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Cultura da Viaggio

Into the Wild

L’icona del Grande Nord

Lo hanno appena rimosso gli elicotteri della guardia nazionale militare dell’Alaska. Era diventato l’icona inaspettata di ogni vagabondaggio negli spazi freddi e estremi del Grande Nord. Il luogo impossibile da raggiungere per ogni spirito libero e inquieto, il monumento dei nomadi e degli avventurieri del continente americano, sistemato lontano da tutto, poco sotto la vetta del Monte Denali, nella tundra selvaggia abitata solo da castori, orsi e aquile. Quel vecchio bus bianco e verde era diventato il simbolo del viaggio into the wild e insieme la locandina del bellissimo film di Sean Penn, della indimenticabile colonna sonora del leader dei Pearl Jam Eddie Vedder, entrambi ispirati dall’omonimo libro di Jon Krakauer capace di ricostruire l’emozionante e dolente parabola di vita di un giovane alla ricerca di sé stesso.

Alaska l’icona del Grande Nord

Il Magic Bus vola via come un’aquila

Un ragazzo in fuga da tutto, da una vita comoda, da un buon titolo di studio, da una famiglia borghese, da una possibile carriera, dai successi sportivi o dalle storie d’amore: aveva eletto questo bus a sua ultima dimora e lo chiamò nei suoi diari di viaggiatore solitario Magic Bus, proprio come quei vecchi torpedoni colorati con cui gli hippies andavano in giro per il mondo alla ricerca di semplici e altre verità. Era ormai un ammasso di ferro arrugginito con dentro un materasso, un bollitore d’acqua e qualche libro, un romantico rottame che aveva solo le stelle per tetto ma probabilmente esprimeva con grande forza, prima per il giovane Christopher McCandless e poi per i suoi spesso improvvisati epigoni, tutto il senso della fuga dalla società capitalistica e dai suoi modelli di riferimento e di consumo. Era la frontiera ignota, una prova di libertà da raggiungere in mezzo ai boschi e comunque la si pensi non si può non provare una sensazione agrodolce difronte a questa simbolica rimozione: guardiamo insieme il video, sembra che il numero 142 della linea di Fairbanks, ormai abbandonato da anni a 382 km dalla capitale Anchorage, sia capace di prodursi in un ultimo magico volo, come un’aquila americana. Salutando per sempre i fiumi impetuosi dove saltano i salmoni, le conifere tra le quali appaiono le maestose corna degli alci, le nevi dove corrono i cani da slitta, le scene delle montagne che lo avevano ospitato.

Locandina del film Into the Wild
*copyright

L’utopia del richiamo della foresta

Chris dopo tanto vagare on the road negli spazi degli States, dopo aver disceso illegalmente il fiume del Grand Canyon in canoa, dopo aver percorso migliaia di km in autostop, finì nella terra di Jack London, convinto di poter vivere solo e felice, nelle foreste, sotto i ghiacciai, cacciando, scrivendo, pensando, correndo dietro ai cavalli, imitando l’ululato dei lupi. Una lettura oltre a Tolstoi che lo aveva sicuramente ispirato era “Walden ovvero vita nei boschi” di Henry Thureau, una sorta di manifesto della consapevolezza ambientalista americana, un inno alla semplicità e insieme una dichiarazione d’indipendenza da una società ricca solo nei consumi e non nella morale. Tanta utopia finì male perché Chris rimase intrappolato nel suo rifugio dal rigonfiamento stagionale delle acque del fiume, non poteva più tornare indietro e aveva finito le scorte di cibo. Lo tradì una bacca velenosa e morì tra gli stenti e la fame ma ci piace immaginarlo con un ultimo sorriso, grato a tutta quella bellezza profondamente respirata e vissuta.

Una lettura oltre a Tolstoi che lo aveva sicuramente ispirato era “Walden ovvero vita nei boschi” di Henry Thureau

Il governo dell’Alaska contro un piccolo bus sgangherato: perché?

Il problema è che dopo il mito scaturito soprattutto dal commovente film di Sean Penn che ritrae alla perfezione gli 80 km dei paesaggi dello Stampede Trail e il sogno rischioso del giovane eremita che si diede il nome di Supertramp (tramp significa vagabondo in inglese…) quel bus non era più un rifugio per minatori o cacciatori o cercatori d’oro, era piuttosto diventato un oggetto di culto, una specie di miraggio e di pericolosa favola per altri viaggiatori idealisti, forse un po’ troppo ingenui, perché in tanti arrivano dentro la più estrema tundra d’Alaska con due panini, una camicia e un paio di sandali, pensando di poter emulare le gesta del film o del romanzo, di poter sfidare il gelo, la solitudine, la fame. Come scrive l’autore di “Le otto montagne”, Paolo Cognetti, “gli alaskani non hanno mai amato né la storia di Chris né quest’umanità di suoi discepoli, è un paese di duri, con il fucile nel pick up e gli adesivi inneggianti a Trump sulle finestre di casa, la bandiera a stelle e strisce, i nativi ubriachi fuori dai negozi di liquori, gli orsi imbalsamati dal benzinaio”. Quindi una comunità del genere non vedeva nel bus un simbolo ma un pericolo che in dieci anni aveva causato alcuni morti e troppi interventi di soccorso, non ultimo quello di cinque italiani raccolti mezzi assiderati su quel sentiero nel febbraio 2020. E dietro il dispiacere di facciata – il sindaco del Denali Park ha dichiarato “…comprendiamo la presa che questo autobus ha avuto nell’immaginazione popolare…ma per la pubblica sicurezza, sappiamo che è stata la cosa giusta da fare” – c’è stato un addio ben calcolato a ogni forma di romanticismo e di ribellione.

