Il teatro dell’acqua
La forza primordiale dell’elemento acqua. La purezza dell’acqua. Il silenzio e il rumore legato all’acqua. Al confine tra tre paesi sudamericani, il Brasile, l’Argentina e il Paraguay. In mezzo a una foresta pluviale abitata da giaguari, tucani e iguane. Con la sensazione inevitabile di avere davanti agli occhi, nella testa e nel cuore – se si amano i viaggi come la musica e il cinema – un paesaggio sognato e una meta mitica, una delle scene che hanno fatto la storia del cinema e una musica dolce, unica, capace di svelarsi in una specie di effetto catartico. E’ questo il teatro naturale e umano che si presenta al cospetto delle meravigliose cascate di Iguazù.

Prima i guaranì
Gli indios venuti per primi ad abitare queste terre verdi e umide nell’XI secolo, i guaranì, usarono due parole nel dialetto locale per raccontare e nominare alle altre tribù delle selve la grandiosa massa d’acqua che precipitava sui loro villaggi: “y” significa “acque” e “guasù” “grandi”, ecco quindi che le placide acque del fiume compiono un salto improvviso di 70 metri e diventano “grandi acque”, che portano vita, vie di comunicazione da percorrere con le canoe, pesci e animali da cuocere al fuoco, alberi ricchi di frutta tropicale.

Vita comoda e vita selvaggia
A vederle ancora oggi le cascate fanno terminare gli aggettivi e le esclamazioni, sono 275 piccole e grandi, la più spaventosa si abbatte nella “Garganta del Diablo” (la Gola del Diavolo), e soprattutto si sviluppano in scenografica ampiezza, seguendo per circa 3 km il corso del fiume. A chi scrive è capitato di ammirarle in una tappa del viaggio di nozze, al “sicuro” e nel pieno comfort di un moderno resort dove in attesa delle visite ci ciondolavamo in piscina, fotografavamo i pappagalli di un piccolo zoo tropicale, gustavamo il churrasco brasiliano e la caipirinha, provavamo imbranati a imitare le mosse di una samba ballata da splendidi ragazzi e ragazze mulatte. Ma là fuori sentivamo il fragore delle acque, sapevamo che c’era la vita selvaggia, che il giaguaro o il puma poteva cacciare la notte nelle foreste e che nelle foreste più lontane, più profonde, potevano esserci gli ultimi eredi delle tribù poco disposte a mischiarsi col mondo civilizzato. Gli indios che vedevo mi facevano un po’ malinconia, le piume in testa e degli idoli di legno in mano, ridotti a vendere souvenir e pozioni magiche sul sentiero delle “grandi acque”, davanti all’entrata del Parco Nazionale di Iguazù, riconosciuto per fortuna – e quindi protetto – come patrimonio dell’Umanità dall’Unesco dal 1984.


La leggenda di Iguazù
In quell’albergo, sotto un grande ventilatore a pale che provava invano a combattere l’umidità del luogo e a falciare qualche zanzara, lessi su una guida la leggenda delle cascate: le aveva create un dio geloso dell’amore terreno fra due giovani, cosicchè per ostacolare la loro storia e la loro fuga trasformò il corso del fiume in un precipizio da brivido, con loro due che vi caddero dentro: Naipu, trasformata in roccia, e Caroba, trasformato in albero. E le guide tra le schiume ora cristalline, ora opache, ora biancastre, ti indicano il punto in cui i due innamorati sono rimasti per sempre fermi a guardarsi.

Sopra e dentro le cascate
Ricordo poi l’esperienza sopra e dentro le cascate, ovviamente tutta ripetibile da ogni fortunato viaggiatore dell’America Latina: la maggior parte di esse si trovano in territorio argentino ma la vista migliore, specie al tramonto, si gode dal lato brasiliano. Con un sistema ingegnoso di passerelle e di piattaforme di robusto legno arrivi ovunque, intravedi tra i rami i lunghi becchi gialli dei tucani o i rapidi salti di qualche scimmia, incroci tapiri nei sentieri e pigre iguane sdraiate sui massi esposti al sole, nuvole di farfalle colorate, gli intraprendenti coatì (una sorta di piccolo procione locale) che sbocconcellano i resti delle merendine dei turisti… ma soprattutto ti avvicini al boato dell’acqua e rimani incantato, immobile, a immaginarti cosa succederebbe se fossi là sotto. Poi là sotto ci vai, fino a scorgere proprio l’inquietante Gola del Diavolo, a bordo di sicuri gommoni, a fare il pieno di schizzi e di foto, a cercare di respirare quello che vedi, a scorgere tra il vapore delle gocce le lontre giganti e se sei fortunato qualche alligatore che aspetta affamato sulle rive. Una nonna italiana incontrata nel parco, appena scesa dal giro in elicottero, non riusciva a staccarsi dalla passerella panoramica: “Come erano da lassù?” – le chiedo, “qualcosa di impensabile” la sua risposta che sapeva ancora di stupore.

