Quelli che non potevano non sapere, perché anche se internet non era ancora così diffuso, c’erano radio e televisioni e giornali. E la semplice curiosità di sapere se si era ingannati o meno, manipolati e usati, quella non doveva mancare, quella no, e mai. Quelli che in ogni caso non era così facile sapere, perché la prima cosa che i capi fecero fu di tagliare le linee telefoniche con la Croazia. E da un paese isolato è più difficile sapere e giudicare. E più facile sentirsi accerchiati e minacciati.

Quelli che erano una volta erano Jugoslavi e divennero poi solo Serbi, o glielo vollero far credere, perché erano in realtà ancora un formidabile e irripetibile miscuglio di tutto.
Quelli che ascoltarono un uomo di nome Slobodan e lo seguirono perché in un’occasione, in Kosovo, quando ancora non era il capo, dei poliziotti albanesi picchiarono dei serbi, e lui urlò “nessuno ha il diritto di picchiare i Serbi… nessuno lo potrà più fare”. Da allora divenne un eroe, fu considerato un duce e trascinò il paese nel baratro.
Quelli che usano ancora oggi una loro sconfitta contro i Turchi, 1389, Kosovo Polje, la battaglia del Campo dei Merli, come affermazione di un’identità per dire che loro, ortodossi, sono sempre stati la barriera contro l’invasore musulmano, il baluardo della vera fede. Una sconfitta cocente, neanche eroica, trasformata nella glorificazione celeste del popolo eletto. Quelli che ai loro eroi contro i Turchi dedicano i monumenti delle più grandi piazze cittadine. Quelli che al potere riesumarono un cadavere vecchio di seicento anni, quello del Principe Lazar, ucciso appunto dai Turchi, e decisero di portarlo in giro per la Serbia, in città e villaggi, suscitando isterie e ammirazione, e di usarlo per fomentare il nazionalismo. Come se fosse accaduto appena il giorno prima, come se sei secoli potessero passare in un istante.

Quelli che nelle campagne e nei monti credettero a una sceneggiata del genere, e si sentirono nuovamente accerchiati, tra cattolici e musulmani, eroici difensori del nulla, arroccati nelle proprie convinzioni arcaiche, nella mentalità arretrata e nell’arroganza timorosa tipica delle valli chiuse, mentre nelle città si respiravano il multiculturalismo e la tolleranza.
Quelli che l’inizio della guerra fu una partita di calcio tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa di Belgrado, come nella prima guerra del football, in America Centrale, tra Honduras ed El Salvador. Anche i giocatori parteciparono alla zuffa indegna, e Boban, croato, prese a calci un poliziotto serbo che rincorreva i suoi “connazionali”. E Arkan, ex galeotto e rapinatore di banche, futuro capo delle “Tigri”, iniziava a reclutare i futuri massacratori tra gli ultrà che lo seguivano ciecamente.

Quelli che subirono i macellai, Karadzic e Mladic, autori di stragi in Bosnia, capaci di ingannare anche i mediatori di pace, per poi dimenticarli in fretta, quando da difensori dell’etnia serba erano diventati scomodi autori di massacri, ormai impossibili da difendere.
Quelli che uno di loro era serbo di etnia eppure, smacco al concetto di pulizia etnica ed esaltazione della possibilità di convivenza civile, diventò il capo dell’Armata bosniaca a Sarajevo e si prese l’incarico di difendere la città durante l’assedio, perché era la sua città e lui, da serbo, non aveva mai avuto problemi a vivervi. Il suo nome era Divjak e più che all’atavico richiamo del sangue aveva ceduto all’amore per il luogo.
Quelli che non si accorsero della distruzione di Vukovar, dei bombardamenti su Sarajevo, dell’assedio di Goradze, dell’eccidio di Srebrenica, degli stupri di Foca, della sacca di Bihac, della serbizzazione di Visegrad e della valle della Drina, della guerra nelle Krajine, dei campi di prigionia, delle bombe e delle stragi che accadevano nel cortile di casa.
Quelli che sentivano così tanto l’importanza dell’essere serbi che al ritorno dei loro parenti sconfitti nelle Krajine croate voltarono la testa e li considerarono non eroi sconfitti ma feccia scomoda, da ignorare e nascondere.

