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Metropolis

Kuala Lumpur, più smog che pirati

La tigre è ancora viva?

“Brooke! Torna indietro! Se hai il cuore, vieni a combattere. Hai cento uomini ancora! “Brooooke! Brooooke! Vieni a vedere come rinasce un popolo! Guarda la bandiera che sventola su Mompracem! Torna indietro! Ti strapperò la vita con le mie mani!”
“Gli hai già tolto molto di più della vita. A un Brooke morto si può sostituite un altro Brooke, ma ad una sconfitta come questa non si può sostituire nulla”.
“Torneremo con dieci navi, con migliaia di soldati e distruggeremo Mompracem”.
“No. Combatterò Sandokan ancora, finché avrò sangue nelle vene. Dovunque, ma non a Mompracem. Troppi morti su quell’isola. Brooke ha perso Mompracem… per sempre.”

Sandokan alla riscossa con Kabir Bedi
* Copyright

C’entra ben poco, ma erano anni che volevo scriverla. Al tempo! Dopotutto, a pensarci bene, non c’entra così poco. Sono le ultime battute di Sandokan alla riscossa e a parlare sono nell’ordine Sandokan (Kabir Bedi), Yanez (Philippe Leroy), uno sgherro di Brooke (mai saputo il nome) e James Brooke (l’immenso Adolfo Celi nelle vesti del rajah bianco).
Brooke è esistito davvero, era il rajah bianco di Sarawak. Fu una dinastia di tre rajah bianchi, che regnarono su Sarawak fino all’invasione giapponese della seconda guerra mondiale. Il primo, James per l’appunto, era un avventuriero che conquistò il titolo combattendo i pirati per il sultano del Brunei, e governò Sarawak per 27 anni, usando il pugno di ferro per limitare le scorribande dei malesi e per debellare il fenomeno dei dayaki cacciatori di teste. I sultani malesi, ereditari, esistono ancora. Nove di essi, ancora oggi, assumono a rotazione per cinque anni il titolo di “Re della Malesia”, monarchia costituzionale, costituita dalla punta meridionale della penisola indocinese, e quindi dell’intera massa continentale asiatica, e dalla porzione costiera nordoccidentale dell’isola di Kalimantan (il Borneo).

Anche Labuan esisteva, ed esiste ancora, al largo di Sarawak. E’ una specie di porto franco, un paradiso fiscale che ospita moschee e grattacieli, circondato dagli impianti di estrazione del petrolio del Brunei, fantasmi scuri in uno splendido mare turchese. Da qui veniva la perla bionda amata da Sandokan.
In quanto a Mompracem, potete consumarvi gli occhi su qualsiasi mappa moderna, ma non la troverete mai. Era presente, tuttavia, in quelle antiche carte nautiche portoghesi che Emilio Salgari, senza mai lasciare l’Italia, consultava per descrivere il suo mondo fantastico.

In quanto a Mompracem, potete consumarvi gli occhi su qualsiasi mappa moderna, ma non la troverete mai.

C’è chi dice che abbia solo cambiato nome, che si trovi a sud di Labuan e che oggi si chiami Keraman, che significa, in malese, “l’isola che scompare”, perché la sua superficie si riduce in continuazione a causa delle forti correnti.
Salgari, che tipo! Era talmente perso nella creazione del suo mondo fantastico che una volta non esitò a sfidare a un duello con la spada un giornalista che lo aveva accusato, a ragione, di inventare tutte le sue millantate avventure marinare. Vinse, lo graziò.

