Ritorno a Dublino
Un colpo basso, senza dubbio. Un fulmine a ciel sereno. Quel che non ti aspettavi. Una fitta al cuore. Tutto questo è un ritorno a Dublino, venti anni dopo. Alla fine del primo diario estivo scrissi: “tornerò”. Mantenni la parola. E se dopo il secondo soggiorno irlandese non fossi partito per il militare, forse sarei continuato a tornare, a ripetizione, in una città, in un quartiere e in una terra che ho adorato alla follia. E che, ora, rischia di farmi molto male. Sono dolorosi i meccanismi con cui un ricordo può insinuarsi nel tuo cuore. Può far sorridere, deludere, piangere. A volte salta fuori così, inatteso. Basta vedere qualcosa, e il meccanismo scatta. La tua mente si era solo addormentata e, piano piano, ricorda.

Ma quando troppe cose sono cambiate? Il gioco vale ancora la candela?
Non si rischia di ucciderlo, il ricordo?
E comunque devo andare, non è stata una scelta. Io che ho vissuto per un’estate nei quartieri più operai di Dublino, Ringsend e Irishtown, e che ho girato tutte le strade della verde Irlanda in pulmino o in autostop, mi devo esibire in giacca a una conferenza sul distracted driving: in sostanza quanto è pericoloso parlare al cellulare mentre si guida. E già questo tema è un segnale dei tempi cambiati…
Lo dico a duecento poliziotti della Garda, capelli chiari, sul viso ancora tracce delle lentiggini che avevano in gioventù, occhi azzurri, parlata trascinata, arrotata, quasi incomprensibile.
Venti anni fa
Chissà, forse qualcuno di quelli era di Ringsend, o di Irishtown, e lo sollevavo di peso, buttandolo su un materasso di un parco giochi. Era questo che facevo in Irlanda. Animazione per bambini. Eravamo in quindici volontari internazionali, e dovevamo tenere a bada seicento bambini di età compresa tra i quattro e i quindici anni. Bambini irlandesi. Belve di una dolcezza disarmante. Aiutavamo loro e le loro famiglie, povere, a trascorrere un’estate piacevole, con un budget limitato. Si usava la fantasia. Gare in barca e di disegno, balli in maschera, gite in treno per i sobborghi e per le spiagge, cacce al tesoro, pattinaggio sul ghiaccio, corse a perdifiato sul lungofiume, cinema, bowling, luna park dei dintorni, tour dei graffiti.

Gerry, una collega irlandese dai capelli rossi, mi dice “uh, Ringsend, posto difficile. Mai avuto problemi da quelle parti? Se sei un estraneo ti guardano un po’ male, sai?”. Non ero un estraneo, ero uno di loro, conoscevo le famiglie e mi adoravano, almeno quanto io adoravo loro. E così la mia conoscenza di Dublino era limitata al quartiere. I rari giri per la città, la sera e durante i weekend liberi dai bambini, mi avevano confermato quel che sapevo. Che non era gran che bella, offriva poco al visitatore. Ma era in compenso tutta da vivere. Perché nel momento in cui entravi in qualunque pub, ti rivolgevano la parola, e si iniziava a parlare, scherzare. O ti mettevano la chitarra in mano. E tu vai, a cantare canzoni degli U2 mentre il cantante di turno si riposava bevendo almeno una pinta di Guinness.
Dopo l’animazione toccava a selvaggi giri in autostop nell’Irlanda rurale. Il Ring of Kerry, la penisola di Dingle, le magiche isole Skellig, perse in mezzo all’Oceano Atlantico, dove solo milioni di coccinelle di mare potevano vivere e ostinati monaci costruire incredibili monasteri di pietra, dove l’oceano per gran parte dell’anno non ti permetteva di attraccare. Le Cliffs of Moher, le torbiere puzzolenti, le case bianche con i tetti di paglia, i muretti delle Isole Aaran, le rovine neolitiche, i dolmen e i menhir. La luce splendente dei fiordi del Beara, i prati luminosi sotto ogni cielo, una pioggia spietata e vigliacca che ti inzuppava in due minuti, ma neanche il tempo di prendere il k-way per ripararsi che il sole usciva di nuovo. Le strade rosse di sangue dell’Irlanda del Nord e l’incanto di Giant’s Causeway, un paradiso di prismi basaltici costruito da un gigante.