Il mondo della foresta e il mondo dell’uomo
La natura ti circonda, ti ammalia, sia per l’acqua, che per il cielo, che per la foresta che per le piante: felci, liane, orchidee e begonie a livello dell’acqua, le grandi e spinose araucarie a formare il manto verde della selva, la yerba mate sui prati argentini appena la foresta si dilata. I segni umani sono pochi, di certo non vedi gli indios con le cerbottane tra gli alberi. Ma l’uomo qui è arrivato vicino, ha costruito cittadine dedite al turismo soprattutto, nello stato brasiliano del Paranà, nella provincia argentina di Misiones e – ahimè – nella zona franca di Ciudad del Este in Paraguay, un incrocio equivoco e puzzolente dei Tropici, una meta raggiunta solo da chi cerca acquisti facili al mercato nero e la compagnia delle prostitute nei bordelli. Meglio evitare e godere un giorno in più della luce, dell’acqua, del verde di Iguazù, dei suoi arcobaleni o delle passeggiate con la luna piena.


Le missioni dei gesuiti
Per me e credo per tanti altri innamorati di grandi film e di grandissime colonne sonore l’immagine delle cascate di Iguazù è soprattutto legata a “The Mission”, lo straordinario racconto del tormentato destino delle prime missioni gesuitiche in America Latina: le “riduzioni” le chiamavano, quasi a tentare un piccolo, ridotto esperimento di civiltà e di fede ai margini delle profonde foreste del continente. Alcuni gesuiti, convinti che il vero significato dell’amore di Dio si esplicasse in quello per l’uomo, si erano arrampicati quassù a dialogare con le popolazioni selvagge, per portare l’educazione e il Vangelo, le nozioni per costruire una scuola o una chiesa, coltivare un campo, allevare del bestiame. Il loro cammino fu spesso solitario e difficile, non privo di insidie. A volte capitava che il fiume riportasse in pianura i resti smembrati di un frate che – diciamo così – non era riuscito a dialogare come si deve con una tribù!

“The Mission”, un capolavoro
Il film di Roland Joffè, vincitore della Palma d’Oro a Cannes e premio Oscar per la fotografia nel 1986 (Morricone e De Niro gridano vendetta per le sole nomination…), fa rivivere benissimo questa epoca, col regista che continua a mostrare, dopo il suo “”Urla del silenzio” sul dramma cambogiano dello sterminio ad opera dei Khmer rossi, una grande sensibilità sociale e la capacità di difendere le cause dei più deboli. “The Mission” però ha le stigmate del capolavoro, fin dalle sue scene iniziali, quando Padre Gabriel, impersonato dal bravissimo Jeremy Irons, scala le pareti delle cascate per offrirsi a un mondo altro, quello dei guaranì della selva. Sale da solo, a piedi nudi, con umiltà, ostinazione, con abiti semplici, un libro di preghiere, un crocifisso, un oboe. Proprio la scena dell’oboe rivela subito il tocco del regista e il portento della musica di Morricone perché dal fragore della cascata e dalla furia dell’acqua emerge come un controcanto e nell’ombra della foresta il dolce suono dello strumento, con gli indios che dapprima impauriti pian piano scansano le foglie giganti e si avvicinano, incuriositi, pacifici, sorpresi. La musica diventa un mezzo di comunicazione, il più puro, il più immediato, il più sincero. Diventa la possibilità di conoscere, accogliere e rispettare un popolo primitivo.
L’avete sentita bene, vi veniva da chiudere gli occhi e immaginare qualcosa di divino?
La ragion di stato
Padre Gabriel è quindi accettato, porta in dono la musica e sé stesso, resta a vivere in quella comunità diffidente, terrorizzata dagli scontri precedenti con altri bianchi, altri coloni, altri sfruttatori. Lui e il suo sparuto gruppetto di gesuiti provano a fondare una piccola comunità agricola autosufficiente, a insegnare la religione cristiana, a istruire i bambini mezzi nudi, a proteggere gli indios dalle razzie degli ultimi conquistadores, dall’avidità dei latifondisti e dalle prepotenze delle corone europee. Infatti – e qui parla la storia – col trattato di Madrid del 1750 – il regno di Spagna si impegnava a cedere a quello del Portogallo alcune terre gesuite in Paraguay, nello specifico sette missioni dove tra foreste pluviali, potenti cascate e animali selvaggi vivevano, amavano, cacciavano e lavoravano 30.000 guaranì, che come sempre pagarono il prezzo più alto: gli fu intimato di spostare i loro villaggi altrove, alla fantastica ricompensa di pochi pesos a testa, un valore offensivo rispetto alla pur relativa ricchezza dei loro campi coltivati e delle loro mandrie. Ma quella non era una trattativa, bensì il preludio di un massacro, perché agli indios non potevi comprare la loro storia, non potevi rubare la loro dignità.
De Niro, mostruoso
Il sub plot di “The Mission”, destinato a unirsi e a sovrapporsi alla trama principale soprattutto grazie alla stupefacente interpretazione di Robert De Niro, vede dipanarsi la storia del feroce cacciatore e mercante di schiavi Rodrigo Mendoza, barba nera e abilità di spada dei conquistadores, che, ucciso il fratello più giovane in un duello per gelosia, si lascia convincere da Padre Gabriel a seguirlo nella foresta piuttosto che a morire coi rimorsi in una squallida cella.