Il capolavoro di Sean Penn

Passando al film del 2007 l’attore Emile Hirsch, lo stesso ragazzo scapigliato con la faccia da viaggio di “Venuto al Mondo”, è intenso, poetico e molto credibile nella sua interpretazione e i paesaggi incredibili sembrano una cartolina e uno spot naturale dell’avventura. Orizzonti bianchi e sconfinati, lune e albe ghiacciate, canyons e tundra, lunghe strade vuote, branchi di animali selvatici, il rumore del vento, l’incontro di Chris con pezzi di umanità artistica, marginale a cui trasmette sempre la sua purezza e la sua felicità interiore. Brani letti dai diari, tanti momenti vissuti con sé stesso, dolcezza alternata a malinconia, nella wilderness più totale. Prima di isolarsi fino alla fine, di scegliere la natura per la civiltà, di pagare per caso o per inesperienza nel più crudele dei modi quella scelta di emancipazione.

Una delle colonne sonore più intense di sempre

Ma il film senza la sua meravigliosa colonna sonora non sarebbe stato lo stesso. E’ un cd da consumare, con cui viaggiare, sognare, amare. La voce dolce e selvaggia di Eddie Vedder si esprime in canzoni assolutamente delicate e come rare altre volte le canzoni e le musiche si posano su un film come si posa la neve su un paesaggio e su uno stato d’animo. Prendendone la forma.
Come facciamo qui a non riportare certe frasi, certi video? Come facciamo a non condividere quel profondo anelito di libertà del ragazzo, quella sorta di cammino verso la conoscenza, quel suo equilibrio interiore raggiunto senza soldi né carriera nè droghe?

Dentro i testi di Eddie Vedder

Il cantante dei Pearl Jam ritrae la sua idea di fuga in Setting Forth “così sia, nessuna preoccupazione, punto di non ritorno, mettersi in viaggio nell’universo…” e in Far Behind “un mondo comincia dove finisce la strada…”.

Esprime la fiducia del protagonista nel suo ostinato cammino come in Rise “Mi solleverò, trasformando gli errori in oro” o in Long Nights “Ho questa vita, andrò in giro a crescere, chi io fossi prima non riesco a ricordarmelo.. Lunghe notti mi permettono di sentire che sto cadendo al sicuro per terra..”.
Forse Vedder però dà il massimo quando pensa con la testa di Chris e accusa la società moderna in Society “E’ un mistero per me, abbiamo un’avidità a cui abbiamo acconsentito, pensi di dover volere più di quello che ti serve, finchè non avrai tutto non sarai libero.. Società, sei una razza folle, spero che tu non ti senta sola senza di me. Società, abbi pietà di me, spero che non ti arrabbi se non sono d’accordo..”.

Oppure col pezzo finale che fa venire il magone, Guaranteed “Che tutte le destinazioni accettino quello che sono, così posso respirare.. ho una mente piena di domande.. ho la mia indignazione, ma tutti i miei pensieri sono puri, , sono vivo…considerami un satellite in orbita per sempre.. Conoscevo tutte le regole ma le regole non conoscevano me. Garantito!”.

Into the wild nella letteratura

Il romanzo-diario-reportage di Jon Krakauer, tradotto in italiano col titolo “Nelle Terre Estreme” uscì invece nel 1996 e permise a tutta la storia di avere un seguito e di creare questo mito giovanilista dell’isolamento e dell’avventura. Il libro costò al suo autore tre anni di ricerca, per trovare una profonda empatia con la storia di Supertramp, rintracciare i suoi familiari, leggere i suoi diari, rifare i suoi percorsi, sentire quello stesso vento di libertà, la libertà che nella sconfinata Alaska sentono soltanto i gufi, le balene, le aquile, i grizzly.

E’ un libro che scuote certamente, che a tratti emoziona, per le scelte sempre in bilico di questo outsider, per la natura che si fonde col suo scopritore, fino all’imperfetta osmosi finale. Le pagine corrono via seguendo tutto il percorso fisico e psicologico di Chris, il respiro del suo cuore e della sua mente. Certi brani dei diari sono illuminanti: “Desideravo acquisire la semplicità, i sentimenti puri, e le virtù della vita selvaggia, spogliarmi delle abitudini superficiali, dei pregiudizi e delle imperfezioni del mondo civilizzato: trovare nella solitudine e nella grandiosità del selvaggio ovest vedute più corrette della natura umana”. Eppure in questa ricerca Chris aveva una malinconica consapevolezza che è quella che ci accompagna a fine libro, fine film o fine disco. Into the Wild si può afferrare un po’ di polvere di stelle e un segmento di arcobaleno ma “la felicità è reale solo quando è condivisa”. Su questa nota di diario, identica a una frase del vecchio Leone Tolstoi, i genitori fecero cadere le loro lacrime quando trovarono il testamento di Chris nel vecchio bus.

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