Col mio amico di sempre avevamo escogitato fantasiosi cartelli da autostoppisti: “this way”, “south”, “next village”, un comico “it could rain”, un tragico “please”. Ci caricarono trasportatori di cavalli, amici, famiglie, un uomo che consegnava latte e formaggio. Per ringraziarlo andammo in un pub, per offrirgli una pinta. Ma non ci fu verso, volle essere lui a pagare. Amici smarriti nel tempo. Ancora non c’era l’e-mail, Facebook, era facile perdersi. Vorrei rincontrare Nina la norvegese, un ragazzo di Ostia, a due passi da casa mia, ma mai più rivisto, Greg, energico scozzese ed Else, la belga silenziosa. Ma resteranno solo nei miei ricordi.
A Dublino la vita scorreva lenta e tranquilla ma la città da un anno all’altro, cambiò radicalmente. Iniziò, a differenza della campagna, a occidentalizzarsi in fretta. Scomparirono i venditori ambulanti di cassette dei concerti degli U2, arrivarono franchising di negozi di moda. Sembrava stesse diventando una piccola Londra. Seguirono quindici anni di boom economico, e tre di crisi.
Ecco, è questo che mi mette paura. Quanto sarà rimasto di quel che ricordo?
Il benvenuto della birra scura

Arrivo di notte. La Road Safety Authority mi ospita in una lussuosa suite georgiana in Pearse Street, accanto alla stazione del DART, più grande della mia casa di Roma. Troppa roba: quadri e arazzi, mobili antichi e lussuosi. Vi passo solo le poche ore della notte e la lascio in fretta.
Ho troppa voglia di entrare in un pub e di chiedere “a pint of Guinness please”, anche se gli occhi si chiudono dalla stanchezza. E di berla con tutta la calma del mondo al banco.
La Guinness qui è deliziosa, come in nessun altro posto al mondo. Quando è esportata sembra perdere carattere. Mi bastano 562 millilitri di black stuff per rimpossessarmi un po’ della vita dei pub irlandesi, ora senza fumo, anche se le luci di Temple Bar si vedono solo in lontananza.
La mattina seguente cambio alloggio e vado alla stanza che ho prenotato nel Liberties, il quartiere situato tra Christ Church e St Patrick, a due passi dal castello, dove avrò il convegno. Sono vie di casette di mattoni rossi. Piano terra e primo piano, comignoli sul tetto e porte color pastello. Mi accoglie Katie e mi accorgo che la pronuncia irlandese è un lontano ricordo. Tuttavia capisco quando dice “raitch”, invece di “right”, è come se un vecchio meccanismo si mettesse in moto nel mio cervello, ad anni di distanza.
Operazione nostalgia
Nel pomeriggio decido di affrontare la nostalgia. Ho quattro ore di esplorazione a disposizione e cammino fino allo sfinimento. Cosa che ripeterò il giorno successivo, percorrendo Dublino dalla foce del Liffey fino al carcere dove girarono “Nel nome del Padre”, all’opposta periferia.

