Storie dai Balcani
Sono esattamente venti anni che ho iniettato nelle vene il virus della febbre balcanica. Che mi sottopongo alla lettura di vari libri per capire realmente cosa è successo, appena al di là del mare, mentre io ero all’università, e la guerra dilaniante nelle terre della ex-Jugoslavia mi scivolava troppo sulla pelle. Io che avevo già divorato, a quei tempi, il Rumiz balcanico e i capolavori di Ivo Andric, mi apprestavo a cibarmi di tomi rigurgitanti antropologia e costume, storia e trattati diplomatici, per approfondire quale fosse, nel passato, lo sguardo dell’europeo sul proprio inquieto cortile di casa e per avere la conferma di quanto le potenze europee, e la loro consueta inazione per interessi nazionali, fossero state una delle cause principali del disastro avvenuto nei Balcani.
In luoghi come la tormentata Sarajevo circondata da spietati cecchini, come Srebenica coi suoi diecimila uomini trucidati tra i boschi che gridano ancora vendetta, come Mostar colpita drammaticamente e simbolicamente con la distruzione del suo ponte che univa due culture, due mondi.

Ma in questa regione ho viaggiato poco nella mia vita.
I miei Balcani erano stati vacanze con la famiglia fine anni ‘70-inizio anni ’80, uno spruzzo di Istria alla ricerca delle origini del mio cognome, un assaggio di Dalmazia, qualche isola incantata nel blu dell’Adriatico, un veloce attraversamento della Macedonia in un viaggio in treno verso la Grecia.
Mai davvero sul campo, mai nel ventre delle città che portavano ancora le ferite dopo l’inaudita violenza subita, mai a toccare la tristezza slava con mano e forse per questo con la coscienza scossa.
In questi anni si è creata dentro di me solo una gigantesca mappa mentale immaginaria, dove le tappe del viaggio erano però numerose e toccavano le memorie del dolore bosniaco, i ponti di pietra ottomani, i monasteri ortodossi, i caffè e i palazzi eleganti di Belgrado, le bellezze della costa, le pianure del nord tra la Drava e la Sava, lo scorrere dei fiumi simbolo, la Drina, la Neretva e il Danubio fino alle Porte di Ferro. Proprio con la lettura di “Danubio” di Claudio Magris, oggetto di uno dei miei esami più belli, quello di letterature comparate e dedicato alle civiltà dei fiumi e alla letteratura dell’acqua ho imparato a guardare più spesso, e con rispetto, verso est.
Ad ogni lettura un puntino in più sulla carta stradale, una curiosità in più da soddisfare, una rivalità mai sopita tra popoli e etnie e confessioni da chiarire.
Il miracolo (?) di Tito
Fino a che i viaggi non fatti, le guerre civili fortunatamente non vissute, i visi non consolati, mi sono entrati dentro in un altro modo, grazie appunto ai percorsi culturali e letterari affrontati. Sono giunto a una “mezza” conclusione su quella strana creatura che era la Jugoslavia che a dire il vero più ci si pensa, più si va fuori di testa. D’accordo, il Maresciallo Tito non era certo il massimo della democrazia. Anzi. Ma riuscì in almeno tre cose eccezionali. Liberarsi dai nazisti senza nessun aiuto esterno, con la guerriglia partigiana che scendeva dalle montagne e che si macchiò di alcuni episodi ugualmente gravi con le foibe; far convivere, nonostante tutto, Serbi e Croati, che in guerra se le erano date di santa ragione, senza rinunciare a quel tipo di atrocità che non si dimenticano per decenni, si nascondono sotto la pelle e sfociano in nuove tensioni – proprio quello che sarebbe capitato; non allinearsi ai due blocchi della guerra fredda, dando vita a una creatura ibrida che era al tempo stesso Oriente, Occidente e Mitteleuropa, cattolicesimo, ortodossia e islamismo. Uno di quei posti che quando tutto scorre tranquillo presentano pure una certa ricchezza (la ex Jugolsavia per decenni è stata una regione benestante rispetto a tante sorelle dell’Europa orientale), il valore della mescolanza e della tolleranza, quando invece la storia prende altri sentieri cadono rovinosamente e velocemente a terra.
Le voci
E infatti è questo che mi mormorano le ex repubbliche jugoslave mentre le immagino negli anni difficilissimi sotto le bombe, sopra le tombe. Ne sento le voci. Tuttavia non consento loro di dialogare. Non vorrei ricominciassero a scannarsi…
Slovenia

