Notte Rossa
Con l’albergo siamo accanto ad Arbat, la zona chic, un’isola pedonale lunga e luccicante, dai prezzi artificialmente gonfiati dall’inizio della Perestrojka in avanti. E’ dove mangia la Mosca-bene e dove i souvenir costano il quadruplo. Ristoranti, teatri, caffè, pittori di strada abilissimi, luci, suoni e casinò, macchinoni: una prima faccia di Mosca, quella da mostrare con i fiocchi al vestito, un bel biglietto da visita della nuova Russia dei ricchi.
Piazza Rossa di notte. Uno spettacolo. Ancora più bella. Ancora più lunga dei suoi 700 metri.

La chiesa di San Basilio, simbolo artistico e culturale della Mosca del XVI secolo, è totalmente illuminata, uno scenario da fiaba, da Alice nel paese delle meraviglie, per quanto è anomala. Potrebbero sbucare funghi parlanti, stregatti e cappellai matti.
Il gigantesco magazzino Gum è pieno di luminarie che ne definiscono il profilo, sembra parte dello stesso paese dei balocchi.
Delle strisce per terra rovinano il pavimento della piazza. Possibile non siano capaci di fare una sfilata militare di quelle a cui tengono tanto senza segni sull’asfalto? Possibile che le dittature perseguano sempre sogni geometrici e perfezione nella forma? Hanno dominato tutto, anche le menti del loro paese, anche il tempo, bombardano il cielo chimicamente per far piovere e nevicare in anticipo e garantirsi bel tempo durante le sfilate e non riescono ad andare diritti?
Torniamo a casa dopo aver bevuto birra, mangiato sushi, passeggiato tra strade immense e grattacieli alti quanto il cielo. Inciampiamo in umanità disperata, in un uomo che urina da seduto su una panchina per strada, in poveri venditori ambulanti ricoperti con cappotti da gulag che smerciano le loro conserve agricole e che vengono probabilmente dalle steppe gelate, dalle campagne infinite, ma anche in una gioventù che ha molta voglia di divertirsi. Qui senza l’alcool non si fa. Sono accalcati in un sotterraneo dove, abitualmente, e anche questa sera, si esibiscono gruppi che fanno rock tosto. Minigonne e tacchi, tatuaggi e muscoli. Si ascolta e si beve.
Il silenzio di Lenin

Un viaggio sotto la sua stella. Mi alzo presto, grigio e freddo, non importa. Voglio incontrare il Signor Vladimir. Arrivo alla piazza Rossa in venti minuti. Percorrendo strade ampie e vuote. E’ domenica. C’è poca gente in giro, ma tanta in piazza. Accanto all’entrata del Cremlino c’è una fiamma inestinguibile, due soldati di guardia, un monumento brutto quanto intenso all’Armata Rossa. Poi, in fila, lungo il viale, una serie di parallelepipedi di marmo sui quali, in cirillico, sono incisi i nomi delle città che, nel tempo, mostrarono eroismo. Con fatica decifro i nomi di Leningrado, Stalingrado, Odessa, Murmansk, Smolensk, Kiev, Minsk. Non importa se alcune non sono più russe. Qui si celebra ciò che fecero per l’Unione Sovietica, ciò che non può essere dimenticato. Sopra, garofani rossi, in memoria.
Per andare da Lenin c’è una lunga fila, che però scorre veloce, capirò poi perché. Si deposita la macchina fotografica lasciando un obolo e si entra, dopo quindici minuti di attesa, nel cubo tetro della sua tomba. La moglie aveva pregato le autorità che fosse seppellito a San Pietroburgo, che non fossero innalzati monumenti in suo onore, né che si facessero cerimonie in pompa magna. Rimase inascoltata.
Prima di iniziare a coltivare il suo culto della personalità, Stalin aveva bisogno di un eroe. Così Lenin fu mummificato, con ritrovati chimici del tempo. Si mormora che si debba lavarlo ogni giorno per non far apparire macchie sulla pelle, che debba essere ritrattato chimicamente ogni tot mesi. Misteri, ancora oggi. Quel che è certo è che, non appena morì, un’equipe di medici tirò fuori il cervello, lo tagliò a fettine, e lo studiò per quarant’anni. Bel modo di rispettare il padre della patria. Come è certo che mentre Hitler entrava a Mosca fu portato via in fretta e furia verso la Siberia, si coprì di muffa, qualcuno tentò di lavarlo con acqua calda e lo ricoprì di macchie orrende. E’ uno dei tanti motivi per cui si dice che è una statua di cera quella che si può visitare per un periodo di tre ore, solo in qualche giorno della settimana. D’altronde è stata anche oggetto di due attacchi di vandalismo: dopo di essi fu protetta da un vetro antiproiettile che neanche due bombe riuscirono a scalfire. Morirono, in tutte e due le occasioni, i bombaroli e gli sfortunati visitatori presenti, mentre la salma rimase intatta.
Prima di entrare ci sono, sulle mura del Cremlino che Terzani definiva rosso sangue, e si chiedeva perché sia il Cremlino che la Città Proibita a Pechino dovessero avere le mura dello stesso colore, una serie di volti in bronzo. Sono le grandi personalità, che tanto hanno dato alla Russia, non solo statisti. Cechov, Gagarin, da qualche parte John Reed, l’americano comunista dei “Dieci giorni che sconvolsero il mondo”. Lo cerco, ma non lo trovo. Anche perché ho fretta di entrare, e perché ancora non so che non potrò tornare indietro. Seguire la linea, non deviare dagli itinerari prestabiliti. Anche qui, più di altrove, regna la logica sovietica.
Tre rampe di scale, tre angoli retti, ad ogni angolo un soldato in alta uniforme, giovane ed immobile. Gli spagnoli davanti a me chiacchierano e uno sshhh imperioso echeggia. Il soldato che gli ha azzittiti sembra marziale, ma poi li guarda, ed inizia a ridere. Forse per lui ormai è un gioco, uno sconfiggere la noia dell’immobilità. Entri nella penombra, e Lenin è lì.
Si vedono illuminati solo il viso, con pizzo e barbetta posticcia di color rossastro, e le mani. Sembra lievitare. L’uomo che ha cambiato la storia del Novecento è piccolo, sembra veramente una statua. Mi vorrei fermare a guardarlo di più, non si può. Esco, sempre lentamente e, omaggiando Terzani, mormoro anche io “Buonanotte Signor Lenin” – ma non sogghigno.
Penso, invece. Penso che è morto troppo presto e questo ne ha fatto un mito perché ha lasciato in sospeso su di lui un giudizio storico che sugli altri capi rivoluzionari, Stalin in testa, è caduto come una mannaia. Che strada avrebbe intrapreso? Sarebbe stato tutto diverso? Non sarebbe cambiato nulla? I primi campi di concentramento dicono siano stati aperti da lui ma, lontano dal giustificarlo, posso comprenderne la ragione, in un periodo di emergenza nazionale, appena fatta la rivoluzione, in cui lottava con le armate bianche e col primo blocco economico della storia imposto dagli stati europei nemici. Stalin non aveva, invece, nessuna urgenza di questo tipo. Li eresse a sistema, a norma. Niet parlare!

