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Luoghi magici

Magico Eldorado

Tutto comincio con Cortès

La scena è nota e ha per protagonisti una banda di disperati avventurieri. Per servire una corona europea, per riscattare una vita umile e trovare gloria nel mondo salgono con corazze, alabarde e archibugi su una caravella, attraversano il mare, arrivano nel nuovo continente, si scontrano coi nativi e al solo scopo di mettere le mani sulle loro ricchezze li massacrano. Senza pietà. Non per spirito d’avventura o per soddisfare la loro curiosità ma piuttosto per una atavica forma di ingordigia, cupidigia e ferocia. La prima febbre dell’oro da noi conosciuta.

Magico Eldorado. La prima febbre dell’oro da noi conosciuta.

Nel 1520 Hernan Cortès, appena un po’ meno animale di Francisco Pizarro che distrusse la civiltà inca in Perù, dopo aver visto il favoloso tesoro azteco di Montezuma nel vecchio Messico, sparse in Europa la fantasia che nella lontana America precolombiana l’oro fosse ovunque, a luccicare, a stupire, a ricoprire le strade e i templi, così da attrarre frotte di guerrieri senza scrupoli e insieme le mire di sovrani avidi e incontentabili.
Cortès fu il primo responsabile della ricerca dell’Eldorado perché ne alimento la leggenda con lo strumento più potente e evocativo della storia dell’uomo: la narrazione.

la fantasia che nella lontana America precolombiana l’oro fosse ovunque
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Il mito dell’Eldorado

Il mito dell’Eldorado

Navi, spedizioni, eserciti. Missionari invasati e furfanti in cerca di un bottino personale. Mercenari affascinati dal richiamo delle giungle americane e destinati a sparire per sempre nel loro profondo o a essere smembrati dagli indigeni lungo il selvaggio fiume Orinoco o sulle sponde del lago Maracaibo. Conquistadores con la bava alla bocca e tre spade in mano pronti a tagliare lingue e teste agli indiani che non rivelavano il nascondiglio della città tutta d’oro… perché non lo sapevano!!!
L’Eldorado, ogni volta e ogni decennio, nell’immaginario collettivo si spostava, come ad ampliare i confini non geografici ma ormai solo fantastici di una terra dell’abbondanza e della felicità che era oggi nell’umida e impenetrabile foresta amazzonica, domani sui gelidi altopiani andini, un secolo dopo sepolta misteriosamente in fondo a un lago. In una natura potente, primitiva, poco conosciuta.

una terra dell’abbondanza e della felicità

Voltaire nel “Candido” parlava di un luogo leggendario dove la ricchezza non esiste e tutti sono felici…! Ma quanti nomi inutili sulle mappe, la Colombia, il Venezuela, la Bolivia, il Brasile. Quanti percorsi e spedizioni studiati inutilmente. In realtà esisteva nella mente dell’uomo solo una ricerca, un’ossessione: arrivare per primi a scoprire le gemme più grandi mai viste, gli idoli con gli smeraldi incastonati, le strade lastricate d’oro, i tesori abbaglianti dei popoli della selva.

Ma quanti nomi inutili sulle mappe
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Probabilmente fu tutto un grande inganno o un grande incantesimo perché l’Eldorado non era un luogo ma un uomo. Potente, temuto, ricco, misterioso, ma mortale come tutti gli uomini.

Il lago sacro di Guatavita

Alcuni esploratori tedeschi di poco successivi alla violenta epopea di Cortès – parliamo sempre degli anni che vanno dal 1525 al 1540 – scoprirono che le origini della terra e del mito dell’Eldorado erano da rintracciare in un rito della tribù dei Muisca, un gruppo etnico della cultura Chibcha. Tale rito veniva praticato sul Lago Guatavita, situato sulla cordigliera andina 60 km a nord della capitale del loro regno, l’attuale città di Bogotà in Colombia.

l’attuale città di Bogotà in Colombia

Questo lago era nascosto nel cono di una montagna, ad un’altezza di poco minore rispetto a quella del Titicaca, 3.500 metri, tra i venti freddi e le nuvole, uno specchio d’acqua “messo lì come una tazza a raccogliere i raggi del sole” secondo le cronache di quegli intrepidi anni, il posto adatto per avvicinarsi al Dio Sole. Lassù il Cacicco, il sovrano locale, diventava l’Indio dorato.

