Immagini di Macondo
Un villaggio sperduto nel cuore della selva o la memoria di un’anziana contadina colombiana? Una leggenda familiare o la ripetizione ciclica di un destino, di una tragedia? Un luogo magico o una disposizione d’animo tutta latino-americana? O forse tutte le storie sentite viaggiando su corriere scassate e colorate, su battelli che impiegano giorni a risalire i fiumi? Tutte le sofferenze e gli amori e i sogni degli ultimi, dei raccoglitori di banane, delle splendide ragazze colombiane?
La luce nelle tenebre? La favola alla fine del mondo? La casa da cercare e quella dove restare?
Macondo grazie al suo inventore è uscita dalle pagine del romanzo per diventare una categoria universale, per trasformarsi in un patrimonio dell’immaginario collettivo, in quella che qualcuno ha chiamato la ricerca di una seconda possibilità, di un riscatto e di un anelito dell’uomo a vivere meglio, a superare le angherie, i dolori, le morti.

La vera Macondo
Si chiama Aracataca e ci vivono quarantamila anime. Si chiama Aracataca, come uno scioglilingua, come una pozione magica, come il verso di un pappagallo della selva e si trova proprio vicino a una selva, a delle piantagioni di banane, a un fiume, sotto una grande montagna. Si chiama Aracataca e quasi 100 anni fa vi nacque Gabo, nomignolo affettuoso dato a uno dei più grandi scrittori latinoamericani di sempre, il colombiano Gabriel Garcia Marquez, noto in tutto il mondo per il suo romanzo “Cent’anni di solitudine”, il manifesto letterario ma anche spirituale del realismo magico.
E in questo villaggio alle pendici del Nevado di Santa Marta esisteva davvero una casa del ghiaccio, un magazzino di legno, uno di quelli dove la frutta della selva, banane soprattutto, veniva stipata e conservata prima di essere spedita in vari continenti.

Le memorie personali nei grandi scrittori tornano sempre, ecco infatti l’indimenticabile incipit del capolavoro di Marquez: “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”.
Provo a immaginarmela quella Macondo là, sonnolenta, afosa, con la gente a intenta a cogliere le banane, a ballare una salsa in piazza, a riunirsi al rintocco di una campana, ad appassionarsi a un combattimento tra galli o a cercare il fresco la sera sotto una veranda o grazie a una bibita ghiacciata. Il ghiaccio appunto, grande metafora delle sorprese, delle felicità e delle possibilità del Sudamerica.
Come nacque Macondo
L’universo di Macondo era lieve, poetico, semplice, bastava a sè stesso.


Marquez lo tirò fuori in modo fantastico, basandosi sulle sue esperienze, sulle sue letture e retaggi culturali: il Gregor Samsa di Kafka che una mattina si sveglia trasformato in scarafaggio lo aveva sempre colpito, lo aveva convinto delle possibilità delle “Metamorfosi”. Così i racconti immaginari degli schiavi africani ascoltati nel verde dei Caraibi o quelli soprannaturali ereditati dai suoi antenati della Galizia spagnola, la fredda regione davanti all’Atlantico da cui veniva la sua famiglia. Come nel caso di Isabel Allende anche Gabo ebbe una nonna capace di evocare visioni, presagi, tradizioni, superstizioni, miti. E tutto questo ha creato il suo universo, ha dato vita a Macondo.
E’ in questo modo che le figure di “Cent’anni di solitudine” sono rimaste impresse nella memoria del paese e in quella dei lettori di tutto il mondo.

