Breve storia della Guiness
Un giorno del 1759 quando aveva 34 anni il Sig. Arthur Guiness passeggiava lungo il fiume Liffey e decise di comprare un appezzamento da mezzo ettaro dove sorgeva il cupo palazzo di un casello daziario, all’altezza della St. James’s Gate. Decise di impiantare lì una fabbrica di birra, con l’idea di far fruttare un piccolo capitale che aveva tra le mani e dosò col suo Mastro Birraio in modo diverso i quattro ingredienti base della birra inglese Porter (acqua, orzo, luppolo e lievito), valorizzando il malto prodotto dall’orzo (destinandone una certa parte alla torrefazione), accentuando il gusto amaro del luppolo e inventando col lievito una piccola schiuma bianca e cremosa capace di resistere a lungo nel bicchiere: era nata così la mitica Guiness, la Stout, la birra scura, destinata a dominare per decenni la scena dell’economia irlandese.
Il suo marchio, la millenaria arpa celtica, è da allora ancora più conosciuto in tutto il mondo.

“Sloncia” (Salute! in lingua gaelica) in tutti i fumosi e allegri pub dell’isola, coi violini, le chitarre e le canzoni in sottofondo.
La fabbrica dublinese oggi occupa 26 ettari e nel mondo ogni giorno si consumano otto milioni di boccali frutto dei 15 milioni di kg di orzo e malto tostati ogni anno… Cifre da… Guiness appunto!
L’ampliamento del brand
Gli eredi di Guiness hanno saputo allargare moltissimo i loro interessi: si sono occupati anche di politica, cultura, editoria, turismo, allevamento, produzione farmaceutica, opere filantropiche e del restauro della Cattedrale di San Patrizio fino al Libro del Guiness dei Primati, altra storica invenzione. Niente male: molto di più della “sublime” birra decantata da Joyce.
Bella questa descrizione della Guiness ad opera del giornalista di “Meridiani” Offeddu: “Fosca e insieme brillante, è la birra nera d’Irlanda. Amara e luminosa, cupa ma anche traboccante di allegria. Generosa e crudele a seconda di come la si prende: insieme ammalia e schianta, seduce e addormenta. E soprattutto chiede rispetto”. Per i dubliners la loro birra ricca di ferro è anche salutare e un paio di pinte al giorno sono consigliabili addirittura per le donne incinte e i malati!!

I Pub
Un universo a parte sono i circa 1.000 pub, le PUBlic house, le seconda case dei dubliners, di tutti i tipi, in tutti i quartieri, con tutte le birre e le freccette e le ballate a volte nostalgiche che si lamentano del “duro cemento e delle nuove gabbie di vetro”, ovvero del nuovo volto della città moderna e industriale che prende il posto dei vicoli con certe atmosfere, con le tendine di pizzo alle finestre, i lucernari, i lampioni in ghisa. Nei pub la gente si rilassa e si racconta, legge il giornale o gusta una Guiness, segue appassionatamente le partite di rugby o l’hurling come una religione e in più suona e balla, balla e suona. Con cori spontanei che partono a squarciagola.
I pub a Dublino li chiamano in modo familiare, “your regular”, “your local”.
Sono per eccellenza degli ambienti democratici e aperti a tutti dove si mischiano e si confondono insieme gli studenti del Trinity College e i muscolosi operai della working class, gli uomini d’affari più morigerati e i tifosi più scatenati. Si brinda insieme, ci si ritrova al bancone con lo sconosciuto che paga un giro a tutti, si sbrana una salsiccia arrosto o si degusta un trancio di salmone, si guarda la tipa con le lentiggini, si ammira il ragazzo con la chitarra, si fa amicizia coi vecchietti, con le pinte, con i darts. Si fa amicizia addirittura al pisciatoio del bagno! Ed è impressionante la calca per ordinare l’ultima birra quando il padrone grida che è giunto “il closing time”!

