L’aeroporto del dolore
Prima dell’atterraggio sorvolo le colline e i monti della Bosnia, da sempre cerniera e cuscinetto tra Oriente e Occidente, tra tradizione e modernità. Da sempre ponte, come il suo romanzo simbolo. Culla di culture diverse, eppure funzionale, è sempre stata soggetta nella sua travagliata storia, a giochi di potere e a repentini e ciclici scatti di violenza. Ha accolto i turchi, vi si è integrata, quindi è passata malvolentieri sotto gli Asburgo per diventare storico casus belli: proprio in quel di Sarajevo si accese la scintilla del primo conflitto mondiale.

Atterrando, ho subito un blocco in gola, perché l’aeroporto di Sarajevo è uno di quei posti che andava sempre sui telegiornali di anni fa: aperto, chiuso, circondato, liberato, bombardato, “protetto” dai Caschi Blu. Era il luogo più desiderato e irraggiungibile per quelli che volevano fuggire.
Occorreva fare uno slalom tra i cecchini per arrivarci e vincere le ritrosie dell’assurdo baraccone delle Nazioni Unite per non dover essere rispediti indietro nella città assediata. O attraversare la sua pista di notte, di nascosto: 400 persone vi morirono, crivellate dai cecchini.
E io invece vi atterro così, in un fiato, senza nessuno sforzo e impedimento. Col sole che brilla e l’aria fresca di aprile.
Alla sinistra la sagoma oscura del monte Igman, quello delle Olimpiadi Invernali del 1984 con le quali Sarajevo salì alla ribalta internazionale, quello che difesero strenuamente durante l’assedio. Alla destra, un cimitero, uno dei tanti. Croci bianche e recenti, appena accanto alla pista.
Che sensazione capitare in una città e vedere per prima cosa un cimitero…

Nel caldo afoso, umidissimo che mi accoglie, per fortuna la seconda immagine di Sarajevo è molto più bella, è quella di Ema, trentenne dal sorriso timido e dallo sguardo che ne ha viste parecchie.
E’ una ragazza di Sarajevo, dottoressa di medicina, presidentessa dell’associazione degli studenti medici. Ha un portamento naturale, emana dolcezza e personalità, mella stessa maniera. Mi farà da guida nella sua romantica e martoriata città. Ha girato mezzo mondo, è energica, ha voglia di fare, di crescere, di imparare.
Cicatrici
Se ne vedono ancora i segni. Li riconosco: sono gli stessi che vedi sui muri di Via Rasella a Roma. E’ pieno, dico pieno, di palazzi che ancora portano le cicatrici delle sventagliate di fucile mitragliatore.
Sono come invasi da brutti brufoli, visi scavati dall’acne, a chiazze. Alcuni sono stati ricoperti da calce, altri sono ancora lì, per indolenza, per mancanza di fondi, forse per non dover e voler dimenticare. Per ricordare, ogni santo giorno, quel che da queste parti è accaduto.
Andando in città ti rendi conto anche perché Sarajevo, al di là del significato politico (era il simbolo della convivenza multiculturale), sia stata assediata. E’ circondata da colline e monti e giace in fondo a una conca, facile da controllare, una volta occupate le alture e, purtroppo, da bombardare. Da qui l’umidità. Da qui l’assedio. Da dove non so, veramente non so, l’eroica e lunghissima resistenza degli abitanti. (“C’è un angelo che ogni tanto si posa perché ha pena di noi, di tutte le cose che ci sfuggono dalle mani, che non resteranno nei nostri occhi”. – da “Venuto al Mondo di M. Mazzantini)”