Attraverso Temple Bar, coloratissimo e vivace. Fin troppo alla moda, ma ancora con un’anima, offre non solo Guinness ma anche deliziose birre artigianali (consiglio la O’Hara scura, fidatevi: io ho consumato il tradimento e non mi sono affatto pentito). Anche a quest’ora si esibiscono buskers.
Attraverso Connelly Bridge, più largo che lungo e intasatissimo dagli autobus a due piani rigorosamente non rossi (non siamo nel Regno Unito, proprio no) e mando un bacio ad Anna Liffey, il fiume grigio che attraversa Dublino. E’ attraversato da nuovi ponti, pedonali e non, nati col boom economico, sia in centro che in periferia.
Verso la foce, intravedo un cielo minaccioso, forme futuristiche ed alti grattacieli di vetro e cemento. Oltre il ponte, di fronte all’ufficio postale che vide l’insurrezione della Pasqua del 1916, hanno innalzato The Spire, una stele di metallo alta centoventi metri. Mi informo e leggo che rappresenta un ago, niente di glorioso dunque. Anzi, il dolore della droga, piaga che da sempre affligge Dublino e i suoi abitanti. Abituato a vedere monumenti moderni celebrativi, esaltazioni di passati eroi, fa molto pensare. Le statue di James Joyce, dall’altra parte della strada, e quelle degli insorti della Pasqua di Sangue, lungo il largo viale, osservano il grande ago con curiosità.
Percorro le rive del fiume e lì dove c’erano case basse e depositi sono spuntati come funghi centri congressi, alberghi moderni, palazzi da ricchi che sembrano concepiti da un architetto danese. Passo al muro degli U2, Windmill Lane, lì dove una volta c’erano gli studi di registrazione del mio complesso preferito, e dove i fans si fermavano a lasciare un messaggio con pennarelli, vernice, e qualunque cosa si avesse sottomano. Il posto oggi è irriconoscibile. Il muro non c’è più e la casa è stata demolita per far posto a costruzioni moderne. Alcune scritte sono sopravvissute, ma sembrano di un’epoca fa.

Dall’altra parte del fiume, cui si arriva percorrendo un ponte avveniristico che assomiglia a un’arpa, il migliore omaggio che una architettura moderna possa rendere alla verde e musicale terra d’Irlanda.
Poco dopo incontri di figure spettrali, statue di disperati in cammino. E’ il monumento alla carestia, che tra il 1845 e il 1849 ridusse di un quarto la popolazione irlandese. Camminano pieni di stracci, con visi sconvolti. Trasmettono sofferenza, si trascinano verso la morte. Pochi passi più in là un veliero ospita il museo della carestia. Penso che un paese che ricorda il suo passato e le sue ferite, senza vergogna, meriti rispetto.
Di nuovo sulla sponda sud del Liffey, devio verso l’interno, per arrivare sulle sponde del Grand Canal. Farò lo stesso giro, sotto la pioggia, due giorni dopo. Quella pioggia fina e malefica che sembra non bagnare e invece dopo pochi secondi sei fregato. Al Grand Canal la sorpresa più grande. I docks sono spariti e hanno preso il loro posto un teatro e grattacieli di vetro e cemento. Una piazza dal selciato rosso, colma di alti aghi rossi, rivolti verso il cielo, che di notte si illuminano. Le pareti di vetro dei grattacieli, dalle forme non regolari, sono piene di motivi blu e rossi e, quando non piove, nelle loro pareti a specchio si riflette il cielo di Irlanda, pieno delle nuvole più belle che io abbia mai visto. Quanta modernità…

Dirty old town, dove sei?
Poco oltre, verso la foce, anche il secondo studio degli U2 è stato demolito. Ringsend si annuncia con le due alte ciminiere in fondo al porto, con il profilo della chiesa e con una nave abbandonata, lasciata in preda degli elementi atmosferici, ad arrugginire, in secca. Sulla destra però sorgono due figure nuove. Il vecchio stadio di Lansdowne Road è stato sostituito dallo stadio Aviva, che sembra una nuvola, o un’astronave e riflette la luce. Accanto, il gasometro che innalzava il suo scheletro rosso verso il cielo è stato ricoperto di vetri ed ospita gli uffici della compagnia del gas. Questo fa un po’ male, perché era un posto che dava l’idea della decadenza del porto.
Per arrivare a Ringsend attraverso le chiuse del Grand Canal, piccole passarelle sospese, che fan da diga, e racchiudono immondizia e acque scure. Attraverso il Dooder, il secondo fiume di Dublino. Un’acqua nera e melmosa, cui fa compagnia un programma di riqualificazione delle sue rive. Anche qui qualcosa sta cambiando. I giardini lungo il fiume sono più curati e solo passato il ponte sembra di essere ancora a venti anni fa.
Arrivo a Thorncastle Street. La chiesa di St Patrick non è cambiata, c’è ancora il Fish and Chips Ferrari, gestito da un italiano, e il pub The Yacht, dove bevevo le mie pinte con i miei amici. E’ la strada dove gli organizzatori del campo estivo mettevano il container di un camion di traverso, all’inizio del Ringsend and Irishtown Summer Project, ci facevano salire, ci presentavano alle famiglie del quartiere e a seicento bambini festanti, e poi ci buttavano in loro pasto per quindici giorni.
In fondo alla strada, sulla sinistra, il Community Centre dove mangiavamo e dormivamo. Mi fa piacere vedere che sia ancora lì e che, se è cambiato, lo ha fatto in meglio. Ospita un parco giochi per bambini e la struttura sembra più solida.
Loro. Per sempre dentro di me
Non entro ma immagino al loro interno Anne, Myriam e Tony Carroll, che ad otto anni amavano danzare i ritmi di Michael Jackson; Annette McCann nove anni anni di lentiggini che parlavano solo di sport e delle discipline sportive che avrebbe voluto studiare.