Lago Guatavita, situato sulla cordigliera andina 60 km a nord della capitale

Il sovrano coperto d’oro

Cosa accadeva esattamente? Che i Muisca del potente Cacicco Sua, in perenne lotta contro altri popoli precolombiani, lotta cruenta come tra gli Inca, lotta che causò in fondo la solita fragilità interna di cui approfittarono i Conquistadores, sceglievano il lago di Guatavita per perpetuare una volta al mese, nelle notti di luna piena, il loro legame col pantheon di dèi locali, ricoprendo il loro capo di resina e polvere d’oro prima di vederlo immergersi nel blu.

Il senso di tutto questo era chiedere prosperità, protezione e benessere al dio serpente che secondo la tradizione di quel popolo viveva in fondo alla laguna, insieme alla ex sposa del Cacicco, inabissatasi nelle acque per sfuggire dalla ferocia del marito-sovrano accecato di gelosia. Più tardi sulle sierras colombiane lo stesso cerimoniale sarebbe stato usato per ogni investitura di ogni nuovo Cacicco e il contorno era senz’altro quello del grande evento.

Andava in scena una sorta di rito votivo, una festa solenne: l’uomo d’oro, chiamato Zita, si tuffava nel lago, praticava delle abluzioni, si combinava con gli elementi, rinasceva a contatto con gli dèi e riusciva così a donare forza e gloria a tutta la tribù. Quella stessa tribù che accompagnava il suo re su una zattera – ovviamente anch’essa ricoperta d’oro – al centro del lago, in un corteo dove lo splendore dei gioielli, dei pettorali, dei pugnali, delle piume colorate e degli abiti sfarzosi contrastava quasi con la luce del sole! Molti monili e ciondoli d’oro e d’argento venivano gettati nel lago come offerte, del resto i Muisca ne avevano prodotti o scambiati col loro bene principale, il sale, così tanti, che quel gesto, solo in apparenza scriteriato, era considerato propizio per conquistarsi la protezione divina.

L’equivoco

Col passare del tempo il ricordo del rito con protagonista il re indiano si affievolì, unitamente alla scomparsa nella selva degli ultimi Muisca che credevano così ardentemente nella montagna e nel lago, nel dio sole, nel dio serpente, nel dio giaguaro e nella magia dell’arcobaleno.
Il nome di quel re con la pelle luccicante d’oro (da qui proviene la definizione di “El Indio Dorado” usata per primo dal Conquistador Belalcàzar), si confuse pertanto col nome di un luogo magico e misterioso, nascosto chissà dove e usato principalmente per perpetuare nuovi saccheggi e nuove violenze o per tentare di strappare dal fango del lago quei tesori con spedizioni assurde e tecniche laboriose.
Ma Eldorado come città non è mai esistita, se qualche gesuita in missione sulle Ande l’ha scoperta si è portato il segreto nella tomba, perché sui libri di storia l’unico segno che è rimasto è quello di una perenne ricerca, di una eccitante avventura, non di un luogo sicuro, stanziale, identificabile. L’Eldorado era al contrario il culmine di una pratica religiosa di un popolo dedito ai sacrifici umani, al cannibalismo, a esporre le teste dei nemici infilzate sui pali, non solo abile nel creare gioielli da sogno.