Alcuni locali messi in difficoltà dall’ultima crisi economica per non chiudere hanno provato ad ampliare l’offerta in modo originale e a dire il vero un po’ strambo, allargando la formula con giochi, quiz, talent show, karaoke, cibi gourmet e addirittura vini e champagne ma è chiaro che la vera essenza dell’irish pub è un’altra. Durante il viaggio penso che la scopriremo questa essenza, nelle pianure, sulle scogliere, nei paesini sperduti nei fiordi. Troveremo i pub coi tetti di paglia, con gli amici riuniti, coi concerti spontanei. In un libro che non ricordo quale, sennò per correttezza lo citerei, si narra che i veri pub sono quelli nelle brughiere del paese: dove i padroni spesso fanno da tassisti improvvisati per i clienti che non si reggono in piedi dalle bevute per tornare a casa!
Il circuito storico
A seguire solo un piccolo tentativo di elencare e ricordare i pub più storici di Dublino, oltre il Temple Bar situato nella piazzetta centrale del quartiere, con le sue mura rossa sempre abbellite da vasi di fiori: O’Donoghue’s al 15 di Merrion Tow coi suoi moderni bardi e le note di musica celtica; Brazen Head in Bridge Street per la miglior pinta di Guiness; Davy Byrne Pub, amato da Beckett e da tanti altri scrittori e artisti; The Long Hall al 51 di South Great George’s Street che i dublinesi pensano ne esista uno uguale anche in paradiso; Stag’s Head all’1 di Dame Court, ottimo anche per gli spuntini. Band musicali allo Sugar Club di Lower Leeson Street.
Il culto e il giorno di Joyce
Volendo a Dublino c’è anche il Museo di Joyce che la celebrò nel suo Ulysses con l’interminabile racconto di una sola giornata nella vita del suo Leopold Bloom, il 16 giugno del 1904 (il giorno-archetipo di ogni epifania, un mare di pensieri e parole, pieno di eventi e stati d’animo, guarda caso quello in cui Joyce conobbe la moglie Nora). In questa interminabile giornata lunga ben 700 pagine (!!!) il protagonista gironzola per le strade di Dublino, incontra gente, va a un funerale, entra in un bordello, beve litri di birra nei pub, guarda pensoso il fiume Liffey, ascolta musica, cammina sotto la pioggia, discute di arte e soprattutto guarda le cose e dentro di sé con altri occhi, con leggerezza, naturalezza e flusso di coscienza.
“Se Dublino dovesse sparire dalla faccia della terra, si potrebbe ricostruirla basandosi sul mio libro”. Ancora oggi questa giornata si celebra come una festività laica, con letture pubbliche, bevute e concerti nei luoghi amati dallo scrittore. Dublino sta a Joyce come Praga a Kafka o Lisbona a Pessoa, nessuno ha saputo descriverla come lui, con altrettanta partecipazione, sentimento e verità.
Secondo il saggista Pasanisi “Il 16 giugno è il giorno di Ulisse, dell’”Ulysses”, l’opera chiave della modernità, come Guernica di Picasso… A Joyce interessava il vero, il sangue, la carne, la città, gli odori, il corpo, la vita ed espresse il suo mondo interiore inondando i libri di parole, come il magma in un vulcano attivo… Era un artista, a tratti un clown, spesso un bevitore, sempre un innovatore e uno spirito libero ed esplosivo rivolto al futuro… In fondo la maggior scoperta di Joyce nell’”Ulysses” fu aver capito che la vita dopotutto è fatta di cose triviali. Il trucco glorioso che Joyce mise in pratica fu di prendere le cose assolutamente quotidiane per dar loro una base eroica, di portata omerica. Questo romanzo fu una perlustrazione del corpo umano attraverso i suoi organi, una guida scrupolosa di Dublino, un’indagine sulle possibilità della grammatica che sfocia nel celeberrimo monologo finale…”
“E anche se a tratti o per anni il talentuoso ed anarchico Joyce disprezzò, rinnegò e abbandono l’Irlanda se ne portò sempre dietro l’eco profonda, un richiamo ancestrale”.
La poesia tutta irlandese di Yeats
L’altro grande poeta irlandese, anche lui Premio Nobel, fu Yeats, che studiò e visse a Dublino ma amò e cantò soprattutto la contea di Mayo (siamo a nord del Connemara, non ci arriveremo col nostro viaggio) che ha tra le sue bellezze la cittadina in stile georgiano di Westport, la montagna sacra di San Patrizio e scenari marini tipo quelli di Tindari in Sicilia (lingue di sabbia bianca nel mare di Clewbay). Yeats ha davvero incantato un popolo e una nazione per i suoi versi sulla natura e sull’interiorità, fondando la cosiddetta corrente dello “spiritualismo celtico”.

Secondo il saggista Pasanisi “Yeats è nei paesaggi marini, negli uccelli che sfidano il cielo, nelle acque che rasserenano l’animo, o che incutono rispetto, nelle pietre, nelle singole pietre. Il suo essere si è mischiato con la brezza leggera e con il vento impetuoso, con le ombre che scendono dalle montagne, con l’odore del bosco, con il rumore del tuono che scuote l’aria, con i muschi, con gli insetti, con la terra. Yeats è nel volto dei suoi discendenti, quegli orgogliosi irlandesi che si incontrano a Sligo, il luogo di elezione”. Yeats fu una specie di Leopardi irlandese e oltre a scrivere grandi poesie passò anni a fare ricerche sul piccolo popolo dei boschi ovvero gli elfi, i folletti, le fate. Vagò fra parrocchie e fattorie per ascoltare i racconti degli anziani e custodire le loro tradizioni orali e tradurle in poemi e leggende.
I dispetti del folletto
Yeats raccontò anche del folletto più famoso d’Irlanda, il Leprecauno, un allegro calzolaio sempre impegnato in scherzi, canzoncine e piroette, originario della contea di Limerick e solito abitare vicino ai cimiteri di campagna o nascosto nei boschetti tra i ruderi medievali come il castello di Trim. “Io credo nel potere di creare illusioni magiche”, diceva Yeats che amava tantissimo i luoghi dove ambientò la sua opera “Crepuscolo celtico”: Rosses e Drumcliff. La Sligo Bay, lo Yeat’s Country, appunto.

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