Quelli che se un musulmano toccava una donna era uno stupro, grazie alla campagna orchestrata dai mass media.
Quelli che hanno un tassista che ha voglia di parlare e mi racconta che è nato a Mostar, nella zona musulmana, da padre croato e madre montenegrina, ma vive a Belgrado e si dichiara serbo, altrimenti la sua vita sarebbe impossibile. E mi dice che il ponte è stato ricostruito, che una via era il confine tra la zona croata e quella musulmana e che ancora oggi i palazzi sono crivellati da proiettili e che nonostante il ponte di Mostar sia stato ricostruito con tutte le pietre originali che è stato possibile ritrovare dopo il bombardamento nel letto del fiume, la pietra non ha più lo stesso colore, ha perso in magia, ed è stata una tragedia. E lui è praticamente un croato; e furono i croati a buttarlo giù.
Quelli che come guerra non ricordano quella di Bosnia, né quella di Croazia, dove eppure andarono a combattere, ma quella del Kosovo, perché allora sì, Belgrado, per la terza volta in ottant’anni fu bombardata e le bombe si sentono, lasciano il segno, non le dimentichi. Quelli che ebbero palazzi bombardati, ponti distrutti, che iniziarono a combattere contro il mondo, perché chi ha contro la NATO è il cattivo e non può vincere, e a pagare, sotto le bombe, è sempre il popolo, mai il dittatore populista.
Quelli di un paese distrutto, dove tutto mancava e l’iperinflazione galoppava, così come il mercato nero, e la benzina si vendeva in grossi contenitori ai lati della strada, e la mafia imperversava, così come le sparizioni e gli assassini politici.
Quelli che credettero alla propaganda, perché i giornali erano di Milosevic, la radio era di Milosevic, la televisione era di Milosevic, e il dissenso era praticamente inesistente.
Quelli che però da anni, la notte, sul Danubio, ascoltavano anche B92, l’unica voce del dissenso, una radio che mandava musica grunge che, chiusa e oscurata per quattro volte, iniziò a trasmettere via internet grazie a un provider olandese, e mobilitò le masse contro il dittatore populista, fino a farlo cadere.

Quelli che il libro “This is Serbia calling” narra degli anni in cui la Jugoslavia ancora esisteva ed era fiera di essere non allineata, perché i suoi giovani potevano viaggiare, ascoltare, pensare, conoscere. Quelli che Belgrado era un paradiso, quando Praga e Budapest erano abitate da gente pallida, impaurita e triste. Quelli che amarono questa specie di Radiofreccia dei Balcani, che lottò contro il potere e contro l’omologazione dell’informazione e che accompagnò Milosevic come una fastidiosa pulce nell’orecchio, dall’ascesa al potere fino alla sua caduta. Quelli che “Non fidatevi di nessuno. Neanche di noi” era il motto di Veran Matic e compagnia, ben consapevoli che una radio, anche se di opposizione, era uno strumento per plasmare le menti, mentre quel che si voleva era che i cervelli riprendessero a funzionare autonomamente, non che passassero da un predicatore all’altro.
Quelli che il 5 ottobre del 2000 trovarono il coraggio di scendere in piazza, in centinaia di migliaia, bruciarono la tv di regime ed occuparono il parlamento. Ci furono solo due morti, la polizia non reagì, scese a patti per non compiere un altro macello. Quelli che, finalmente, videro la fine del dittatore e all’immensa manifestazione che causò la sua caduta non partecipò solo l’organizzazione degli studenti ma anche la gente della provincia, spronata dalle trasmissioni di B92 e dalla montagna di soldi mandati dai paesi dell’Occidente.
Quelli che il loro capo fu forse ucciso in una cella dell’Aja, dove era rinchiuso da cinque anni in attesa di verdetto per crimini contro l’umanità, perché aveva troppi segreti scomodi da raccontare, e non li sapremo mai, anche se la versione ufficiale parlò di infarto. Quelli che al funerale di Milosevic erano comunque in cinquantamila.
Quelli che si sentivano liberi, ma neanche troppo, perché la via verso la democrazia era ardua e piena di ostacoli, con le televisioni fedeli alla dittatura che erano saltate sul carro dei vincitori, i gangster che continuavano a fare affari, il primo ministro che fu assassinato da un cecchino, così come Arkan, nella hall di un grand hotel della Belgrado dei grattacieli.
Quelli che alla fine furono catturati. Un mistero la loro latitanza, ma Karadzic e Mladic furono visti ovunque. Il primo sotto falso nome anche all’università, con una barba da Babbo Natale, a convegni su medicine alternative, l’altro addirittura allo stadio. Entrambi in Serbia, entrambi protetti per anni. Quelli per cui consegnare Mladic era un presupposto perché la Serbia potesse iniziare i negoziati per entrare nell’Unione Europea e lui fu catturato, guarda caso, dopo una latitanza di sedici anni, proprio nel giorno in cui un rappresentante dell’Unione Europea era in visita a Belgrado. Quelli che, come Mladic, sono sotto processo all’Aja. E quando si è trovato di fronte le “madri di Srebrenica”, ha sorriso e si è passato un dito sotto la gola.
Quelli che oggi hanno un presidente che, diciotto anni dopo Srebrenica, chiede scusa del crimine, ma ancora non riesce a pronunciare la parola genocidio. Quelli che ti chiedi sempre dove potessero essere negli anni del macello.