Quindi esiste una chiave di lettura che ci sembra più giusta e oggettiva, ovvero pensare che l’Eldorado, ancora inseguito, ancora cercato (si parla di un’ultima spedizione nel 1927!), fosse più che altro l’insieme dei tesori, l’insieme delle ricchezze dei popoli precolombiani estinti. L’incanto perduto di tante civiltà e non quello di una sola città. Lo splendore di opere trovate ovunque e create dagli indios per allungare la vita ai defunti, chiedere fecondità alla natura, celebrare la propria etnia e la propria storia.
Da un rito barbaro era nata una leggenda strepitosa, l’uomo nudo e dorato divenne il simbolo di un paese intero da scoprire e l’emblema e la dannazione dell’America Latina, un continente da sempre meraviglioso quanto aggredito e sfruttato.

Museo de Oro di Bogotà

Il Museo de Oro

Immaginare questo universo, immaginare questa favola d’oro è possibile oggi in un posto nel mondo: nel Museo de Oro di Bogotà. Qui, nel buio delle sale e delle teche, protette dai moderni e violenti conquistadores – i capitalisti occidentali ma anche i narcos sudamericani – risplendono le ricchezze impressionanti trovate nelle selve, in cima alle vette, in fondo ai laghi andini: collezioni intere di gioielli e di maschere, di pettorali antropomorfi che ti fanno pensare alla grandezza e alla solennità dei tempi andati, di orecchini, ciondoli, collane, diademi, spille che ti fanno rivivere la bellezza e l’eleganza delle donne indigene, di pugnali e elmi che ti fanno chinare la testa per pietà difronte all’inutile difesa degli indios contro i feroci soldati arrivati dall’Europa.

risplendono le ricchezze impressionanti trovate nelle selve, in cima alle vette, in fondo ai laghi andini

Il reperto che richiama più di tutti il sogno è comunque la Zattera del Cacicco, ovvero del sovrano locale al centro del rito. Ecco, difronte a questo capolavoro dorato si ripensa davvero alla scena di quel re ricoperto d’oro che si buttava nel lago e che di tribù in tribù, di paese in paese, di epoca in epoca, alimentò la famosa leggenda della Terra dell’Oro.

Le ultime scoperte

Secondo una notizia pubblicata su Wikipedia “nel 2001 l’archeologo Mario Polia ha scoperto, negli archivi della Città del Vaticano delle lettere datate 1600 del missionario Andrea Lopez. Il missionario scriveva di una città ricchissima e nascosta nella selva a circa dieci giorni di cammino da Cuzco in Perù, vicino ad una cascata che veniva chiamata Paititi. Alcune teorie sostengono che il missionario abbia informato il Papa sulla ubicazione esatta della città, ma che il Vaticano non abbia mai rivelato il segreto”.

il mondo dei villaggi andini e dei camion colorati, il mondo delle banane e del caffè o le sconvolgenti bellezze

Ricerche recenti e immagini satellitari del 2010 hanno ipotizzato l’esistenza di una enorme civiltà scomparsa nel cuore dell’Amazzonia, nel confine tra il Brasile occidentale e la Bolivia: 250 km di muri, strade, canali, resti di palazzi. Molte cose ancora da scoprire. Altre chissà se sepolte per sempre nel verde. Forse è l’indizio di un altro Paradiso Perduto. Forse è l’inizio di una nuova e folle febbre dell’oro. Ma il cuore dell’Eldorado è conservato soprattutto in questo museo. Visitatelo e sentite cosa vi suggerisce. Magari scoprirete “soltanto” il nuovo Eldorado della Colombia, l’altrettanto immaginaria Macondo, il mondo dei villaggi andini e dei camion colorati, il mondo delle banane e del caffè o le sconvolgenti bellezze dell’architettura coloniale di Cartagena, con la sua placida e sensuale vita che scorre in riva al mare. Emozioni da vivere in anteprima col piccolo album fotografico che chiude in bellezza il nostro racconto sul Paese Dorato.

il nuovo Eldorado della Colombia
il mondo dei villaggi andini e dei camion colorati,
le sconvolgenti bellezze dell’architettura coloniale di Cartagena

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