La macchia bianca della Chora di Amorgos
Bisogna prendere un lento traghetto dal Pireo e compiere la rotta verso le Cicladi orientali per fare tappa ad Amorgos: si arriva così alla meta più lontana, selvaggia e incontaminata, all’isola dove si va a cercare la dimensione assoluta di due colori, il bianco e il blu. L’incontro col bianco comincia nella fantastica chora di Amorgos, il villaggio più interno e più alto dell’isola, quello che gli antichi greci usavano come struttura difensiva perché sorvegliava tutte le coste dallo sbarco dei nemici.
Ad Amorgos è rimasta forse la chora più bella e più autentica di tutto l’Egeo, una macchia bianca che domina da una collina il paesaggio circostante: bianche e accecanti le case, bianchi i muri dei vicoli e gli scalini coi bordi di calce, così come i panni e le lenzuola stese al sole; bianchi i resti dei mulini, bianche le facciate delle chiese bizantine, così bianche perché si racconta da queste parti che ogni famiglia ne ha una e la cura e la dipinge per sempre, una generazione dopo l’altra.

Il ricordo di una musica
E poi mi ricordo di una musica, di un violino e di un pianoforte mixati a creare melodie insieme evocative e moderne, una musica struggente che veniva dalla piazza centrale della chora e sfruttando l’eco delle mura, il dedalo delle stradine e il soffio del vento si infilava sotto l’ombra dei pochi alberi, tra i tavoli delle taverne, ad accompagnare le corse dei bambini, le partite a carte dei vecchi, la crescita degli ortaggi negli orti. Una colonna sonora che poteva nascere solo in quel luogo, un sirtaki più dolce, che entrava nella pelle piano piano, letteralmente. Che rendeva le ore calde delle liete e lunghe pause, che ispirava vita riparata e sacralità. Che ti faceva compagnia davanti a uno yogurt, a una feta, a una melanzana, a un polpo, a un bicchiere di ouzo o retsina. Che continuava anche quando gli abitanti della chora riposavano sotto le pergole accanto ai gatti o dentro le stanze bianche adornate di bouganvilles e gerani. Che sembrava muovere le pale rotte dei mulini abbandonati sopra il villaggio, disposti in carismatica fila indiana. Che arrivava nel cuore del Kastro veneziano, lo sguardo più alto sul paese bianco come il latte.

Il bianco spirituale del monastero
Ancora più evidente e assoluto è il bianco del monastero di Chozoviotissa, aggrappato a una roccia scoscesa come quella delle Meteore, in un paesaggio di impressionante bellezza.
Al cuore spirituale delle Cicladi si arriva a piedi o col mulo, gli ultimi dei 300 gradini sembrano finire in cielo in una sorta di cammino di ascesi o di perdono e lassù si conquista una sensazione unica di pace, di silenzio, ci si sente vicini a dio o a cosa altro si voglia credere.
Quel monastero ti resta dentro, per anni e anni ripensi alla sua bianca forma che rende plastici concetti astratti come la purezza, la preghiera, la semplicità. Capisci in un attimo che puoi vivere solo con le cose essenziali. Ripensi al fatto che non era il classico monastero da cartolina, con la cupoletta azzurra, la croce che si staglia sul tramonto, la forma tonda, l’accesso facile, ma un luogo “altro”, veramente.

Incontri sempre un Pope ortodosso (se ne alternano una dozzina), un solitario guardiano tra la montagna e il profondo blu del mare, che restaura le icone, accende l’incenso, intona i salmi, accoglie i viaggiatori, ti offre un raki (liquore di cannella, miele e erbe) e un dolcetto, suona le campane oppure se ne sta in disparte nella sua cella o su uno scoglio a meditare.
Fermarsi qua poche ore è già un’esperienza, una volta tanto non serve rincorrere il tempo ma respirare con lentezza, inondarsi di luce, da qualche finestra che si spalanca sul mare increspato dal meltemi. A Chozoviotissa non arriva un rumore, si avvicina solo qualche uccello, lontane restano le barche e la mistica costruzione bianca, dedicata alla Vergine protettrice dei pescatori, sfida dal XII secolo ogni vento, ogni stagione, ogni solleone, ogni burrasca.
L’escursione è meglio farla nelle prime o ultime ore del giorno, vestiti con decenza, per rispetto a quello che è un capolavoro della fede, della natura e delle mani.


