista scegli di fermarsi in quel motel per il fascio di luce che lo inonda dal cielo) e soprattutto per quella musica e quella canzone “I’m calling you” di Jevetta Steele che ha un effetto a dir poco struggente. E che rappresenta, manco a dirlo, una chiamata. A restare.
“Paris, Texas” uscito nel 1984 per la regia di Wim Wenders, regista tedesco assoluto amante dei grandi spazi americani, è ambientato in un piccolo centro, Paris, perso nel deserto del Texas. Un luogo dove la sola idea di “restare” assomiglia a una grande scommessa.
La storia è quella scarna e malinconica del taciturno vagabondo Travis che va sulle tracce del figlio e della moglie in uno di quei buchi del mondo che possono esistere solo in America. Tra panorami desolati, case di legno fatiscenti, stazioni di servizio nel vuoto di chilometri, storie di bottiglia, cabine sordide di peep show nella periferia di Houston, strade sassose che non portano da nessuna parte, l’uomo impersonato da Harry Dean Stanton ricostruisce un rapporto col figlio e ritrova la moglie, una bellissima Nastassja Kinski, dalle quale però non vuole farsi riconoscere e di cui ferma per sempre l’immagine dietro il vetro che mette in scena il suo spogliarello. Gli basta evidentemente aver ricreato il legame tra lei e il figlio, tra lui stesso e i nodi e le colpe del suo passato e così ricomincia a vagare. Coi due pezzi del suo cuore che invece resteranno lì.

Del film ci restano in mente sicuramente anche l’abile fotografia e la colonna sonora di Ry Cooder, basata molto sulla steel guitar e su echi mariachi che sembrano far trasudare ogni goccia di sudore e ogni singolo tormento di una ricerca interiore compiuta nel deserto.
Una forma tutta americana, tutta vuota e tutta insolita di lirica.
In “Lucky” ritroviamo nel 2017 lo stesso protagonista di “Paris,Texas”, Stanton, che poco prima di morire ci lascia un personaggio grandioso, l’insegnamento di un ateo novantenne capace di compiere con serenità l’ultimo viaggio, quello spirituale. Il film è davvero un’elegia finale del vivere o meglio della vita verso la fine ed emana una poetica luce umana. Guardatelo se lo trovate su qualche piattaforma, perché davvero è un invito alla ricerca di senso nell’umanità, un invito a sfruttare ogni secondo della vita, dell’amore e della meraviglia che ci è toccata in sorte.
Il tema del restare si apprezza moltissimo anche in un film come “Balla coi Lupi”, erede della grande tradizione del cosiddetto western umanitario, quello che abbiamo avuto la fortuna di conoscere con capolavori come “Piccolo Grande Uomo” con Dustin Hoffman e “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” con Richard Harris. Nel grande affresco del 1990, prodotto, diretto e interpretato da Kevin Costner emerge infatti tutto il rispetto per le culture indiane, quelle delle grandi praterie del Nebraska, e con uno stile pittorico ed epico, si celebra l’incontro con l’altro e con la natura, coi costumi e i valori dei Sioux Lakota, col lupo che diventa suo amico “Due calzini”, con la sua compagna indiana “Alzata con pugno” e con quegli spazi da sogno dove si visse l’epopea dei bisonti.

Il messaggio finale è forte: meglio restare nella wilderness che nella società prepotente e corrotta. Per gli amanti delle location cinematografiche utile ricordare che “Balla coi Lupi” fu girato nelle regioni sconfinate del Nebraska, del South Dakota, del Wyoming e del Kansas. Ovvero nella ampia zona di frontiera del west americano.
Altri bei film americani, più romantici, più intimi, mettono in risalto la scelta e il valore del “restare”: parliamo di quelli girati tra le dolci colline e vigneti della California. Vino e sole, vino e amicizia, vino e amore, tutti bei binomi sicuramente.
Il mio preferito non è forse un capolavoro ma “Il profumo del mosto selvatico” (1995) mi è piaciuto tanto, per quanto elegiaco. Eccole le vallate vinicole della California, il sole che si posa sulle viti, sulle cantine, e anche sugli innamorati. L’aria dolce e poetica di una vita segreta, riparata, in un luogo magnifico. Un film che fa venire la voglia di prendere una macchina e perdersi tra dolci colline, bevute di vino, tramonti incredibili, poderi nel verde.
Molto bravi Keanu Reeves, Aitana Sànchez Gijòn, Giancarlo Giannini e Anthony Quinn nei rispettivi ruoli di coppia di innamorati, del padre burbero e tradizionalista e del nonno dal cuore d’oro, stupenda la fotografia della Napa Valley, dei filari, dei tramonti arancioni e viola, così la fotografia della vita contadina e delle scene della vendemmia che sfiorano aspetti sensuali e bacchici. La saga familiare e vinicola (incredibilmente magica la scena dove tutti proteggono la vigna come angeli, coi loro battiti d’ali), la festa dei sensi, la solarità della California, la radice di una vite a simbolo della vita e dell’amore che ri-nasce: bellissimo. E non sapevo che fosse il remake di un film italiano di Blasetti e Zavattini, “Quattro passi tra le nuvole”, del 1942.

