“Mezzo Penny” per una pinta
Temple Bar è la zona dei locali più trendy di Dublino, quella dove trovi le comitive di giovani e di turisti, dove ti fermi a osservare gli artisti di strada, tra i quali i cantanti migliori che mi sia mai capitato di ascoltare in giro per l’Europa. Cala la sera, si accendono i lampioni e c’è chi intona gli U2, chi i Cranberries, chi le suggestive ballate della tradizione celtica. Ti viene in mente che queste strade hanno una consistenza, uno spirito e un humus adatto all’affermazione dei futuri Bono Vox! Temple Bar è il quartiere di questi talenti, di queste energie che si liberano, che si fa bello di notte coi suoi pub, coi suoi fumi, con le sue insegne, con le sue musiche, con le sue risate che echeggiano tra i vicoli e il selciato bagnato perché tanto dieci minuti di pioggia almeno sono sempre compresi nel prezzo!

Dal fiume Liffey ci si arriva tramite l’Ha’Penny Bridge, un piccolo ponte pedonale in ferro verniciato di bianco dove una volta si pagava il dazio di mezzo penny per il passaggio. Alle 19.30 tutti i giorni eccetto il venerdì parte un tour musicale nei pub storici, dal St. John Gogarty’s in avanti. L’unica sfida sarà reggere quei quattro cinque boccali che inevitabilmente ti finiranno in mano.
L’ambiente di Temple Bar
L’Irlanda ha la popolazione con l’età media più bassa d’Europa e la voglia di essere giovani in effetti entra nella pelle appena ci si affaccia la sera nel Temple, perché quest’area è sempre piena di note, di movida, di energia, di allegria, di birra, a ogni angolo, in ogni notte, grazie a mille eventi.
“The Commitments” ha lasciato il segno e la città negli ultimi trent’anni si è liberata della sua immagine provinciale, arretrata, un po’ misera, per conquistarsene un’altra basata sulla vitalità, la modernità, l’ambizione e il benessere.

Intorno a Temple Bar che negli anni ’80 era così malridotto con le sue taverne buie e i suoi bordelli malfamati da rischiare la demolizione è nata la Dublino nuova, hi tech, della rivoluzione informatica del 2000 e delle architetture razionaliste e in design a base di vetro, acciaio e mattoni. La Dublino cresciuta come una “Tigre celtica” (definizione dei suoi abitanti per paragonare la vertiginosa ascesa della città a quella delle metropoli orientali), piena di centri culturali, di posti dove fare musica, cinema, fotografia, coi negozi sempre più pieni di firme, coi parchi sempre più verdi, con le case sempre più care, con le strade sempre più larghe, coi ristoranti sempre più buoni e pieni di sapori etnici provenienti da tutto il mondo. Atmosfere da vivere e gustare quindi, quelle di una città cool, giovane e dei suoi abitanti che hanno imparato a viaggiare e a godersi la vita, anche col portafoglio più pieno. E’ questo il quartiere del creac, termine irlandese per indicare il divertimento. Qui c’è anche la città dei protagonisti delle moderne forme di visual art europea, favorita da due particolari e apprezzate leggi: gli artisti, come gli scrittori e i musicisti, sono esentati dal pagare le tasse sul reddito e inoltre a Dublino l’1% del costo complessivo di realizzazione degli edifici pubblici si deve spendere in opere d’arte. Come dire: un fondo per l’abbellimento urbano obbligatorio!

Più lontano, più in periferia, la capitale è meno bella e ha un volto operaio. Per esempio nel degrado, nella povertà, nella disordinata poesia degli slums settentrionali della città (dove nel 1875 morivano 850 bambini su 1.000 per malattia o per fame nel loro primo anno di vita…), ritratti magistralmente nel film musicale “The Commitments” dove Alan Parker riesce a descrivere benissimo l’anima soul & black dei dubliners, il sogno artistico di una giovane band operaia ritratta dagli inizi alla gloria alla sua repentina caduta. Colonna sonora da paura e velo squarciato sulle sacche di povertà e arretramento di un paese che ha spesso alternato fasi di boom economico a furie speculative e problemi di disoccupazione. Mio fratello, profondo conoscitore di Dublino per via di uno workcamp svolto nel quartiere operario di Ringsend, nel southside, mi ha raccontato delle facce dei monelli di queste parti, delle zazzere bionde, rosse e ribelli, dei giochi sotto la pioggia e tra i panni stesi, delle maglie del Liverpool addosso a molti di loro, forse perché la città dei Beatles è da sempre vista e sentita come una città vera, umile, ugualmente operaia. E mi ha anche confessato che oltre al cult movie sulla band dublinese la città ama molto anche un altro film, “The Snapper”, dove una scombinata e chiassosa famiglia della working class nonché l’intera comunità di Barrytown disquisisce sulla paternità di un bambino, mostrando alla fine di superare pettegolezzi e imbarazzi in nome di un’idea più grande di accoglienza e amore. Impersonata in primis dal nonno del nascituro, un monumentale Colm Meaney.
Signori, il Trinity College
E’ giunto il momento di entrare dentro il luogo sacro di Dublino, il Trinity College.