Serviva l’assedio, serviva il martirio?
Anche perché ti chiedi in continuazione, ogni volta che avvisti il minareto di una moschea accanto al campanile di una chiesa cattolica, ogni volta che vedi una donna in velo integrale accanto ad una in minigonna, ti chiedi a cosa sia servito, cosa abbia prodotto l’assedio se non lacrime e sofferenza.
In una terra dove oggi si è ricominciato a vivere come prima, tutti insieme.
Nonostante il peso cupo del passato.
Le enclavi
Sarajevo mi dà il benvenuto con un minareto trasparente, oltre le pareti del quasi si riesce a vedere la scala a chiocciola usata dal muezzin per salire in cima. Mi stupisce per il numero di cimiteri, con la loro moltitudine di croci e lapidi bianche che si concentrano nelle vicinanze del quartiere olimpico. Percorriamo il trafficatissimo lungofiume, attraversato da diversi ponti. Alla fine, quando la strada inizia a salire, appena prima della curva che porta verso il quartiere turco, un cartello blu: “Centro a sinistra; Goražde e Pale, diritto”.
Messi insieme, ad un incrocio. Gli assedianti e gli assediati.
Pale, il borgo sulle alture intorno di Sarajevo dove si trovava il governo dei serbo-bosniaci di Karadzic, che dettava i bombardamenti e le stragi. E Goražde, assieme a Sarajevo la più assediata, assieme a Sarajevo l’unica a resistere. Era un’enclave, come Foča, come Višegrad, come Srebrenica.
Sulle intelligentissime e aggiornatissime mappe etniche stilate periodicamente dagli alti gradi delle Nazioni Unite venivano delimitate le enclavi, ovvero le aree musulmane circondate dai serbi o dai croati. Perché intelligentissime? Perché legittimavano, di fatto, la pulizia etnica appena avvenuta nelle zone adiacenti, dove i Caschi Blu non potevano intervenire, a meno che non fossero aggrediti, e incentivavano gli assedianti a continuarla.
Che squallore, che tragedia, nel cuore di un territorio dove i matrimoni misti erano la prassi da secoli… dove nelle feste dei quartieri e dei paesi e dei villaggi sulle montagne nei banchetti e nelle danze si mischiavano i volti, i credi religiosi, i costumi, le lingue, le usanze di più etnie.
I ponti sul fiume e la parte turca

Avevo letto che perdersi a Sarajevo è impossibile. C’ è il fiume, ci sono i monti. Punti di riferimento solidi, non scappi. Avevo letto pure che non trovi una targa con il nome della via manco a pagarla. Inoltre che, se chiedi la strada a qualcuno, si fa in quattro per aiutarti, e probabilmente, per non deluderti, ti manda nella direzione sbagliata; oppure inizia un’assemblea di quartiere, al solo scopo di aiutarti.
Sarajevo è grande nell’anima ma piccola nelle dimensioni, visitabile davvero in poco tempo. E va vissuta con la gente del posto, senza dubbio. Posso tranquillamente affermare grazie alle parole e alle passeggiate con Ema che non ho mai visto una città del genere. E’ come più città in una e, se non stai attento, neanche riesci a cogliere dove cambia.
C’è un fiume, ed aiuta. E’ stretto, lo aspettavo molto più grande, poco profondo, attraversato da diversi ponti. Uno è quello latino, che ha fatto la storia, perché è lì che Gavrilo Princip uccise l’arciduca e la moglie. E’ lì che avvenne l’omicidio preso a pretesto per la Grande Guerra. E’ in pietra, con un brutto, successivo corrimano in ferro, ad arcate ogivali. Un altro ponte è in ferro, e viene chiamato, con poca fantasia, ponte Eiffel; altri ancora sono facilmente dimenticabili ed infine ce ne è uno che è un orrore architettonico moderno. Sarajevo si trova quasi tutta sulla riva destra, assediata dai monti.

Accanto al mio albergo sorge la Baščaršija, il vecchio mercato, la parte turca.
Alcuni caravanserragli ospitano ora ristorantini, un mercato accoglie un museo, il bagno turco è purtroppo in restauro, ma è la pietra a farla da padrona nell’architettura cittadina. Nelle vie parallele del mercato, ognuna originariamente dedicata ad un mestiere, nelle pareti di queste strutture ora adibite ad altre attività, nelle moschee, almeno due degne di nota. Una piccolina, circondata e quasi nascosta dalla vegetazione, nella piazza principale, dove troneggia una fontana in legno e pietra, sempre viva a ogni ora del giorno e della notte. La seconda si trova poco più in là, più grande e maestosa, però non invadente, inserita nel tessuto urbano.