Tema simile quello affrontato in “Sideways – In viaggio con Jack” (2005) ma più alla luce dell’amicizia che dell’amore. Due amici in viaggio attraverso i vigneti della California infatti ripercorrono in una sorta di addio al celibato psicanalitico la loro vita. Splendida prova dell’attore Paul Giamatti. Stavolta siamo nella contea di Santa Barbara, nella Santa Ynez Valley e il vino, il buon cibo, le avventure e i sentimenti sono ancora protagonisti, creano sollievo, rinascita, equivoci, buonumore. “Le vie del vino sono infinite” ha scritto il critico Mattia Nicoletti su questo film e sono d’accordo. Si può affidare a un buon bicchiere di vino più che una riflessione, per esempio quella sull’amore fugace o sul piacere di invecchiare con saggezza. La locandina italiana del film uscì col sottotitolo “Una commedia sulle due cose più importanti della vita”: indovinate quali.
Infine mi vengono in mente altri film che invitano a restare tra le bellezze balneari o cittadine dell’ovest: le scene di mare a San Diego in “Top Gun”, le strade eleganti di Los Angeles in “Pretty Woman”, i film carcerari come gli episodi del mitico telefilm “Starsky & Hutch” che sono ambientati ad Alcatraz (“Fuga da Alcatraz”, “The Rock”) nella meravigliosa baia di San Francisco o sulle sue strade che salgono e scendono per le pittoresche colline. “Milk” con Sean Penn, sempre ambientato a San Francisco, così come belle commedie come “Mrs. Doubtfire” con Robin Williams o “La ricerca della Felicità” di Muccino con Smith, il ciclo dell’Ispettore Callaghan con Clint Eastwood, “Bullit” con Steve Mc Queen, i film catastrofici o quelli basati su alieni e su eroi dei fumetti (penso a “Pacific Rim”, “San Andreas”, “L’inferno di cristallo” o a “Godzilla”, “Venom”, “Hulk”, “Ant Man”), fino a “Basic Istinct” con Michael Douglas e Sharon Stone, o a “The Fan” che entra nel mito degli stadi con Robert De Niro… O alle migliori inquadrature del Golden Gate ne “La donna che visse due volte” di Hitchcock. Tutti girati a Frisco.

Scappare
Quanti bei film americani abbiamo anche visto sul versante opposto del restare, ovvero sul fuggire, sullo scappare! L’altro lato della luna, più scuro, difficile, affascinante, spesso pericoloso e tenebroso ma forse per questo capace di esercitare un richiamo assoluto.
“Into the wild” del 2007 di Sean Penn è forse il migliore di tutti e per questo gli abbiamo dedicato un pezzo a parte (vedi “Il grillo viaggiante” sempre in questa sezione del topic “Cultura da viaggio”).
Il film-documentario è il racconto incredibile di un ragazzo impersonato dall’attore Emile Hirsch, che sceglie le gelide solitudini del Denali Park in Alaska rispetto alla tiepida tranquillità e ipocrisia della vita borghese. Epica la colonna sonora di Eddie Vedder, strabiliante la fotografia, emozionante a dir poco la rappresentazione della natura del grande nord americano.
Resta il dolore finale senz’altro, perché qui la fuga diventa un modo perdente di rapportarsi coi grandi spazi e con l’infinito.
In “Wild” del 2014 a essere in fuga è una donna, che perde la madre, perde il marito e parte alla ricerca di sè, sullo splendido sentiero delle Creste del Pacifico, lungo 1600 km!
Tra pericoli, nostalgie e la nuova scoperta del suo mondo interiore. Molto sentita e riuscita l’interpretazione di Reese Whiterspoon.

“I segreti di Wind River” uscito nel 2017, non lo definirei esattamente un film di viaggio, ma voglio citarlo lo stesso perché sicuramente rappresenta molto bene il fascino delle terre estreme e gelate del Wyoming e anche perché è sicuramente un viaggio antropologico nella vita di frontiera, un thriller che ti scava dentro per le differenze tra bianchi violenti e nativi sfruttati. E che parla di un drammatico tentativo di fuga da questa violenza.
Altro film umanista girato nel grande e freddo Nord è “Senza lasciare traccia” del 2018 dove i protagonisti si riparano tra i fitti boschi dell’Oregon, permettendoci una bella immersione in quel paesaggio maestoso oltre che una riflessione nei rapporti tra l’individuo e lo stato, la società, la tecnologia e la natura.
Quando si scappa verso la maledetta e inebriante e luccicante Las Vegas il copione invece è quasi scontato: in “Paura e delirio a Las Vegas”, che non è niente di speciale secondo me, fuoriesce comunque un ritratto fedele degli eccessi psichedelici provocati da una Vegas volutamente rappresentata in maniera quasi grottesca e distorta. Anche nella commedia “Una notte da leoni” si vedono sequenze di luci, deserto, vizi, droghe, spogliarelliste, casinò, albergoni di lusso (il Bellagio, il Cesar’s e il Paris). Una fuga nelle esagerazioni dunque, più che un cammino di formazione. Toni più lievi in “Svalvolati on the road” che ha come unico merito probabilmente quello di ricordare in modo più buffo il mito dei chopper di Easy Rider. Stesso filone per “Scappo dalla città (la vita, l’amore e le vacche)” che diventa il pretesto per un’immersione nelle grandi praterie, nella vera pancia di questo paese.