Quelli che da potenza regionale divennero un’isola circondata dai fiumi e dai monti, quando anche il Montenegro se ne andò, privandoli dell’accesso al mare.
Quelli che su un’isola dalla forma della Jugoslavia, alla deriva lungo il Danubio, se ne andavano, vivi e morti, alla fine di “Underground”, e ballavano e cantavano, come la gente sul Titanic, ignari che un paese aveva smesso di esistere.
Quelli che ora senza visto non vanno da nessuna parte.
Quelli che vivono a Belgrado, dove la Sava incontra il Danubio, e il loro abbraccio lo puoi vedere, parzialmente nascosto da un’isola fluviale, da una collina verde alle pendici della quale c’è lo zoo di “Underground” e in cima la fortezza turca, che fu conquistata e perduta decine di volte nel corso della storia. Oltre il fiume, non più il Turco, ma grattacieli modernissimi.


Quelli che vivono una capitale caotica, che alterna palazzi neoclassici asburgici a orrori dei tempi di Tito, e che amano passeggiare, cantare, ballare, bere, far casino, affollare le notti, renderle lunghissime, anelando a ovest e lasciandosi alle spalle l’est, eppure non sono né est, né ovest, semplicemente isola.
Quelli che sono nostalgici e che ti propinano teorie geopolitiche assurde, mentre ti offrono bicchieri di slivovitza, e pensano al profumo dei cevapcici, al sapore della loro carne, all’aroma dei loro barbecue, ascoltando fisarmoniche e violini zigani.
Quelli che ancora oggi non capiscono come sia stato possibile dividersi in sette, da uno che si era, e tutto si è moltiplicato all’improvviso. Anche la loro nazionale di basket, che era fortissima, genio e sregolatezza: e ora sono sette squadre forti, ma non più imbattibili.
Quelli che invece hanno capito, ma ancora non riescono a farsene una ragione, e pensano che nel passato Tito fosse un genio maledetto nel farli convivere, usasse o meno lager e terrore.
Quelli che invece sono contenti, orgogliosi, non tornerebbero indietro per nulla al mondo e il mondo lo vogliono conquistare con la loro arroganza giovanile, l’esuberanza dei loro venti anni, la bellezza dei loro occhi.
Quelli che non hanno mai avuto per modello Milosevic ma al massimo campioni Djokovic, Stankovic o Milinkovic Savic e che non affollano i raduni dei partiti corrotti ma i numerosi negozi sportivi del centro.
Quelli che il tassista dell’andata cerca di fregarti ma ormai sai come trattarli e te la cavi alla grande.
Quelli che il tassista del ritorno, quello di Mostar, ti dice che negli ultimi anni la situazione si è normalizzata, ma che in questi posti c’è un passato tale che una scintilla può diventare un incendio. Allo stesso tempo è convinto che la storia debba servire per non dimenticare e non per covare rancore, per imparare da essa come alcuni errori non debbano essere commessi di nuovo. Se tutti la pensassero come lui non saremmo un gran passo avanti e il futuro non sarebbe più roseo?

Quelli che ho conosciuto tra giri e convegni in Europa o vacanze nel mar Adriatico. Serbi, Serbi di Bosnia, Serbi del Montenegro, Bosgnacchi, Croati. Alcuni profughi, altri rifugiati, altri ancora costretti a combattere, perché in guerra non puoi fare altro. Altri figli di coppie miste, come ovunque si trovavano e si trovano ancora, a testimoniare che una pulizia etnica qui non sarà mai possibile e le chiese distrutte, così come le moschee, rispuntano come funghi. Anche a Belgrado c’è una moschea, così come a Zenica, centro di raccolta dei mujaheddin, trovi croci accanto a mezzelune.
Quelli che sono Serbi, non si vergognano di esserlo e sono orgogliosi e ostinati, aperti e solari, violenti e malinconici. Come le musiche zingare, volano in alto e si rattristano, alternano esaltazioni a scoraggiamenti. Sono pazze schegge dell’Europa di mezzo, e sono più Europa che mai, nonostante ora siano un’isola che tutti vorrebbero ignorare. Artefici di resistenza, creatori di storia, costruttori di miti, pittori di sogni, vittoriosi nella sconfitta.

Sono la nostra coscienza nera, il nostro lato oscuro, lo specchio che non vorremmo mai trovare, l’ospitalità più aperta o il tradimento più bieco. Quel che l’indifferenza di noi europei dell’ovest ha lasciato morire, non di consunzione ma di violenza. Quel che abbiamo volutamente ignorato, anche se era solo dall’altra parte del mare.
Non ci sono Commenti