Le botteghe che vendono utensili di rame risplendono al sole, quelle che ti sfamano invadono le strade con gli odori e i fumi della loro carne alla griglia.
Diverse persone siedono a bere pazientemente il loro caffè attorno a piccoli tavolini rotondi, usando gli stessi alambicchi di metallo che vendono nel suk. Poco oltre, passata la piazza con la cattedrale cattolica, una trentina di persone si accalcano accanto a una scacchiera gigantesca. In due giocano, e la partita è agli sgoccioli. Dalla mia superbia mi sembra di vedere una mossa vincente, ma figurati se sessanta occhi non ci hanno pensato – perché le mosse sbagliate le commentano urlando, mica stando zitti. E’ ovviamente l’altro, invece, a vincere e riceve una calorosa stretta di mano da molti degli avventori.
Eleganza asburgica
A questo punto, senza che me ne rendessi conto, Sarajevo da turca era diventata asburgica. Palazzi eleganti, come a Trieste, come a Vienna. Alcuni dei quali con i segni delle pallottole. Ma eleganti. Non più cupole, legno e mattoni, ma stucchi e fregi. Avevo varcato una linea invisibile oltre la quale, però, le vesti nere delle donne degli wahabiti erano ancora mischiate alle minigonne, e il velo non integrale delle musulmane non integraliste svelava incredibili occhi, verdi e profondi.

La via dei cecchini
Le vie principali corrono parallele al fiume, per rincontrarsi più a valle. Una è pedonale, e costituisce l’arteria commerciale sia del quartiere turco che di quello asburgico. Una seconda, poco più lontana rispetto al fiume, è percorsa dalle automobili e dai tram, a senso unico, in una circonvallazione che viene completata, in senso contrario, dal lungofiume della riva destra. “Razi Snejper” c’era scritto lungo questa strada ai tempi della guerra: “Attenzione Cecchini”. Era la via più pericolosa da percorrere…
I cecchini erano in agguato sui tetti e colpivano, indifferentemente, uomini e donne, bambini e anziani, musulmani e cristiani. Perché quel che li accomunava era l’essere cittadini di Sarajevo, che non avevano potuto, o voluto, andarsene. E che quindi erano lì a resistere.
Giravano teorie singolari. Del tipo “devi attraversare la strada con un’andatura media, non avere troppa fretta”. Dovevi scegliere l’andatura giusta e sperare. Se correvi troppo era una sfida alla bravura del cecchino. Se andavi troppo piano sembrava lo stessi prendendo in giro. Un’incredibile roulette russa. Quasi dodicimila persone morirono in più di tre anni di assedio, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Per l’esattezza 11.541, quante le sedie rosse messe in fila, sulla via dei cecchini che oggi è dedicata al Maresciallo Tito, in occasione dell’anniversario dell’inizio dell’assedio.
Come una lunga striscia di sangue nel centro dell’Europa.
E tu, Europa, freddo palazzo dove eri? Mentre si buttavano innocenti nelle fosse comuni voi impacciati e in sensibili burocrati che fine avevate fatto?
La resistenza
Nel frattempo la città resisteva. E non era una resistenza di etnia, lo facevano tutti insieme, come insieme erano abituati a convivere da anni: serbi, croati, ebrei, musulmani. Uno dei comandanti dell’esercito bosniaco, Jovan Divjak, era serbo, ma lottava per la sua città. La gente continuava a comportarsi normalmente per non farsi condizionare, le donne mettevano il rossetto, partecipavano a concorsi di bellezza, c’era sempre a brillare, anche nella notte più nera, la stella di una Miss Sarajevo. Si ascoltava musica rock negli scantinati, si beveva grappa, si ballava in gruppo la musica gitana, quasi a scacciare ogni incubo. Scene riviste nel film che raggiunge le vette della drammaticità e della tenerezza quello di Sergio Castellitto, “Venuto al Mondo”, tratto dall’intenso romanzo di sua moglie Margaret Mazzantini e interpretato forse dalla migliore Penelope Cruz di sempre e da Emile Hirsh, lo scapigliato ragazzo americano che rivedremo in “Into the Wild”:

Insomma la vita di tutti i giorni a Sarajevo colpita dai cecchini e dalle granate continuava anche se, ogni giorno, a causa dell’assedio, morivano dieci persone. Con quel boia di Mladic che delirava: “I musulmani sono il nemico comune nostro e dei croati, dobbiamo cacciarli in un angolo dal quale non possano più muoversi” (frase emersa dai suoi diari).
Oltre le croci