I pirati e le tigri di oggi

I pirati ancora navigano lungo le coste, prediligendo per i loro assalti le acque dello stretto di Malacca, che separa la Malesia continentale dall’Indonesia, punto obbligato di passaggio per i grandi cargo commerciali. Spinti non certo dalla riconquista di un’isola-regno, sono ancora temuti, nonostante la frequenza dei loro assalti si sia notevolmente ridotta negli ultimi anni. Parliamo pur sempre di parecchi abbordaggi, uno al mese almeno. Abbastanza per non stare tranquilli. Anche se i pirati molto più numerosi non sono quelli a bordo di prahos, che agitano scimitarre e vestono sarong variopinti o stracci e bandane di vario tipo, bensì la moltitudine che si occupa di falsificare i marchi di tutto il mondo.
E le tigri? Sì anche quelle ci sono ancora. Non se la passano di certo bene. Vivono nel Taman Negara, un parco nazionale situato a duecento chilometri a Nord di Kuala Lumpur, la capitale, dove si può arrivare solamente in barca. Ne sopravvivono pochi bellissimi esemplari, minacciati dalla deforestazione e dal bracconaggio, assai frequente perché numerose parti del loro possente corpo vengono usate nella medicina cinese tradizionale e si pensano siano afrodisiache.

E le tigri? Sì anche quelle ci sono ancora

In quanto ai cannibali e ai cacciatori di teste, onnipresenti nei romanzi di Salgari, ancora abitano le foreste del Borneo, chiuso periodicamente al turismo per fatti quantomeno inquietanti, e ditemi quando mai un confine tracciato dai politicanti ha impedito agli indigeni di passare. Sembra che le ultime teste mozzate risalgano alla fine degli anni novanta. E raccontano che le teste mozzate non si buttano mai, perché porta male.

Kuala Lumpur è un’altra Malesia

Poniamo fine al sogno. Niente di tutto questo. Visiterò questa parte di mondo per un’occasione speciale, ma il mio soggiorno sarà limitato a Kuala Lumpur: una settimana nella tentacolare e inquinatissima capitale malese. Ma quell’urlo, e gli aquiloni malesi che volano in alto a festeggiare la vittoria, mi sono sempre rimasti nel cuore.

Kuala Lumpur: una settimana nella tentacolare e inquinatissima capitale

Qatar Airlines vuol dire cambio a Doha, dove l’aeroporto lussuoso trionfa su una penisola desertica. Grattacieli imponenti sullo sfondo, sabbia ovunque. In Malesia mi aspetto un atterraggio in una natura lussureggiante, eppure, fino a pochi metri da terra, non si vede che una spessa coltre di fumo marrone. Solo alla fine intravedo una foresta immensa di palme da olio. Al centro della sala arrivi ecco un’immensa cupola con dentro una giungla. Due aeroporti a confronto, il deserto e la foresta e, dalle persone che li frequentano, apparentemente due diversi modi di mostrarsi musulmani.

Le origini dello smog

E’ il tassista che mi carica a Kuala Lumpur a svelarmi il perché della grande nebbia, mentre percorriamo la larga autostrada che porta in città. Come da qualche anno a questa parte gli indonesiani, non avendo firmato alcun accordo per i cambiamenti climatici e per il controllo dell’inquinamento nel sud-est asiatico, si dilettano a bruciare migliaia di chilometri di foreste nell’adiacente isola di Sumatra, appena al di là dello stretto di Malacca, per rimpiazzarle con piantagioni, economicamente molto più produttive, di palme da olio. I colpevoli sono quindi non solo i governi ma anche i singoli contadini e i ricchi possedenti terrieri a caccia di maggior profitto. Il vento che spira da sud porta i fumi degli incendi su Singapore e sulla Malesia continentale. Il risultato è che la visibilità è ridottissima, al punto che pure le altissime e modernissime torri gemelle di questo alveare asiatico scompaiono.