“Fratello occidentale, lo sai, noi eravamo oltre la Cortina di Ferro, ma siamo sempre stati mitteleuropei. Non hai sentito la musica all’atterraggio? Valzer viennesi: credi sia un caso? Guarda i nostri boschi, i nostri laghi, le nostre alpi: siamo parte dell’Europa che conta, tiriamo dritto, non siamo feccia balcanica. Perdona la nostra guerricciola contro Milosevic, c’era in gioco qualcosa che si chiama Indipendenza. Loro vennero titubanti e increduli, noi sparavamo per uccidere. Ma il fine giustifica i mezzi, no? Cerca di capire: lo abbiamo fatto per tirarci fuori in tempo dal macello.”
Croazia
“Fratello cattolico, non penserai ancora alle atrocità delle ultime guerre, né alle camicie nere che molti di noi indossarono volentieri o ai blitz paramilitari degli Ustascia? Pensa che noi, solo noi, siamo stati per secoli, l’ultimo baluardo cattolico, l’unico a opporsi alle altre confessioni e religioni, eretiche o orientali fa lo stesso. Ammira piuttosto le nostre isole, godi del nostro mare, applaudi i nostri eroi sportivi del calcio e del basket, dimentica i massacri di cui ci rendemmo responsabili verso i nostri ex connazionali, il ponte di Mostar demolito dai nostri artiglieri, la pulizia etnica contro serbi e bosniaci. Dacci il benvenuto, invece: dopo la spartizione avventurosa dell’ex-territorio nazionale jugoslavo avvenuta come per contraccolpo con la caduta del Muro di Berlino e per la morte e la complessa eredità lasciata dal Maresciallo comunista, siamo entrati in Europa anche noi.”

Serbia
“Fratello di confessione! Siamo ortodossi, ci segniamo tre volte anziché una, con sole tre dita (Dio, Patria e Zar), anziché con tutta la mano. Facciamo il segno della croce al contrario, copriamo il capo alle nostre donne quando entrano a cantare in chiesa meraviglie polifoniche. Siamo stati per secoli il bastione del Cristianesimo contro l’avanzata turca. Noi che celebriamo la festa nazionale in occasione della batosta che subimmo a Kosovo Polje, nella piana dei merli, quando dimostrammo a tutti, appena seicento anni fa, che per la religione e per il suolo patrio eravamo e siamo disposti a morire. Se cerchi l’Oriente guarda altrove, per favore. Ci perdonerai prima o poi le gesta dei Cetnici, delle Tigri di Arkan, dei nostri criminali di guerra, dei nostri dittatori da strapazzo, di Karadzic e Mladic? Lo facevamo per l’unità della patria, non per il saccheggio. E se saccheggio è stato, la propaganda ci rendeva ciechi. Fidati di noi, dopotutto stiamo migliorando…”

Montenegro
“Ehi tu, lassù… siamo appena nati, siamo piccoli, sogniamo di vecchie fiabe, di castelli e principesse. Abbiamo il fiordo più profondo e bello d’Europa, lo sai? Ammira la meraviglia delle Bocche di Cattaro! Cosa? Ops… ah sì, quelli laggiù sono contrabbandieri… Scusa, su di loro è basata la nostra economia. Dovremo pure mangiare. Non vorrai mica farcene una colpa?”

Kosovo
“Sì, lo sappiamo, in molti dicono che neanche dovremmo stare in questo elenco. Figliando come conigli, abbiamo rubato la terra sacra dei Serbi, i loro monasteri medievali, il suolo impregnato di sangue. Se ne sono leggermente risentiti. Ma avevamo la NATO dalla nostra parte. Dopo essere stati perseguitati per secoli, non avevamo il diritto di vendicarci un po’ bruciando qualche dozzina di chiese? Ci riconoscono in pochi, la metà degli Stati Onu, non i serbi, non i russi, non i cinesi, neppure gli spagnoli perché hanno la grana della Catalogna che assomiglia alle rivendicazioni di Pristina, ma tra chi ci protegge ci sono gli Stati Uniti, allora cosa importa? Continuiamo pure a pensare alla Grande Albania, l’UCK ha tenuto a bada le mire dei serbi quaggiù, non corriamo alcun rischio.”