La saga dei Buendìa
La saga familiare tra lirismo e pazzia delle quattro (cinque? sei? sette?) generazioni dei Buendìa è uno dei romanzi più letti e ammirati di sempre.
Racconta in modo leggero e allo stesso tempo potente della forza, della curiosità, dell’ingenuità come della bellicosità di Josè Arcadio, di nonna Ursula indistruttibile che rappresenta la fedeltà matriarcale e religiosa alla vita che onora fino ai 122 anni (!!), del coraggio ribelle di Aureliano e del suo ritratto tenero di creatore di pesciolini d’oro, delle magie e degli imbrogli dello zingaro Melquiades.
Racconta la storia infinita delle vicende degli orfani e dei bastardi, dei bambini nati dagli incesti con le code di porco e dei morti rimasti appesi agli alberi, dei voli pindarici e delle crude realtà, degli avventurieri e delle puttane come Pilar Ternera, della pioggia eterna e della peste del sonno, della polvere di fata, degli sciami di farfalle gialle talmente fitti da oscurare la luce del sole, di Rebecca che mangiava la terra, di Amaranta che restava vergine e sola, dei corpi ardenti che al contrario si mangiavano tra di loro per la passione carnale, degli altri che morivano per una battaglia, per una vendetta, per un ideale.
E poi ci regala quella pagina unica nella letteratura mondiale, quella che racconta l’ascensione al cielo di Remedios la bella, salita in cielo avvolta nelle lenzuola bianche, pura ed eterea, come una regina, un mistero insondabile, una divinità creola (https://youtu.be/5pfqEr2t12c, per ascoltare la canzone Remedios la bella dei Modena City Ramblers)

(la copertina del capolavoro di Garcia Marquez e un suo ritratto preso da wikipedia)
L’archetipo del realismo magico
Il grande romanzo di Macondo racconta un paese, un’epoca, una intera selva e anche tutte le storie degli avi, quelle vissute, quelle ascoltate, quelle sognate. Crea archetipi di tutti i caratteri e le passioni umane, costruisce nuovi legami e inventa una nuova geografia.
Poco importa che il nome Macondo fu notato da Gabo durante un lento viaggio in treno nella sua Colombia: indicava il nome di una Finca, di una tenuta di campagna piena di banani.
Quel nome dolce, tondo, musicale è diventato grazie al libro subito vita, subito letteratura e mito.
Quel nome ha creato il realismo magico, ha investito il racconto di Marquez di un’aura favolistica, gli ha permesso di reinventare il reale partendo da ricordi e illusioni.
Quel nome ha creato uno stato d’animo, un rifugio dell’essere, una eco destinata a non finire mai. Ha rappresentato idealmente ogni piccolo villaggio di questa terra benedetta e maledetta che è l’America Latina, coi suoi splendori e la sua povertà, i suoi eroi e i suoi fantasmi, la sua sensualità e le sue atrocità.
Filtrando tutto il bene e il male di un continente unico, aiutando a descriverlo, a migliorarlo, a eternarlo. Perchè “ai Caraibi la verità non accade, si racconta” (lo scrittore Alberto Salcedo Ramos) e “Macondo è tutta la terra che calpestiamo, è il posto da cui veniamo e quello in cui andremo” (il poeta Rafael Dario Jimenez).

Più che una lettura un’epifania
L’affresco di Marquez ci spinge ad amare e ritrovare le nostre radici, a coltivare la nostra memoria collettiva e allo stesso tempo a credere in mondi e contatti nuovi: nel romanzo gli zingari e i viandanti di Melquiades sono una porta perennemente aperta sul mondo dell’immaginazione e della curiosità, mentre oggi sono visti come degli appestati o trovano i porti dell’occidente chiusi…
E’ un opera che ci spinge a credere in valori come l’umanità e la pietà, a rifiutare la solitudine esistenziale, i pregiudizi e tutte le barriere. Ci regala anche una idea poetica diversa della sua terra, la Colombia, troppo spesso raccontata solo per le violenze inaudite dei Narcos, dei paurosi regolamenti di conti dei cartelli di Cali o di Medellin. La Colombia di Marquez riesce invece a trasformarsi in ricchezza spirituale, natura vergine, patrimonio folkloristico, orizzonte sognante, spunto filosofico. Diventa un inno e un laboratorio della mescolanza e a volte della allegra e solare follia.
Il paese immaginario di Macondo compie questo miracolo più di ogni altro e “Cent’anni di solitudine” corrisponde perfettamente alla definizione di “Classico” che diede Italo Calvino: “un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”.
Per un viaggio moderno

