Perché piace tanto Bali?
Per la sua religiosità, un misto di culti indù e animisti, una forma di credo tanto intensa quanto naturale, vissuta come una seconda pelle. Bali è l’unica isola non musulmana dell’Indonesia per le sue credenze che sono molto forti e sentite. Ogni villaggio ha almeno un tempio, ogni casa ha almeno un piccolo altare, omaggiato con petali di fiori e cesti di frutta, sotto il quale si accendono in continuazione i bastoncini di incenso. I balinesi sono gente semplice, assolutamente serena, il loro fervore mistico è placato probabilmente da una personalità e da un paesaggio tra i più dolci e spirituali che possano esistere al mondo. Ma Bali attrae anche per il suo verde, le sue risaie, i suoi vulcani imponenti, le sue spiagge, le sue onde e gli dei nella visione popolare governano tutto questo universo e per questo sono rispettati, venerati e temuti.

Bali piace per le sue scene di vita quotidiana, perché nelle campagne, nelle terrazze agricole coltivate a riso e grano sui fianchi delle colline rotonde, perché vicino al mare o tra i piccoli villaggi dell’interno si vedono spesso le donne locali sfilare in ordinata e poetica processione, portando sul capo grandi ceste di frutta tropicale, le loro offerte votive per ingraziarsi gli dei, chiedere un buon raccolto o anche semplicemente di evitare ai loro mariti e figli di essere coinvolti in qualche incidente stradale.
Non si contano le composizioni di fiori e frutta lasciati ai bordi delle strade e dei viottoli di campagna come nei templi, quasi a esorcizzare il fango, la pioggia, le curve, le buche, il fondo malmesso e la guida indisciplinata.

Il richiamo di Bali è anche il richiamo del suo imponente vulcano, il Guning, che dall’alto della sua impressionante mole di 3.000 metri sorveglia l’isola della grazia e qualche volta, come nella rovinosa eruzione del 1963, le mette una grande paura. La presenza del vulcano domina fisicamente e spiritualmente Bali, è qui il regno degli dei, o dei maghi o dei demoni, è qui che si trova il tempio principale dell’isola, il Tempio Madre, il Pura Besakih, illuminato come un dono dai raggi del sole al tramonto che si spargono sulle risaie, sulle colonne, sugli altari.
Bali piace anche per tutti gli altri templi, che spuntano nel verde, che sono scenici sulle scogliere come il Tanah Lot (ad aumentare il suo alone sacro e magico la presenza di una grotta sottomarina dall’acqua dolce in pratica in mezzo al mare!), pieni di troni e iscrizioni antiche in pietra come il Pura Kehen, abitati dalle scimmie come quello vicino al mare di Pura Luhur, come quelli intorno all’occhio magico di Bali, il Lago Batur. In un tempio pare che sia rimasto addirittura il tamburo di bronzo più grande del mondo, la cosiddetta Luna di Peseng.
Bali innamora coi suoi culti, con la sua spiritualità, con le sue regole pure: nei templi si deve entrare sempre a piedi scalzi, con un dono, una composizione di frutta, un’offerta votiva, con una fascia legata alla vita, non bisogna mai arrampicarsi o sedersi sulle sacre pietre, né calpestare le offerte di fiori o palme intrecciate, né disturbare le scimmie, né toccare la testa di nessun uomo, abitante, turista o statua, né fissare i suoi piedi perché ritenuti impuri, né utilizzare la mano sinistra per offrire o ricevere qualcosa, neppure per mangiare o bere, perché è ritenuta impura pure lei e quindi si usa sempre l’altra.
Tutta la gente di Bali è leggera e rispettosa verso la morte e crede fermamente nella rinascita: può capitare in giro per l’isola di assistere a delle solenni cremazioni, lo capisci dai falò più alti e dai contadini che per noi, per la nostra cultura, per le nostre usanze, sono stranamente sorridenti e festanti. Il defunto viene lavato e rivestito di panni bianchi per il suo ultimo viaggio, i suoi resti vengono deposti in alte torri di legno e di bambù, partono i canti, le preghiere, si sistemano le offerte e poi si accende il fuoco, che tutto riunisce alla terra, che tutto eleva in cielo, in un ciclo di nuove vite e nuove speranze.

Bali piace e stupisce una volta di più per i suoi riti ancestrali, uno su tutti: quel rito di passaggio alla vita adulta che vede i giovani limarsi i denti alla perfezione perché quando faranno il passo nell’aldilà non vogliono essere scambiati per animali feroci o diavoli della giungla!
Bali richiama tutti gli amanti dell’arte perchè vive in connubio strettissimo col mondo dell’arte.
I maestri artigiani incidono nel legno veri capolavori che rappresentano uccelli, scimmie, frutta, le donne tessono vivaci stoffe di sarong e batik, loro stesse sembrano un’apparizione artistica quando si vedono mezze nude vicino ai ruscelli, col sorriso perenne e i capelli neri raccolti in ciocche pettinate con cura come in un quadro di Gauguin… A Bali si producono raffinati gioielli d’argento e oggetti in design, si inventano i pupazzi del teatro delle ombre che su piccoli palcoscenici raccontano l’eterna lotta tra il bene e il male, a Bali si suona l’ipnotica musica gamelan a base di tamburi, gong e xilofoni, flauti e cetre a pizzico, si creano maschere caftani ricamati a mano e quadri coloratissimi e soprattutto ci sono loro, le ballerine bambine protagoniste della danza legong, così piena di grazia e leggerezza.
Bali piace per i villaggi-museo di Tenganan e Penglipuran, dove le comunità vivono secondo antichi usi e costumi, preservando le foreste di bambù e i centri storici dal traffico. Piace ancora di più per il suo villaggio iconico di Ubud, situato tra le verdi campagne e colline interne, ai bordi della Monkey Forest Road. Qui c’è un mondo a parte, pieno di gallerie d’arte naif, di scuole e spettacoli di danza, di piante enormi, di capanne e taverne coperte da tetti di bambù. Siamo nel centro sociale, religioso, artistico e culturale più importante dell’isola, la cui vera vita si esplica non nel traffico caotico di Denpasar o nelle spiagge prese d’assalto dagli australiani ubriaconi, ma in comunità serene e raccolte come questa, dove pare che si coltivi soprattutto una cosa, una dimensione, quella della felicità.