L’inquinamento nella capitale malese è alle stelle, le scuole chiudono, aumentano vertiginosamente i casi di asma. Haze, la chiamano. Ovvero una cortina di fumo spessissima, che costringe gli abitanti a munirsi di mascherina bianca nelle brevi escursioni nel mondo esterno. La stagione è secca, quindi la pioggia non aiuterà a far calare i livelli di inquinamento. La stanchezza del lungo viaggio mi assale e gli occhi lacrimano in continuazione. La haze è fastidiosissima, limita la visibilità, irrita gli occhi, fa tossire, impedisce di respirare. In più fa un caldo estenuante, caldo umido (immagino cosa possa essere durante la stagione monsonica), e il solo camminare, lungo strade ampie sei corsie, trafficatissime, difficilissime da attraversare e quasi prive di marciapiede, è impresa difficoltosa. Il risultato è che, dopo aver vagato per circa un chilometro, mappa in mano e Lonely Planet sottobraccio, tra alti grattacieli che non riesco a vedere, rumore e puzze varie, alzo la mano e fermo un taxi: “Chinatown, please”.

Dentro Chinatown

Paradosso abbastanza evidente avere un posto chiamato Chinatown a Kuala Lumpur. So poco di storia malese. Ci ho provato ma mi è girata presto la testa questa volta. Mi è bastato sapere delle tre dominazioni principali, la portoghese, l’olandese e l’inglese e delle botte varie che si sono dati per anni per il controllo della rotta delle spezie. Gli Inglesi portarono i Cinesi, il solito divide et impera, per impiegarli nelle miniere. Fecero affluire inoltre Indiani, Singalesi, Sikh, rispettivamente per costruire le ferrovie, per eseguire lavori di pubblica utilità e per formare un corpo di polizia. Risultato: un melting pot micidiale con i Cinesi che, negli anni Trenta, erano addirittura maggioranza.
Ho letto anche del dominio giapponese durante la seconda guerra mondiale, dell’indipendenza e di forti tensioni etniche tra Malesi e Cinesi, culminate dei massacri del 1969 che videro uccisi duecento Cinesi in tumulti di piazza. Oggi non sono maggioranza, ma Chinatown non è un ghetto. Chinatown, a Kuala Lumpur, è ovunque. E per le strade si vedono le facce scure degli indiani e i vestiti colorati delle loro donne, quelle più gialle dei cinesi e le loro donne vestite all’occidentale, e quelle ramate dei malesi, occhi come fessure, quelli che ti immagineresti sul viso dei pirati più furbi, pronti a scattare da un momento all’altro. Chinatown riassume tutto ciò. Non è terra di cinesi ma un caleidoscopio di Estremo Oriente, un grande luogo di commercio, gestito indifferentemente dalle tre etnie.

Chinatown riassume tutto ciò. Non è terra di cinesi ma un caleidoscopio di Estremo Oriente

Il mondo di Petaling

Ruota intorno a Petaling, una caotica strada pedonale piena di rumori, luci e colori che dà il suo meglio nelle ore notturne, quando il caldo è meno asfissiante e i negozi, dove è obbligatorio mercanteggiare fino alla morte, non chiudono. Se c’è qualcuno a regnare sono i nuovi pirati che vendono vestiti e scarpe dai marchi contraffatti, Rolex e Lacoste, cd e video.
Ristorantini da strada mandano effluvi attraenti ma, di giorno, è la coltre di fumo a farla da padrona, insieme alla fatica e al sudore. Mi infilo in un ristorante indiano dove la gente mangia con le mani. Comunico a gesti con un cuoco dall’adipe imbarazzante e scelgo di mangiare riso lievemente speziato, accompagnato da gamberi e calamari al pomodoro, dal condimento mortale. Mi resterà il sapore in bocca per ore. Il ristorante è in un’altra strada pedonale dedicata per lo più ai turisti, cui viene offerto dall’artigianato locale, un po’ troppo cinesizzato, al delizioso latte delle noci di cocco.
Lì accanto il Central Market, al coperto e dotato di aria condizionata, ospita venditori di batik, sarong, paccottiglia cinese, ritratti di Mao, bastoni da passeggio ornati da teste di cobra in ferro e una serie di bettole che ti invitano ad assaggiare, a bassissimo prezzo, tutte le specialità di Cina, sudest asiatico e dintorni.

