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Cultura da Viaggio

Marrakech Express

Marocco on the road, un inno al viaggio, all’amicizia e ai sogni

Marrakech Express

Una commedia generazionale on the road e per gran parte della critica il road movie più significativo e più azzeccato del cinema italiano. Un film cult perchè assolutamente divertente, avventuroso e commovente e perché proprio dalle sabbie e dalle strade marocchine Gabriele Salvatores comincia il suo famoso ciclo del viaggio che ci porterà nell’Italia minore di “Turnè,” nella Grecia da favola di “Mediterraneo” e nel Messico alternativo di “Puerto Escondido”.

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In Marrakech Express quattro amici che non si vedono da tempo partono alla ricerca del quinto, il leader di un gruppo che ha vissuto insieme le illusioni degli anni ’70. Credono di doverlo liberare da un carcere ai confini del deserto, in realtà scopriranno tutta la stranezza e la bellezza di una sua utopia. E noi scopriamo fin da subito con sapienti pennellate delle bellissime locations, una Barcellona notturna, il villaggio western abbandonato nei pressi di Almeria dove Sergio Leone girava i suoi film e soprattutto l’affascinante Marocco delle dune, delle oasi, delle kasbah e delle città imperiali.

l’affascinante Marocco delle dune, delle oasi, delle kasbah e delle città imperiali

Il film ricorda un po’ “Il Grande Freddo” e un po’ “Fandango” e per qualcuno un romanzo di Conrad visto che anche qui il viaggio o la riunione di amici è un pretesto per conoscersi, cambiare, crescere, innamorarsi o deludersi. Entra a pieno titolo in quel mucchietto di film che si rivedono con gli amici una sera d’inverno davanti a un camino o a una bottiglia di vino, perché fanno venire una grande voglia di viaggiare, con un bagaglio preparato al volo, un’auto scassata, un’aria precaria e verso delle mete che acquistano sotto pelle e nel cuore un significato quasi mitologico, siano essi il Sahara o Capo Nord. Probabilmente ognuno di noi ha dentro di sé un luogo così, puro e legato ai sogni, alla giovinezza o a quel tempo sospeso e magico che a volte capita di vivere nella vita e che corrisponde a una condizione di leggerezza assoluta dell’anima.

Il film del libero vagare

Il viaggio in “Marrakesh Express” è un viaggio agrodolce perché è anche la metafora di una stagione intensa ma breve, già destinata a finire perché il passato non torna mai. Ed è un viaggio che si compie sotto il nome delle intense emozioni permesse dal libero vagare, nella riscoperta del valore dell’amicizia, tra parentesi comiche e l’incontro con popolazioni “altre”, tra paesaggi naturali incredibili come l’Atlante e le dune del deserto e con musiche che sembrano nate solo per accompagnarli e per dare spazio anche a un tocco finale di surrealtà. Quelle musiche struggenti di “No More Blue” suonate dalla chitarra del compianto musicista romano Roberto Ciotti, uno degli esponenti migliori del blues italiano, innamorato del blues, fin dagli storici primi concerti al Big Mama di Testaccio.

Ed è un viaggio che si compie sotto il nome delle intense emozioni permesse dal libero vagare

La colonna sonora più bella per un viaggio

Per i film di Salvatores (“Marrakech Express” ma anche il successivo “Turnè”) Ciotti scrisse due indimenticabili colonne sonore e secondo il critico musicale Roberto Bianchi “Aveva creato una sorta di italian blues. Limpido, armonico, pulito. Piacevolissimo. Partiva sì dalle radici del blues e si abbeverava di continuo alle fonti della tradizione, ma si allontanava sia dal blues rurale del Delta del Mississipi come dal blues elettrico e urbano di Chicago. Il suo era un blues mediterraneo, solare, coi colori e i sapori del Sud e talora gli echi della melodia italiana. Il suono della sua chitarra era caldo e avvolgente, gli assoli rotondi, più lenti, d’atmosfera, che impetuosi. Più vicino a Pino Daniele, se proprio vogliamo fare un esempio, che ad Eric-manolenta Clapton”. D’altronde il blu in inglese è proprio il colore che richiama la malinconia, la nostalgia, la tristezza. Chiamare la title track di “Marrakech Express” “No More Blue” per Roberto Ciotti significò il rispetto assoluto di quella dimensione ma anche la voglia di provare un viaggio nuovo, con nuove contaminazioni.