Bali piace per questo tipo di gente, di ospitalità, di mescolanza, di tolleranza (dove la trovi un’isola dove convivono pacificamente ragazze in chador e bikini?) per i suoi saggi sciamani per i sapori di una cucina esotica e favolosa, basata sul riso, sulle spezie, sulla carne di maiale e manzo, il pesce, la frutta tropicale.
La Bali di Ubud è quella che ha fondato e diffuso tra noi occidentali il cosiddetto Bali Style, un modo di vivere esotico ed estraniante, nella foresta vergine, lontano dal mare, immersi tra infinity pool e giardini di orchidee, gelsomini e frangipane, coinvolti in cooking class di nasi goreng, lezioni di yoga o anche nei cruenti spettacoli dei combattimenti tra galli, circondati da manifestazioni artistiche di ogni tipo (pare se ne organizzino fino a 60 ogni settimana!!).
Il problema è che se Ubud continua a essere così di moda altro che turismo di nicchia: rumori, motorini, bottegai e luci al neon arriveranno anche qui (sono già arrivati…) a cambiarla per sempre?
Infine Bali richiama indubbiamente giovani, viandanti e turisti di tutto il mondo per il suo mare, per i suoi lidi, quelli più romantici, cercati dai sognatori e dai surfisti, e anche quelli più scatenati dove la notte passa a base di musica lounge o tecno, ispirata o travolgente a seconda del dj set, della location, della festa organizzata sotto ogni chiaro di luna. Tra Kuta e Sanur nella costa sud va in scena tutto questo e dipende soltanto da noi cosa scegliere: il chiasso, l’alcool, le droghe leggere, le spiagge che all’alba ritrovi strapiene di lattine e bottiglie vuote, la compagnia sessuale, il silenzio, uno stato di trance, una filosofia tutta orientale che ispira quiete, mescolanza di vite, rinascita in altre vite.

Specie Kuta è cambiata molto negli ultimi cinquant’anni: è passata dai bungalow spartani in legno ai resort di lusso, dai chioschi balinesi ai disco bar invadenti, dalle zuppette indonesiane ai super frullati e ai super panini, dai primi surfisti a un “traffico balneare e acquatico” che non si trova neppure alla Bondi Beach di Sidney o alle Hawaii. Gli amanti del surf originario per non dolersi di questo scempio e di questo bazar delle mode, delle bevute e dello sport si sono ormai spostati a Bukit o a Ulu Watu o a Balangan che presentano dei break point tra i più affascinanti e pericolosi del mondo.
Bali coi suoi tanti volti è comunque lì che ci aspetta, coi suoi miti ancestrali e coi suoi dei del mare e dei vulcani, con le onde lunghissime e i tramonti infuocati, le barchette di legno, le risaie che si irrigano grazie alle acque della dea dei laghi, i bazar brulicanti di merci e affollati di turisti, il profumo delle bouganvilles e delle ortensie, i gas di scarico dei motorini che ti investono ovunque, i 20.000 templi misteriosi della giungla e gli aquiloni giganti che volano nel cielo di Seminyak.


Bali è ancora motivo di quello che molti in occidente chiamano “il grande viaggio”.
Di quelli che parti per non sapere come torni.
Con la speranza che il fortissimo sviluppo economico e turistico dell’isola non inquini troppo la sua antica armonia.


Bali ti chiama per il suo capodanno lunare, il Nyepi Day, per farti godere una volta tanto il suo silenzio obbligatorio, assoluto e meditativo. Per farti capire fino in fondo l’essenza di un induismo molto particolare che vede nell’equilibrio dell’universo e delle varie anime la fonte della serenità e della felicità. O per quella voglia di finire i giorni a ballare a piedi nudi in riva al mare, per ritrovarsi, per annullarsi, nella grande corrente della vita.

Contributi artistici da Bali
Ecco degli esempi di musica gamelan, danza legong, piano, tribal house e trance music balinese: dagli stili più orientali a un Cafe del Mar in salsa indonesiana:
e concludiamo l’articolo con la bella canzone di Eddie Vedder dei Pearl Jam che con “Better days” accompagna la ricerca sensuale e spirituale di Julia Roberts tra Roma, India e Bali nel film “Mangia, prega, ama”, tratto dal romanzo dell’americana Elizabeth Gilbert, che insegna soprattutto la morale della fisica dell’anima:
Ecco il trailer italiano:


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