Incastonati tra rare palazzine in stile inglese, colorate e dagli intonaci rovinati, e brutti palazzi, vi sono due templi a portare ulteriore colore. Il primo, dal nome impronunciabile di Sri Mahamariamman, è indiano e porta scolpiti sulla sua facciata centinaia di divinità di una religione che non capirò mai, per quanto mi sforzi. Dei dalle quattro mani che cavalcano pavoni, suonatori, volti turchesi, vestiti variopinti, monili e collane, guerrieri con archi, altri a cavallo che sventolano sciabole. Non uno sguardo truce, domina il concetto di serenità. Occhi enormi e nerissimi, baffetti all’insù e sorriso serafico, sembrano felici. E Ganesh, volto da elefante: lui sì, lo ricordo. L’interno ospita un carro d’argento che ogni anno viene trascinato per le vie della città fino a Batu Caves, a tredici chilometri di distanza.

E Ganesh, volto da elefante: lui sì, lo ricordo

Poco oltre, nel tempio taoista di Sze Ya, avvolto da nubi di incenso, è il rosso a dominare. Fa da sfondo a profili minacciosi di draghi dorati e a guerrieri-guardiani dal viso tondeggiante ma stavolta dallo sguardo cattivo. Sorvegliano statue dorate, centinaia di lanterne rosse e un mini-ristorantino, perché il tempio è luogo di culto ma anche di vita.

Al centro della confluenza fangosa

Esco dai fumi dell’incenso, rientro in quelli della città, che è veramente ostile. Arrivo alla piazza del vecchio mercato, dove troneggia un orologio, accanto a case colorate e rovinate, corrose dal tempo e dall’umidità. Passo un ponte dal quale si vede la confluenza di due fiumi limacciosi e marroni, il Klang e il Sungai. Non a caso il nome della città significa “confluenza fangosa”.
La penisola tra i due fiumi ospita la moschea più bella della città, totalmente bianca, dalle cupole a bulbo e circondata da palme. Purtroppo è chiusa per restauro. Alle sue spalle minacciosi grattacieli e un fiume di automobili che ruggiscono. A Merdeka Square la visibilità è ancora peggiore e, inoltre, la piazza è transennata. Dove una volta vi era un immenso campo da cricket, oggi c’è una distesa di cemento, palme e fontane ed è una delle passeggiate preferite degli abitanti che si riversano qui, in massa, ogni anno a festeggiare il giorno dell’indipendenza.

A Merdeka Square la visibilità è ancora peggiore

Ci tornerò una delle sere successive, per ammirare un palazzo in stile Tudor e una fiabesca costruzione che mescola gli stili moresco, vittoriano e moghul (niente panico: non mi sono acculturato tutto ad un tratto, l’ho semplicemente letto). Le luci che lo illuminano di diversi colori, nel buio della notte che qui scende presto, la lunga fila di palme, i campanili, le torri e gli archi ogivali lo rendono ancora più magico. E’ di nuovo il contrasto a colpire, vedere come, dietro a un esile edificio, si staglino grattacieli in vetro e cemento.

Camminando lungo trafficatissime strade a sei corsie, sovrastate da una monorotaia onnipresente e da tangenziali invadenti, arrivo a Little India, appena a dieci minuti di distanza da Chinatown. Le facce sono più scure, etnicamente è molto più omogenea. Le bancarelle del mercato non mi entusiasmano però più di tanto, tanti colori, ma un po’ ripetitivi, ed è difficile trovare un varco tra la folla. In più la stanchezza si fa sentire. Prendo il secondo taxi che, per un prezzo irrisorio, fende la haze e mi consegna all’aria condizionata dell’albergo. Di riposarsi non se ne parla, il fuso non mi dà tregua, in più di fronte alla mia finestra c’è una specie di festival della canzone, qualche divo della televisione che urla al microfono, appena all’entrata di un centro commerciale di dimensioni colossali. Allora scendo ed esploro i dodici piani del colosso.