Io oggi cammino tranquillamente in questa tragica Sniper Alley, guardando le vetrine, gustando un gelato con Ema, nel punto in cui si riunisce con la strada perdonale, dove sorge un memoriale ai caduti della seconda guerra mondiale. Arrivo in un bel mercato, semplice e colorato, lungo la strada dei cecchini. Ci sono bellissimi cestini di frutti di bosco, more e lamponi, fette di anguria, ortaggi, frutta, tanta gente rumorosa, quasi una pausa naturalistica e spensierata in un vecchio e drammatico teatro di guerra. Ne esco un po’ risollevato, quando mi assale un dubbio e torno indietro.
Trovo una lapide che non riesco a decifrare, ma parla da sola. E’ circondata dai 68 nomi, posti su sfondo rosso alle sue spalle e protetti da un vetro. Ai piedi della lapide una teca di vetro, frammentata, che lascia intravedere qualcosa, forse buchi lasciati dai proiettili. E’ “quel” mercato. Si chiama Markale e fu bombardato due volte. Il 5 febbraio 1994 ci furono 68 vittime e 197 feriti tra la gente in coda per l’acquisto di cibo. Motivo? Uno sgarbo fatto a Karadzic.
L’aeroporto di Sarajevo, contro gli accordi, era stato usato senza permesso per far atterrare due primi ministri, pakistano e turco, donne compiacenti con i musulmani, che fecero discorsi di solidarietà, invocando interventi aerei e l’abolizione dell’embargo delle armi, perché i loro correligionari “potessero almeno difendersi”.
Il bombardamento fu la risposta di Karadzic.
Più avanti vorrei trovare altre bancarelle coi frutti di bosco, i funghi giganti, le pentole di rame o i merletti lavorati ma mi imbatto in un parco pieno di croci bianche, e le date sono sempre 1992, 1993, 1994 e 1995. Basta, sta diventando una via crucis: questa città merita di più.
Vivere

Non bisogna dimenticare quel che è accaduto, mai, ma deve anche essere apprezzata per quel che è ora: una splendida città, viva, colorata e vivace. Piena di nuovi fermenti culturali, di gruppi musicali e di Caffè. E dagli alberi giovani, perché in tempo di guerra, furono tutti tagliati per sopravvivere all’inverno.
Manca una nota a questo breve diario, quella sulla gastronomia bosniaca: facile da descrivere.
Ceno mangiando delle specialità: si inizia (!!) con la solita grappa alle prugne, poi un brodino con carne e vegetali, degli involtini di riso in foglie di cavolo e poi le salsiccette locali, i cevapcici, e carne, carne e ancora carne in tutte le salse. Digerisco camminando per i vicoli del centro, dove i negozi stanno chiudendo i battenti e della loro presenza rimangono solo i finestroni di legno, sporgenti sulla strada.
I minareti sono illuminati, i ristorantini pieni, la piazza principale della città vecchia è un gioiello affascinante. E puoi solo innamorartene. Come della ragazza cantata dolcemente da Bono Vox degli U2 in un indimenticabile duetto con Luciano Pavarotti (vedi link di you tube a fine articolo, nella versione live e in quella documentario).
Goodbye Sarajevo
“Grazie Ema di avermi fatto conoscere questa città… posso farti solo un’ultima domanda?
Che bambina eri in quei giorni, e come ti sentivi?”
“Benissimo. Ero troppo contenta di essere viva”.

Miss Sarajevo
C’è un tempo per mantenerti distante, un tempo per guardare altrove
c’è un tempo per tener giù la testa, per proseguire la tua giornata
c’è un tempo per la matita per gli occhi ed il rossetto, un tempo per tagliare i capelli
c’è un tempo per le compere nella via principale, per trovare il vestito giusto da indossare
eccola, le teste si voltano per guardarla… eccola, viene a prendere la sua corona
c’è un tempo per correre al riparo, c’è un tempo per baciare e dirlo in giro
c’è un tempo per colori diversi, diversi nomi che trovi difficili da pronunciare
c’è un tempo per la prima comunione, un tempo per gli East 17
c’è un tempo per voltarsi verso la Mecca, c’è un tempo per essere una regina di bellezza
eccola, la bellezza gioca a fare il clown
eccola, surreale con la sua corona
dici che il fiume, trova la via al mare e come il fiume, giungerai a me
oltre i confini, e le terre assetate dici che come fiume, come fiume…
l’amore giunger l’amore…
e non so più pregare, e nell’amore non so più speraree quell’amore non so più aspettare
c’è un tempo per fare nastri, un tempo per gli alberi di Natale
c’è un tempo per apparecchiare le tavole quando la notte è bloccata dal gelo
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