Il deserto rosso

Nel sud della Giordania, la sterpaglia cede il passo alla sabbia ma, al tempo stesso, le colline sono sostituite da imponenti tavole di pietra rossa, modellate dal tempo, perforate in forme fantasiose.
Il deserto del Wadi Rum ci accoglie con un enorme monolite trapezoidale denominato i sette pilastri della saggezza. Poi con una sabbia rossa penetrante, su cui sbandiamo allegramente prima che il tramonto illumini le alture in lontananza.
Il campo tendato è sotto a una rupe, accanto a un piccolo falò, dove sposto il mio materasso. Scalo una roccia rossa traforata dal vento che si apre sull’infinito e su oceani di sabbia multicolori. Fa buio in fretta ma, a sorpresa, non arriva il freddo. Prima di cena cerco di entrare in simbiosi con la notte del deserto. Escono Venere, Orione, Marte. Quando la notte è ancora giovane, spunta una luna quasi piena che illumina bene l’accampamento beduino e ristabilisce le distanze tra noi e le stelle del deserto, uccidendone la magia.

La luna illumina fino all’alba i monoliti rossi che quando apro gli occhi sembrano enormi guardiani. Mi alzo alle 5.30 e con l’alba il deserto torna alla vita. Solo un beduino è già in piedi. Va a svegliare i dromedari senza gobba che protestano vigorosamente. Il loro verso è come un potentissimo rutto che si perde in lontananza. Saliamo su una macchina beduina con rimorchio. Sembra un residuato bellico.
Mentre il deserto si dipinge di rosso, visitiamo una stretta fenditura presso la quale si possono ammirare alcune antiche incisioni rupestri. La seconda tappa è presso un arco di pietra modellato dal vento, su cui ci arrampichiamo non senza difficoltà. Dall’alto, tutte le sfumature del rosso, il colore perenne della sabbia di queste parti. Ogni silhouette di beduino che solca la cima di una duna sembra ricordare le scene del film Lawrence d’Arabia.

Accanto ad ogni posto vagamente turistico ci sono tende beduine che vendono paccottiglie varie: ossa di animali, monili d’argento, artigianato in pelle, pugnali ricurvi, vesti beduine, sassi dalle forme strane, onnipresenti kefiah. Roba povera che, tuttavia, preferisco a quella sterilizzata, esposta in serie nei negozi turistici più grandi. Almeno questa porta su di sé la sabbia del deserto. Vedo un osso di femore e un teschio di non so quale animale e l’associazione sorge spontanea, come la musica nel mio cervello. Paa-paaaaaa-paaa-pa-paaaaaaaaa. E’ la scimmia di “2001: Odissea nello spazio”, nel momento in cui, dopo la comparsa del monolito, capisce che l’osso può essere un’arma, che la rende pericolosa, invincibile. E violenta.

Tutte le mie dune
La tappa successiva è presso una pseudo-duna. Pseudo perché è una duna incatenata, poco libera. E le dune devono potersi muovere, spinte dal vento, arrivare e ripartire con i capricci di Eolo. Questa no, arriva solamente. Il vento spinge la sabbia addosso a un alto sperone di roccia, presso cui si accumula e, una volta duna, la sostiene. Però è alta, bella, rossa, vien voglia di scalarla. E so che va fatto seguendo la cresta, per la strada più lunga perché, altrimenti, ogni passo avanti sono tre indietro e le scarpe si riempiono in due secondi di sabbia e la fatica diventa improba. Arrivato in cima mi butto giù a capofitto, rotolando, felice come un bambino.
Ripenso per una di quelle strane associazioni di idee che illuminano i viaggi nei grandi spazi a tutte le mie dune: a quella in cui placcavo la mia fidanzata in Marocco, fingendomi un grande giocatore di rugby a due passi dalla meta, il mio primo incontro con le propaggini del Sahara, alla mia prima montagna di sabbia nel deserto tunisino da cui, incantato, ho visto alba e tramonto nel silenzio più totale; a quella omanita dove mi raggiunse la guida locale col turbante e col pugnale per spiegarmi tutti i pregi del suo sultano; a quella di Natal in Brasile che a momenti fa capovolgere la piccola jeep sulla quale cercavo percorsi com emocao; a quella di pomice di Lipari che mi vide arrivare in mare più bianco del borotalco; alle dune pietrose del Sinai e per contrasto a quelle erbose della verde penisola irlandese di Dingle; alle dune selvagge dell’andalusa Tarifa, dove mi sedevo per ammirare i surfisti nella luce dell’Atlantico, fino a quelle di Lanzarote percorse a dorso di dromedario.
Acrobazie, salti, candele, verticali, capriole e la testa che gira e non capisce più dove sia, ubriaca di velocità e sensazioni. Mi piacciono le dune e alla base di questa giordana del Wadi Rum sono pieno di sabbia rossa, fin dentro alle orecchie.


Aqaba in una preghiera
Oltre, il deserto. La strada si allarga, come il panorama, ed è una striscia che conduce fino ad Aqaba. Nome che evoca, che mi fa ripensare al testo di “Smisurata Preghiera” di De André scritta in omaggio agli sfortunati e ai diseredati della terra. Ma, da quel che leggo, mi sembra che Aqaba sia solo un nome, che offra poco, appena l’atmosfera di un porto moderno sul Mar Rosso, un cielo e un mare dal colore spesso lattiginoso, dei Resort un po’ malinconici.

“… per chi viaggia in direzione ostinata e contraria, col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi, per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità. Per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli con improbabili nomi di cantanti di tango in un vasto programma di eternità. Ricorda, Signore, questi servi disobbedienti alle leggi del branco, non dimenticare il loro volto, ché dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti: come una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere”.

(continua nel Topic “Luoghi Magici” – Petra)
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