E’ di nuovo il contrasto a colpire, vedere come, dietro a un esile edificio, si staglino grattacieli in vetro e cemento

Mall orientali

Kuala Lumpur è celebre per i suoi mall. Tanto più sono colorate e vive le vie di Chinatown, quanto più omologate all’immaginario occidentale queste che fiancheggiano negozi luccicanti, puliti, quasi troppo perfetti per essere veri, quasi troppo per essere nell’Asia che speravi di incontrare, la culla delle civiltà, ma sicuramente al passo con l’Asia più sviluppata di oggi. C’è una folla incredibile, fino a tarda sera. Mangio una deliziosa Tom Yam, la zuppa piccante del sud-est asiatico che tanto desideravo rigustare. Gamberoni annegati in un brodo dove il lemon-grass, la galanga e le foglie di lime, insieme a quintalate di peperoncino, la fanno da padroni. Orgoglioso, la finisco, ma sudo come dentro a un bagno turco.
Fuori dall’albergo, ignorato dagli sguardi degli uscieri, Ragno di Mare, vestito di stracci, barba piratesca, ha smesso di chiedere l’elemosina e si stende sul marciapiede a dormire.

Street Food Experience

Street Food Experience

Nei giorni successivi mi riparo dallo smog sotto i baracchini dello street food e decido che Kuala Lumpur sarà almeno una formidabile occasione per gustarmi le tapas asiatiche: assaggio un po’ di tutto, carne e gamberi al curry, grigliate, calamari fritti, noodles deliziosi con gamberetti e salsa al tamarindo, il mee goreng (noodles fritti con ogni ben di Dio), il nasi goreng, che mischia riso, spezie, carne e pesce in maniera magistrale, il rendang, curry rosso di manzo con latte di cocco, il sambal, una salsa a base di peperoncino, cipolla e pasta di gamberi, il sambal udang, curry piccante a base di gamberetti al sugo, samosa, tandoori, satay, spettacolari spiedini di pollo leggermente piccante con latte di cocco e salsa di arachidi, tortelli ripieni di pesce e spezie, una zuppa di pinne di pescecane (e ci mancava!). L’essere all’incrocio delle influenze culinarie malesi, indocinesi, indonesiane, cinesi e indiane rende la Malesia un paradiso per chi ama le spezie, la cucina agro-dolce e piccante.

Un mondo verticale

Piano piano la visibilità (parola grossa) migliora e intuiamo di vivere in un mondo verticale, circondati, nel Kuala Lumpur City Centre, da una giungla di grattacieli modernissimi. Se al livello del piano terra, fuori, ci fosse qualche semaforo che funzionasse in maniera per lo meno decente, si potrebbe pensare di essere in Giappone o negli Stati Uniti. Invece è anarchia allo stato puro e il pedone è qualcuno da investire. A volte ci si ricorda dei pedoni, vedi la costruzione di corridoi sopraelevati che collegano un grattacielo all’altro, con la notte la nebbia sono scorci quasi da “Blade Runner”.

Di sera il quartiere dove viviamo funziona a vie, è tematico. Ce ne è una dove puoi trovare solo negozi in cui mani e braccia sapienti promettono massaggi e, se vuoi, altro. I pesciolini divora-piedi sono inclusi nei trattamenti. Inutile dire che il buttadentro in genere non è certo un corpulento signore ma una gentile fanciulla in minigonna. Accanto, poco oltre, sempre che si riesca ad attraversare la strada, c’è la via che qualcuno dei miei colleghi ha definito “dei fast food”, che esibiscono di tutto, dal malefico durian alla cena con aragosta intera a dieci dollari. Poco oltre, i ristorantini cedono il passo ai locali notturni, generalmente di stampo occidentale, dove puoi trovare bistecche e cocktail, tortillas e Guinness, slot machines e puttane sull’uscio. E’ una via che non dorme mai, fino alle ore piccole del mattino e il caos che la caratterizza è un frastuono indescrivibile di luci, rumori, altoparlanti che sputano fuori musica ad altissimo volume, fiumi di gente che non smettono di camminare in tutte le direzioni per le vie del Golden Triangle e che potrebbero farti sparire un portafoglio dalla tasca in una frazione di secondo.