Il nuovo percorso umano di Mendoza/De Niro si apre con un difficile viaggio di espiazione. L’uomo che non temeva nessuno e che voleva tutto per sé deve imparare a temere la natura e a non volere proprio niente per sé. Eccolo salire sulle alte cascate, tra il fango e i burroni, trascinandosi dietro l’enorme peso metallico della sua armatura, della sua vita e dei suoi errori passati. Lui così crudele, così materiale, così violento, impegnato in una fatica terribile, che va vista ovviamente come una forma di penitenza autoinflitta, un necessario riscatto dall’orrore.
Dal pianto al riso
Arrivato in cima può vivere la sua liberazione e può diventare un servo di Dio, dopo che Dio lo aveva offeso e tenuto lontano in ogni modo. La catarsi umana del feroce avventuriero nella visione filmica si traduce nel gesto dell’indio che gli taglia col coltello il suo simbolico fardello, che cade nel fiume, rotolando via per sempre, sommerso col sangue dei suoi delitti. E tutta la sequenza in cui un impressionante De Niro con la faccia sporca di fango conclude la sua impresa e passa dal pianto al riso perché consapevole della sua possibilità di rinascita e del perdono di Dio è probabilmente la scena di trasformazione facciale più bella e più commovente della storia del cinema.
Che va vista e rivista, perché fa scuola a tutti gli attori del mondo, perché mette in scena la completa gamma dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni e perché fa capire che gli indios con le facce pitturate e le lance e le frecce in mano, che tirano divertiti la barba del grande nemico, parlano in fondo l’universale e urgente linguaggio dell’amore e dell’accoglienza. Ecco la scena che da sola per me meritava l’Oscar.
Il canto di una cultura scomparsa
La sequenza in questione è accompagnata dalla musica indimenticabile di Ennio Morricone che in questo lavoro seppe unire con maestria cori liturgici e ritmi etnici, sonorità indigene e chitarre spagnole, il suono dell’oboe ad accompagnare quello dell’acqua. Tu ascolti e ti immergi nella natura, nella storia poetica della missione, nel rumore delle cascate di Iguazù, nel respiro della foresta, negli occhi degli indios. Un vero capolavoro di sincretismo e di catarsi musicale, che accompagna appunto quella del mercenario Mendoza, e insieme l’evocazione di più mondi e più culture, l’atmosfera di ambienti esotici e sperduti. C’è tutto nella colonna sonora di “The Mission”, c’è il canto di una cultura scomparsa.


Il film prosegue con la vita nuova di Rodrigo Mendoza nella missione gesuita dove gioca e nuota coi piccoli, caccia, costruisce e coltiva coi grandi, prega col suo amico Padre Gabriel. L’emissario papale, il Cardinale Altamirano, chiamato a decidere il futuro delle missioni vicino alle cascate, resta sorpreso e quasi ammirato dalla bontà, dalla laboriosità e anche dalla fede acquisita dagli indios ma purtroppo la ragion di stato è superiore e quell’esempio di comunità tenace, resistente e autentica rischia di diventare troppo scomodo per le mire dei potenti. Quindi i guaranì vanno sconfitti e cacciati perché “inferiori”, perché “portano le malattie”, perché restano dei selvaggi “senza dio”, non sono delle anime belle e servono come schiavi nelle piantagioni.
E’ la guerra, anzi la carneficina. Terribile. Devastante come la caduta d’acqua da una cascata.

Il finale struggente
Nella sua preparazione il bambino più amico di Mendoza ritrova la sua vecchia spada in un’ansa del fiume, gliela porta e lui rompe il voto di non violenza, ritorna il feroce guerriero in contrasto con la morale pacifista di Padre Gabriel. Tutti i gesuiti si sacrificano, chi affoga nel fiume, chi colpito da colpi di mortaio, chi bruciato nel villaggio messo a ferro e a fuoco dai soldati. De Niro si batte come un leone ma per salvare un bambino si distrae un attimo, i nemici neutralizzano la sua trappola pensata per far saltare il ponte e gli sparano. Lentamente si spegne, mentre vede Irons che cammina in un’ultima processione, tra le fiamme, con l’ostensorio in mano, circondato dai suoi indios che come lui vanno sereni incontro alla morte. La scena finale è struggente, tra nuvole di fumo, pianti, grida, colpi, le tuniche bianche degli indios si macchiano di sangue, anche Padre Gabriel cade e un momento dopo Rodrigo Mendoza chiude gli occhi.
Su questo finale il Maestro Morricone poco prima di morire disse: “Nella mia vita ho pianto due volte, quando ho visto Papa Francesco e quando ho visto la scena finale di The Mission. Dissi al regista che il film era perfetto e che non aveva bisogno della mia musica…”
La domanda
Sopravvivono un pugno di bambini, che ritrovano un violino e fuggono via nelle foreste. Gli resterà negli occhi il loro luogo meraviglioso e nel cuore il loro rapporto coi gesuiti. Mentre a noi restano secche un paio di domande da porci: qual è la vera civiltà? Dove alberga la purezza e dove la violenza?

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