Alla scoperta ideale di Macondo si può partire dalla città caraibica e coloniale di Santa Marta, affacciata sulla costa e sorvegliata dalla meravigliosa quinta teatrale costituita dal suo Nevado.
Già qui un mix di paesaggi, sapori, colori, musiche aspetta il viaggiatore e lo avvolge con la magia di uno dei luoghi più antichi del Sudamerica.
Si visitano la Casa de la Aduana, il Museo de Oro e la Quinta de San Pedro Alexandrino, un antico zuccherificio che tra giardini lussureggianti e murales evoca le gesta di Simon Bolivar, El Libertador della Colombia, ricordato poeticamente da Marquez in “Il Generale nel suo labirinto”.
Si assaggiano alla baia Rodadero, nel villaggio di pescatori di Taganga, i grandi pesci dell’Oceano, guarniti con riso, cocco, banane, spezie agrodolci. E da bere succhi tropicali dalle mille combinazioni per capire fino in fondo che la vera frutta la conosci e assapori soltanto adesso.
Si passa poi per la Cienaga Grande, quel luogo pieno di piantagioni di banane dove avvenne nel 1928 uno dei massacri più tristi dei lavoratori della Colombia, raccontato in chiave letteraria nel romanzo di Marquez. E quindi tra piantagioni di banane, paesini, selve fiorite, si arriva a Aracataca o a Macondo o chiamatela come volete, si arriva comunque alla città natale di Gabo, alle sue piazze e chiese, ai suoi portici e alle sue cantine, al suo dolce luogo di memorie, alla culla delle sue storie.
“Cent’anni di solitudine” sarebbe da rileggere tutto di un fiato proprio qui, su un’amaca, sotto un banano, nella veranda di una casa coloniale, con un bicchiere di limonata e ghiaccio e in mano.
Oppure le sue millenarie pagine andrebbero sfogliate su un battello che con voluta indolenza percorre il Rio Magdalena, esplora le foreste, i paesi coloniali addormentati come Santa Cruz de Mompox che ti affascinano terribilmente per i colori dei campanili, le balconate in legno ornate di bouganvilles, per le botteghe dell’oro e dell’argento e i silenzi dei cimiteri. O nei luoghi degli ex schiavi neri come San Basilio di Palenque tra foglie giganti che gocciolano perenni dell’umidità del clima e donne vestite in abiti sgargianti mentre portano in equilibrio perfetto ceste di frutta tropicale sulla testa.
Un viaggio emozionale, irripetibile, sotto il sole, sotto la pioggia, sotto il verde, che alla fine ti sconvolge con la bellezza di Cartagena de Indias, meravigliosa, spregiudicata, antica e scintillante insieme.
A Cartagena, patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, si conosce la Colombia senz’altro più storica e sensuale. Va vista tutta, dentro la cattedrale, sugli spalti della fortezza, tra i vicoli più tipici.
E’ la città dove lo scrittore ambientò “L’amore ai tempi del colera” e “Dell’amore e altri demoni”, dove decise di costruire la sua casa, di vivere in faccia al mare, alternandovi tanti ritorni rispetto alla sua ultima residenza scelta in Città del Messico.
E’ anche la città dove un latino americano su due dopo Rio sogna di vivere, la città che è riuscita – almeno sembra – a firmare una tregua tutta colombiana sul fronte dei delitti e delle porcherie dei cartelli dei Narcos.

Il saluto delle farfalle
Di certo il villaggio nel fango e nel verde e nell’afa di Macondo non si può paragonare a questo approdo finale, pieno di retaggi storici, di piazze favolose, di palazzi coloniali ma sempre più pieno anche di turisti, locali, grattacieli. Però nel realismo magico della Colombia abbiano imparato che tutto può convivere no? Infatti le ceneri di Gabo sono volate fino a qui, come Remedios la Bella, e riposano nel chiostro dell’Università di Cartagena.

Gli abitanti di Aracataca hanno dato l’ultimo saluto a Gabo appiccicandosi sul petto delle sagome di farfalle gialle.
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