Il simbolo estremo di Kuala Lumpur sono le Petronas Tower

Il simbolo estremo di Kuala Lumpur sono le Petronas Tower, le torri gemelle alte 452 metri che al tempo della loro costruzione erano le più alte del mondo. Richiamano per la loro forma molti simboli islamici. La pianta è formata da due quadrati che si intrecciano e cinque sono i livelli verticali, quanti i precetti dell’Islam. Sembrano i minareti di una moschea, due missili che si stagliano verso il cielo, collegati, a circa un terzo della loro altezza, da un passaggio orizzontale. Quando cala la notte si illuminano, insieme a tutti gli altri grattacieli e agli schizzi d’acqua parabolici dei laghetti del parco sottostante. Non può certo dirsi bello, ma ha un suo fascino, quasi da città del futuro. Poi torni in hotel a piedi e stavolta al posto di Ragno di Mare trovo un tizio con un pitone di tre metri legato attorno al collo, come se fosse una sciarpa. Chiede soldi per le foto e allora ti convinci di essere in Asia.

Il terribile Durian

Il mercato di Pudu è un mercato alimentare che devi visitare, soprattutto se sei costretto a vivere in un hotel. Ti restituisce i colori, gli odori, l’anarchia e tutte le puzze dell’Asia. Vendono soprattutto carne, anche cotta, con una certa predilezione per il pollo e l’anatra, pesci di ogni tipo, squaletti, montagne di vegetali e frutta tropicale, poche spezie, stranamente, e tutte in bustina. Ci aggiriamo tra i viottoli fangosi scattando fotografie tra la gente sorridente.

Ti restituisce i colori, gli odori, l’anarchia e tutte le puzze dell’Asia

A un certo punto, netta, una puzza di cadavere. Proviene da una delle tante bancarelle dove vendono il durian. Trattasi di un frutto verde e pieno di bitorzoli, più grande di un melone che è minaccioso per un paio di motivi. Uno, se mentre cade dall’albero hai la sventura di passare lì sotto ed esserne colpito, kaput; due, se sei troppo esposto alla sua puzza infernale, puoi tranquillamente morire soffocato dai conati del tuo stesso vomito, come le vecchie rock star degli anni Sessanta. Ce lo offrono, aperto. E un’offerta non si può rifiutare. Il mio naso funziona poco, meno male. C’è chi lo trova di gusto eccezionale e da queste parti è considerato il re dei frutti. Ne fanno biscotti, cioccolatini ripieni, succhi, salse, gelati, pancakes, crepes. C’è chi pensa sia afrodisiaco (al solito), chi gli attribuisce qualità curative, chi dice che alzi la pressione, chi che faccia sudare. Dico la mia: lo assaggio, e non mi dice veramente niente. Decidiamo di sconfiggere il sudore e la fatica e la puzza concedendoci un bel massaggio nella via dei massaggi. Evitate almeno dieci proposte di fare “zum zum” optiamo per massaggi reali, chi al collo, chi alla schiena, chi ai piedi: favoloso.

“Convertitevi amici”