Primo obiettivo della seconda giornata in città è quindi quello di raggiungere di nuovo a piedi la famosa facciata, l’austera architettura e il cortile interno del Trinity, la più antica e famosa università irlandese fondata nel 1592 dalla regina Elisabetta I “per civilizzare l’Irlanda tramite l’erudizione e la religione protestante al fine di migliorare questo popolo barbarico e rozzo”. In realtà la furba regina pensò una raffinata strategia: fondare una valida istituzione culturale nella capitale irlandese permetteva ai giovani rampolli locali di evitare i soggiorni di studio all’estero dove correvano il rischio di essere “contaminati” in chiave antibritannica e antiprotestante dalla cultura e dalla religione cattolica.
Lo so che il paragone può essere poco calzante ma appena vedo il cortile interno del Trinity con la sua aria di studio e il grande albero mi vengono in mente due immagini: il College del film “L’Attimo fuggente” e il piazzale del convento svevo di Maulbronn dove Hermann Hesse ambienta le vicende iniziali di “Narciso e Boccadoro”.
Qui studiarono Wilde, Swift e Beckett e qui la Old Library ospita la mostra permanente “Turning Darkness into Light” che conserva migliaia di volumi tra cui il più prezioso è senz’altro il Book of Kells, un manoscritto dei vangeli riccamente miniato con pigmenti colorati provenienti da tutto il mondo allora conosciuto (parliamo del 791 e parliamo di estratti di gesso e carbone, di bacche e radici, lapislazzuli e piombo e addirittura insetti esotici), un arcobaleno dell’Europa cristiana gettato sopra l’abisso della barbarie, il più grande tesoro culturale del paese, realizzato nell’isola scozzese di Iona su una pergamena prodotta dal macello di centinaia di agnelli, da un gruppo di monaci guidati da due giovani artisti, un nordico sobrio e geometrico e un italiano o arabo pieno di temperamento e amante della fantasia, che raggiunsero la gloria parlando per immagini dello spirito cristiano, della vita e dell’amore.
Visitato ogni anno da ben 30 milioni di persone e fonte di ispirazione per Joyce, Borges, Umberto Eco, il Book of Kells è pieno di simboli, di angeli e demoni, di gatti scelti per rappresentare le divinità, di echi orientali, di tecniche miste e virtuose, e fu salvato dalle razzie vichinghe grazie a una barca a vela che raggiunse l’Irlanda, destinata a custodirlo per sempre. Le pagine del prezioso codice miniato sono girate secondo un calendario regolare per preservarle dall’usura del tempo.
La regina delle biblioteche
Salendo le scale si sale alla Long Room, il cuore della prestigiosa biblioteca, una lunga sala di 64 metri, arredata in legno, che sembra una chiesa e conserva 250.000 libri antichi e un’arpa del 1400. Tra i busti di scrittori e poeti senti l’alito della cultura irlandese, per intero. Penso con amore a chi tutti questi libri li ha trovati, catalogati, sistemati negli scaffali più alti. Penso con ammirazione ai ragazzi che nelle loro piccole stanze del College li hanno letti e studiati nei lunghi e grigi giorni di pioggia. Penso ai monaci del Book of Kells, così innamorati del loro lavoro e della loro missione. Penso a cosa sarebbe un mondo senza libri e senza cultura: nella biblioteca del Trinity diventa questo il pensiero predominante.

Il polmone verde
Dopo le atmosfere vissute da dentro in pub e biblioteche è l’ora di rimettere il naso fuori: è bello farlo in bicicletta nel gigantesco Phoenix Park, uno dei più grandi d’Europa coi suoi 800 ettari pieni di prati per il picnic, boschi, colline, laghetti (siamo già nello scenario naturalistico delle Wicklow Mountains) mucche, daini e cerbiatti, il Giardino Zoologico con più di 400 animali (famosi i leoni, pare che quello della casa cinematografica della Metro Goldwin Meyer venne scelto qui!), l’obelisco dedicato al Duca di Wellington che sconfisse Napoleone a Waterloo, la Residenza del Presidente della Repubblica, Ashton Castle e le corse dei cavalli e i giovani dubliners impegnati in partite di calcio e rugby, oppure di polo, un vero culto oltre che fenomeno folkloristico della capitale.
Dove nasce la Guiness
Per completare la nostra parziale conoscenza di Dublino a questo punto mancano solo due aspetti, uno sguardo al suo volto operario e la degustazione alla birra più famosa d’Irlanda.
Si risolvono in due visite: la salita sulla ciminiera The Chimney nel quartiere operaio di Smithfield con le distillerie di whisky (prima della birra è l’ideale!) e le sue casette che ricordano l’Inghilterra industriale del Nord ritratta in “Billy Elliot”; e l’esperienza, graditissima dai papà (mamme e figli in giro per gli acquisti a Grafton Street), alla Guiness Storehouse, la grande fabbrica-museo-stabilimento dove ci si reca per conoscere i segreti di produzione della mitica birra scura, i percorsi che affronta nelle sue esportazioni mondiali, le sue divertenti campagne pubblicitarie. La visita costa 18 Euro e finisce con la degustazione di un bel bicchiere al Gravity Bar con favolosa vista panoramica su Dublino.
Attenzione che tra una foto e l’altra, uno sbandamento alcolico e l’altro, una schiuma prelibata sulle labbra e un altro ordine alle simpatiche cameriere, può capitare che la mano di un buontempone si allunghi sul tuo boccale, esclamando poi una decina di sorridenti sorry.

Un’ultima curiosità su Dublino: fino a due generazioni fa, prima di diventare la capitale della Repubblica d’Irlanda, era vissuta come “la città degli inglesi”, per la sua atmosfera, la sua cultura, i suoi monumenti, le sue case georgiane, il tè delle 5 e così via. Succedeva che gli irlandesi di campagna arrivavano qui per vivere una grande giornata, bere in un pub, ammirare il Trinity e lo facevano tra stupore e qualche timore, per poi tornarsene in qualche lontana, verdissima e agricola contea.
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