Da ricordare anche “Little Miss Sunshine”, piccolo gioiello girato on the road, verso il sud degli Stati Uniti, per la partecipazione a un improbabile concorso di bellezza di una bimba dolce e occhialuta che è più che altro l’occasione del viaggio e della rappresentazione di un tenero quadro familiare. E “U Turn” girato nei deserti dell’Arizona, con un giovane Sean Penn ladruncolo in fuga che incontra una sensuale Jennifer Lopez tra motel, radiatori, sole bollente e serpenti a sonagli.
I film di fuga diventano bizzarri e stravaganti quando di mezzo ci sono registi come David Lynch e Quentin Tarantino che con “Cuore selvaggio” del 1990 e “Pulp Fiction” del 1994 ci lasciano il racconto di un’umanità bizzarra, di killer e prostitute, spacciatori e ladri, pazzi e visionari, violenze e scommesse, tutto in salsa onirica, grottesca e pulp appunto, quasi da flusso (scombinato) di coscienza.
Sono comunque i film che hanno fatto conoscere al grande pubblico attori come Nicholas Cage, Laura Dern, Uma Thurman o un insolito John Travolta, sicuramente diverso dal ballerino di “Grease” e “Saturday Night Fever”, dove la fuga era più che altro quella dalla piatta normalità, attraverso la danza, vista come l’inno al movimento e alla gioventù.

La strada fa infine paura quando diventa fuga da qualcosa.
“Duel” e “Radio Killer” raccontano dei pericoli della strada, delle lunghe notti in viaggio negli spazi deserti, quando sotto forma di minacce quasi invisibili il male si presenta. Oppure diventa la fuga nel viaggio musicale e alternativo di episodi come “The Doors” di Oliver Stone con Val Kilmer o “Almoust Famous” con Kate Hudson. Specie il primo, uscito nel 1991, celebra ancora una volta la fuga personale, artistica e psichedelica di un grande e fragile carattere, quello dello “sciamano” Jim Morrison, rappresentato a dire il vero di più nei suoi lati torbidi, isterici e viziosi, più nei suoi riti pagani che nei panni del genio musicale. Tra episodi di sesso, droga e rock’n’roll sullo sfondo tanta California, da Los Angeles a Hollywood, da San Francisco a Santa Monica, fino al deserto di Mojave, lo stesso di “Bagdad Cafe”: i luoghi giusti per “Light my Fire” e “The End”.

Esattamente a metà strada tra la scelta di restare e scappare c’è il surreale racconto anticonformista di “Captain Fantastic” con Viggo Mortensen, girato nella natura del New Mexico, e ovviamente la favolistica dimensione di “La La Land”, oggetto di un altro pezzo apparso su “Il grillo viaggiante”, nel topic “Cultura da viaggio”: City of Stars, la città delle stelle, il luogo dei sogni. Che in America evidentemente non finiscono mai.
Usa West, piccola galleria cinematografica (2):
“Bagdad Cafe”, scena iniziale
https://youtu.be/CO7vTfkCbqo il trailer e le splendide musiche di Ry Cooder, la title track e la canciòn mixteca di “Paris, Texas”, per respirare tutte le atmosfere del west americano
il trailer di “Balla coi Lupi”
il trailer e la scena della vendemma di “Il profumo del mosto selvatico”
l’elegia del pinot nero in “Sideways”
https://www.youtube.com/watch?v=0FRoqUdwjDM
il trailer, il monologo sulla libertà e la colonna sonora da brividi di “Into the wild”
il trailer di “Wild”
e ancora
https://youtu.be/nG2DqpcHRoA Nicholas Cage canta Love me Tender il “Cuore selvaggio”
https://youtu.be/7Nr1OrcWcT4 – https://youtu.be/FTRzhfcfAKw la scena nel deserto in “The Doors” e Val Kilmer che interpreta “Light my fire”
https://youtu.be/zQgz1l2TQEE il trailer di “Captain Fantastic”
https://youtu.be/YbtJyxjXpMI il trailer di “La La Land”
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