L’ultimo giorno decidiamo di andare a respirare un po’ d’aria pura e di visitare un grande parco cittadino, a sud del mercato centrale. Saliamo su un taxi che si destreggia come può in un traffico incredibile. Accanto all’entrata del parco si innalza la moschea moderna. Siamo a pochi minuti dall’ora di chiusura. Ci indicano, ovviamente, di levare le scarpe, e ci fanno entrare, seguendo una guida vestita di bianco e munita di turbante. E’ un uomo dagli occhi lievemente truccati, pelle ramata e dei baffi e un pizzetto impercettibili, che lo fanno assomigliare a un vecchio saggio cinese. Ma lo sguardo è quello di un pirata. L’Islam è seguito alla lettera. Non sono rappresentati né uomini né animali; siamo lontani dalle eresie magiche di Samarcanda. E’ il trionfo della geometria e del simbolismo. Il tetto, una stella a diciotto punte da cui partono le strutture portanti, rappresenta i tredici stati malesi e i cinque precetti dell’Islam che l’uomo dal pizzetto si diletta a spiegarci con semplicità e battute. Lo fa dopo aver fatto indossare alle ragazze una tunica e un velo per i capelli e averci consegnato un volantino Islam in your language in cui sono indicati i siti web dove si può scaricare il Corano nella nostra lingua, file audio per comprenderne il messaggio, tradizioni e modi di dire, film, documentari sulla vita di Maometto, prediche.
“Se siete interessati, è una religione semplicissima, qui è spiegato tutto: il ruolo delle donne, le relazioni con le altre religioni, l’Islam e il rispetto dei diritti umani, l’Islam e il terrorismo, le risposte alle critiche rivolte verso l’Islam”. Non ci parla di Ramadan, tantomeno di Jihad.

Il parco fuori ha una stupenda uccelliera, la più grande dell’Asia. Siamo circondati da foreste di palme e di banani e, al di là del cemento e dei gas di scarico, finalmente, ci si sente a un passo dall’equatore, assaliti dall’umidità e dalla voglia di penetrare i misteri dell’inferno verde. Terminiamo la giornata con una passeggiata tra gli alti palazzi, uno shopping estenuante al Central Market, una foto in notturna a Merkada Square e un’ottima pinta di birra ad accompagnare l’ennesimo riso speziato con tutta l’Asia dentro.

Il segno della V

Sabato mattina. Finiamo il corso, ed è tempo di saluti. Angie, la ragazza minuta di Singapore addetta a una logistica che ha funzionato alla perfezione, è ringraziata con parole dolci da tutti. E, grazie a lei, inizio a capire un po’ di più la mentalità, ma soprattutto la gestualità asiatica. Ora, quando vedrò due giapponesi che mostrano le dita a “v” in una fotografia, saprò che è segno di vittoria ma anche di gioia e di commozione. Perché è così che, ogni volta, Angie saluta chi la ringrazia. Chinando il capo e mettendo le dita a v, con tenerezza.

Il saluto alla Malesia è col tempio di Batu Caves, una statua alta quarantadue metri che si annuncia da lontano. Si trova alla base di un’ampia e lunga scalinata, oltre 250 gradini, e impressiona.

Il saluto alla Malesia è col tempio di Batu Caves, una statua alta quarantadue metri

Costruita nel 2006, è dorata e rappresenta Murugan, il dio hindu della guerra e delle vittorie, dalle sei teste, indicato da varie opere epiche come il figlio maggiore di Siva e fratello di Ganesh: possiede una lancia sacra e altre armi che simboleggiano purificazione, protezione, verità, forza e cavalca un pavone, a significare la distruzione dell’ego. La statua possiede una sola testa che guarda nella direzione della città, finalmente visibile anche da lontano con il suo profilo dominato dalla sagoma delle torri gemelle. Fa da guardia a una serie di grotte che ospitano templi decorati da dei multicolori di cui non capirò mai né il nome né il significato, pipistrelli e branchi di aggressivi macachi, pericolo costante per il tuo zaino, il tuo cibo, la tua macchina fotografica. Fa caldo subito dopo pranzo e per salire si suda a fiumi. Abbiamo un tempo limitatissimo per la visita, anche perché dovremo perdere una preziosa mezz’ora nella visita di una fabbrica di batik.

Difronte all’abile venditore di batik penso alla Malesia che avrei voluto più vedere, quella delle eredità coloniali, delle lagune con le palafitte, delle spiagge da sogno, delle immersioni, delle isole dei pirati di Salgari.

Non so se Sandokan sia esistito davvero ma la Malesia di Mompracem è quella che di gran lunga preferisco.

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