Bosnia ed Erzegovina
“Maledetti… noi eravamo un microcosmo felice, noi eravamo tutti voi insieme, eravamo una Jugoslavia in piccolo, la dimostrazione di come, senza la vostra avidità, avremmo potuto continuare a convivere insieme, come avevamo fatto per secoli: cattolici, ebrei, musulmani, ortodossi, zingari e valacchi, albanesi e ungheresi. I matrimoni misti a Sarajevo erano arrivati al 40%, l’amore vinceva su ogni cosa. Ma dava fastidio ai sanguinari generali e agli stolti politici di ogni etnia. Il premio per questo inno alla mescolanza furono l’incendio della biblioteca multiculturale e 1264 giorni di assedio, il più lungo della storia europea. Gli 11 mila morti nella nostra città-martire, dovuti ai cecchini serbi che sparavano dalle nostre colline innevate contro cittadini inermi, ci guardano ancora dalle lugubri lapidi bianche.
Che ci avete fatto? Ci avete squartato, poi spartito, saccheggiato, stuprato, come fossimo carne da macello, andando a crearvi il boccone più saporito, quello reso da voi etnicamente puro. Eravamo 4 milioni, 2 sono fuggiti come profughi, molti bosniaci sono finiti nelle fosse comuni. A Srebenica si è consumato uno dei genocidi peggiori della storia.
Ora ci chiamano entità, abbiamo due di tutto: ministeri, politiche, capitali. La paralisi decisionale e la burocrazia istituzionalizzata. Più una città, il distretto autogovernato di Brcko, talmente contesa da appartenere ad entrambe, in un ridicolo percorso di arbitraggio tra la Repubblica Serba e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina. Le è concessa un’esistenza demenziale, sotto la protezione delle autorità internazionali, le stesse che tanto male ci hanno causato.
Cari amici caschi blu, maledetti puffi, è soprattutto vostra la colpa di confini interni ridicoli, focolai di odio sempre presenti, di una memoria di tragedie difficili da gestire, passate sotto i cingoli dei carri armati, nel tradimento del mancato intervento a Srebenica e nelle piazze dei mercati bombardate dai mortai. Abbiamo ricostruito i ponti crollati ma abbiamo ancora tonnellate di mine da bonificare e ci rimproverate di aver attirato i mujahedin in Europa. Come avremmo dovuto difenderci, con le pietre?”

Macedonia
“Fratello europeo, ci separammo dalla Jugoslavia senza spargimenti di sangue, forse perché eravamo la regione più povera, inutile da trattenere, faticosa da minacciare. Già divisa in tante etnie, in tanti confini, che non c’era bisogno di altri massacri. O forse perché avevamo già pagato le atrocità del passato quando qui i sultani ottomani cavarono 28.000 occhi per riprendersi le terre. O forse perché avremmo pagato altro dolore durante la Guerra del Kosovo, persa dietro al sogno della Grande Albania…

Ora che conosci le mie sofferenze, sappilo…. Sono l’ultima resa dei conti, il posto dove millenari nodi vengono al pettine, dove la soluzione non è mai indolore. Sono in mano a un gruppo di dementi che spendono un patrimonio per costruire un passato glorioso, un’identità che rischia di portare al bieco nazionalismo e al fondamentalismo islamico invece che all’integrazione europea. Sono le mie musiche tristi, sono i miei pastori arretrati, sono i delitti circolari, senza inizio, senza fine e senza senso che hai visto nello struggente film “Before The Rain”: qualcuno è colpevole, qualcuno è ammazzato, qualche innocente ammazzerà sempre qualcun altro.
Sono un respiro mediterraneo, una lingua slava, una scena orientale, una scritta in cirillico.
Sono anche l’utopia della città di legno di Kusturica, persa nei boschi e in una nuova forma di arroganza.
La mia capitale è una Ashgabat in miniatura, bianca e dorata, è un cantiere di ponti, di cupole, di statue, si alzano solo statue qui, quella di Alessandro Il Grande, di Skanderberg, di Madre Teresa di Calcutta, nata proprio in questa Skopje perennemente divisa in due dal suo fiume: da una parte le croci e i campanili cristiani, dall’altra i minareti e i canti dei muezzin.
Ed io urlo, notte e giorno: “Tito, torna!”. Non c’è bisogno che ti dica il mio nome. Ho imparato che non è importante per poter vivere bene”.

Sarà possibile?
Terminate le voci ecco il ricordo del finale del film “Underground”: si ritrovano tutti, i vivi e i morti, in un matrimonio onirico su un’isola che va alla deriva sul Danubio.
La metafora del sogno e della possibilità di tornare a vivere insieme?
Alla ex-Jugo c’è da augurare questo destino, anche per salvarci un po’ la coscienza di aver assistito a tante atrocità senza muovere, da occidentali, da fortunati, da governi tiepidi, neppure un dito.
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