E in ogni viaggio sulla strada varrebbe la pena ascoltare una musica così, fatelo anche voi se gradite:

Un salto nella letteratura: le voci di Canetti

Dopo un bellissimo film e un disco indimenticabile è l’ora di raccontare Marrakech con un libro. Fra le più belle pagine dedicate alla “città rossa” ci sono senz’altro quelle scritte ormai nel lontano 1954 da Elias Canetti che con “Le voci di Marrakech” ci ha lasciato un affresco che è diventato per tanti viaggiatori una piccola bibbia sensoriale ed etnografica del luogo.

Non esistono nomi, né insegne, e neppure vetrine. Tutto ciò che si vende è in esposizione

“C’è aroma nei suk, e freschezza, e varietà di colori. L’odore, che è sempre piacevole, cambia a poco a poco secondo la natura delle merci. Non esistono nomi, né insegne, e neppure vetrine. Tutto ciò che si vende è in esposizione. Non si mai quanto costeranno gli oggetti, né essi hanno infilzati i cartellini dei prezzi, né i prezzi sono fissi”. E’ proprio così, una volta che ci si perde tra i bazar delle pelli, dei tappeti, dei gioielli, delle spezie, delle anfore, ci si perde anche in una serie di trattative, astuzie, racconti, trucchi, imbrogli. Sceneggiate o grida in lingua berbera. Coi prezzi che cambiano al giorno, a ora, a umore, a cliente, a seconda se uno è americano o italiano, di Casablanca o di un villaggio impolverato, se appare ricco o povero, curioso o arrogante. I venditori hanno una abilità davvero esagerata a interpretare ogni occhiata, ogni espressione, ogni postura, ogni mano che tocca una cosa, come la tocca, per quanto la tocca. Sanno leggere benissimo il tuo desiderio e quasi sempre la cifra massima a cui vuoi o puoi arrivare. E in quel momento diventi consapevolmente loro prigioniero perché cominciano a tirare fuori con un classico colpo di teatro il thè alla menta o il narghilè, i nomi dei calciatori della tua squadra del cuore o due note strampalate di una nostra canzone. E tu esci dal suk di Marrakech, dall’esperienza del suk, carico di fagotti.

Canetti notava pure qualcosa di non banale, ovvero come quella gente esponesse orgogliosamente ogni suo bene nel suk e nascondesse invece quasi con diffidenza o per pudore tutto il resto, le umili case, i templi per pregare, i volti delle loro donne dietro le fitte grate: già in quei tempi erano evidenti le differenze delle nostre civiltà.

C’è aroma nei suk, e freschezza, e varietà di colori.

La piazza dove finisce ogni notte

Le voci di Marrakech” insieme ai profumi, ai suoni, ai sapori e ai colori trionfano nelle meravigliose notti della Piazza di Djema el Fna, la piazza-teatro, “un’enclave di vita antica e intatta”, la piazza dove la città esprime il suo folklore, la sua gastronomia, la sua arte berbera e la sua dirompente vitalità.

“Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza” – scriveva Canetti – circondato a ogni passo, come lo siamo noi oggi, da mangiafuoco o mangiaspade, da fachiri che incantano serpenti, danzatrici del ventre, torri d’arance, terrine di cous cous e tajine e spiedoni succulenti di carne. Ma “il seguito più vasto ce l’hanno i cantastorie” che con la loro gestualità e solennità che provengono direttamente dal mondo delle fiabe o da qualche sperduto villaggio affascinano tutti, anche gli stranieri che non conoscono certo i dialetti berberi: “uno come me sentiva fremere la vita nelle menti di coloro che ascoltavano”.

Dai racconti e dalle voci si passa in un attimo a osservare i bambini mendicanti che guardano coi lucciconi agli occhi i piatti lussuosi dei turisti nei ristoranti, oppure a riposare in lussuosi ryad o a fotografare le guglie dei minareti con le montagne dell’Atlante sullo sfondo.

È sempre Marrakech, è sempre il Marocco.

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