Agia Anna, un puntino bianco nel grande blu
E dopo aver visto il luogo più sacro di Amorgos poco più in basso ci si innamora della minuscola cappella bianca di Agia Anna che sembra la sua sorella più piccola, più graziosa, meno severa. Se devo immaginare un posto, un’isola, dove capire il senso delle cose, del mare, della religione e di quello che viene dopo credo che i passi tra Chozoviotissa e Agia Anna siano il terreno di prova ideale per tutto questo perché davvero il paesaggio è nudo e richiama l’infinito. Causa sommovimenti dell’anima. Ti fa venire la voglia di abbandonare tutto. Ti rende simile a un Pope, con la sua stessa pazienza, il suo sguardo antico.
La chiesetta è in faccia al mare, sembra incastonata nel mare: una baia trasparente come poche altre al mondo, un invito al tuffo nelle immensità del blu.

Le Grand Bleu di Amorgos
L’altro colore assoluto di Amorgos è questo blu cobalto, qui cercato, voluto, ritratto, filmato da Luc Besson, regista dell’onirico “Le Grand Bleu” (1988), che ha fatto diventare Amorgos un luogo di culto per i turisti francesi, anticipando di qualche anno il fenomeno tutto italiano della Kastellorizo di Gabriele Salvatores, l’isoletta del Dodecanneso protagonista di “Mediterraneo”.
Il grande blu alla fine delle Cicladi ha attratto generazioni di francesi incantati da quei paesaggi resi immortali dalla colonna sonora di Eric Sierra, ma tanti fortunati italiani lo hanno comunque raggiunto o ci possono ancora andare per scoprire di persona quanto il mare in questa isola sia un elemento profondo e misterioso (in alcuni punti il fondale è di 700 metri!!), capace di riflettere in modo unico anche le stelle.
Due uomini, due amici, due rivali, due subacquei
Specie sotto il monastero e la chiesetta di Agia Ana il mare di Amorgos è una voragine blu pazzesca, uno spazio emotivo da esplorare e proprio qui nel ricordo cinematografico crescono, nuotano, si immergono e si sfidano due campioni assoluti dell’apnea subacquea, due amici-rivali, quelli che andavano più giù di tutti, fino a toccare gli abissi: Enzo Molinari (chiaramente ispirato al sub siciliano Enzo Majorca) e Jaques Mayol, entrambi attratti dalla azzurra ossessione ma ritratti con temperamenti molto diversi. Quanto esibizionista, rozzo, viziato e materiale il primo, impersonato da Jean Reno, quanto sensibile e ieratico, silenzioso, quasi mitizzato e fuso con l’elemento dell’acqua il secondo, il personaggio di Jean Marc Barre (“Non è di questo mondo” dice di lui Molinari nel film).
Il film racconta le loro vite una vita dopo, dopo la fanciullezza comune vissuta nell’ancestrale isola greca, dopo la morte per annegamento del papà di Mayol, dopo le sue nuotate simbiotiche coi delfini al chiaro di luna, dopo amori mai capiti forse perché troppo terrestri e non marini, dopo le gare e le immersioni solitarie negli altri mari del mondo. Finchè l’esuberante italiano ritorna ad Amorgos per chiudere i conti col passato, cerca l’amico di un tempo e si lascia andare nei flutti del blu nell’ultima sfida, nell’ultima ricerca di un record, recuperando una dimensione sacra e umana fino a quel momento per lui sconosciuta.

Il mare come dimora ideale
Forse proprio per le differenti sfumature psicologiche e per questo racconto dei fatti e il non saper accettare la “sua” morte scenica, Majorca per 14 lunghi anni bloccò l’uscita del film in Italia ma poi il suicidio nella vita reale di Mayol lo rese più fragile e meno permaloso e accettò la storia che lo aveva legato al suo grande antagonista. In fondo la loro sfida era più contro la natura e contro sé stessi che avevano scelto il mare come dimora ideale.
In quest’isola il mare richiama spesso la loro storia e capita anche di vedere i delfini, protagonisti forse della scena più bella del film.

Una volta nella vita bisogna arrivare qui
Tra il bianco e blu Amorgos permette tanti altri cammini di scoperta, attraversando sentieri aridi e ventosi, muretti a secco, cespugli di origano, incontrando capre e porticcioli, paesi nudi sulla roccia: ovunque si coglie la sensazione di una drammatica bellezza quasi primordiale.
Una volta nella vita bisogna conoscere Amorgos, con fatica, con coscienza, con amore. In fondo non è difficile, basta percorrere con motorini o vecchie corriere 50 km di strada scavata nella sua verticale catena montuosa, guardare in faccia 2000 abitanti, imparare i loro balli o alzare il coperchio delle pentole nelle loro taverne, spalmarsi al sole sulle spiagge di Aegiali e di Agios Pavlos, fermarsi a guardare un relitto rimasto lì chissà da quanto tempo, perdersi nel suo grande bianco e tuffarsi nel suo grande blu.

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