E poi i “terribili” gemelli Phipps, sette anni di energia diabolica, che usavo suonare come strumenti musicali (il basso erano micidiali scariche di solletico): Liam, il biondo e Sean, rosso e lentigginoso che oggi sono alle soglie dei trenta anni e forse ho incontrato alcuni di loro per strada, sotto le mentite spoglie di colossali giocatori di rugby, e non ci siamo riconosciuti a vicenda.
Proseguo verso Pigeon House Road, dove case minuscole e colorate, quasi da hobbit, si allineano di fronte ai docks del Liffey, quasi a far da diga alle sue inondazioni. Arrivo sotto casa di Anne, e riconosco la piazzetta. Dentro c’è un uomo, capelli bianchi, spalle alla finestra, che guarda la televisione. Probabilmente è Bill, il marito, che adorava gli sporti gaelici ed era un fanatico dell’hurling, quella specie di velocissimo hockey aereo che solo i pazzi possono giocare. Con la mazza si prendono molto più spesso le gambe e le braccia dell’avversario che la pallina. Ma non suono, non voglio annegare nella nostalgia. E poi, sarà lui? E come presentarmi?
Sarà più bello salutare la prosperosa Molly Malone, rivedere gli intarsi magnifici del Book of Kells, camminare per Grafton Street ed ascoltarne i suonatori ambulanti che da sempre la affollano, passeggiare per il verde di St. Stephen Green, respirare l’atmosfera dei pub turistici, dove invariabilmente i musicisti intonano Cockles and Mussles e Whiskhey in the jar e di quelli più silenziosi dei quartieri popolari dove, la sera, le mogli giocano a domino e i mariti guardano le corse dei cavalli.
Assaggio di nuovo gli stufati e il fish and chips, tartine e zuppette di pesce, innaffiando il cibo con Guinness. Dò un’occhiata al Brazen Head, il più vecchio pub di Irlanda, percorro strade e vicoli, attirato dai trascinanti reel della musica celtica, dalle vetrine dei pub che mostrano lepricanti, gnomi e folletti, dal verde che troneggia in tutte le vetrine, in trifogli e magliette, omaggio al Sei Nazioni appena vinto e alla festa di San Patrizio appena passata. Compro a tre euro l’Ulisse di James Joyce, pensando stavolta ce la farò. Temo di aver sopravvalutato lamia conoscenza dell’inglese e che dovrò acquistarlo in italiano se vorrò infilarmi dentro tutti i suoi flussi di coscienza con un qualche criterio!
Un giorno e mezzo passa troppo in fretta, come quei sogni che svaniscono all’alba. Avrei voglia di saltare in macchina e tornare ad Ovest, di urlare Slainte con la pinta in mano e di percorrere le verdi strade di Irlanda, di rivedere le maestose scogliere protese verso l’America e il pietroso Burren, l’atmosfera di Valentia Island, le burrasche di Slea Head e le magiche isole Blasket, disabitate da anni. Ma, purtroppo, è tempo di tornare. Ho il cuore pesante e contento, perché il postino, o un passante che mi conosce, mi guarda e mi dice “hello!”
E’ questa l’Irlanda che ricordavo e che non cambierà mai.
Ma tu, vecchia sporca Dublino, che fine hai fatto?

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