Mi spingo a dire che la scienza della politica di Lenin teoricamente era perfetta, talmente perfetta da essere utopistica, irraggiungibile, predicando l’uguaglianza sociale e la sicurezza economica. Quella che all’atto pratico si rivelò un disastro. Quella che sulla carta era un sogno e che i suoi realizzatori trasformarono in un incubo. Penso che appena di fronte al mausoleo c’è il Gum, l’enorme palazzo dei magazzini del popolo, nato con vetrine vuote e squallidi uffici pieni di scartoffie, ed ora diventato la massima espressione della Russia dei nuovi ricchi e del capitalismo tutto luci. Un altro incubo, il suo incubo, proprio di fronte alla sua tomba. Lasciatelo riposare in pace.
Le visite sono davvero lampo, non si può sostare. Esco dal mausoleo in fretta, con tutti questi pensieri in testa e mi scontro con un’altra serie di tombe, bronzo e marmo. Quattro garofani rossi su quella di Andropov, di Cernenko, di Zukov, l’eroe di Staingrado, oggi chiamata Volgograd. Ben dodici garofani sulle ceneri di Stalin. Lo stanno rivalutando… Unico pregio: aver respinto Hitler. Ma più che al suo pugno di ferro deve quel successo al Generale Inverno e alla prova di sacrificio di un popolo che come pochi altri, nel tempo, è stato capace di sopportare e soffrire.
Oggi iniziano a dire che non era poi così male. Ma le sue statue ormai sono abbattute, resistono solo a Gori, in Georgia, suo paese natale. Stalin che era georgiano ma si dice avesse origini ossete, pieno Caucaso. Dove il nemico della valle accanto si stermina. Applicò lo stesso metodo in politica, con spietatezza. Non c’è Trotski, il grande assente, riposa a Città del Messico, già ho visto anni fa il giardino silenzioso e verde dove fu raggiunto e ucciso dalla vendetta caucasica. Fu il trionfo del burbero asiatico sul fine intellettuale che guardava all’Europa.
Sono di nuovo nella Piazza Rossa, dove incontro nostalgici che sfilano con gli stendardi del regime, e sono pieno di “se” e “allora”. Cosa sarebbe accaduto “se”…? Penso anche a Gorbaciov. Ce l’avrebbe fatta a creare una Russia più bilanciata, invece che questo sfacelo, che questa modernità piuttosto arrogante e cafona, se non fosse stato spodestato nel 1991? Che coraggio che ha avuto quell’uomo. Se, allora, chissà… Non parlare. Il nemico ti ascolta!
Quel che resta di Mosca
Le tante facce di Mosca. Quella storica della Piazza Rossa. Quella dei palazzi di periferia. Quella dei mafiosi, quella delle disuguaglianze sociali e degli operai edili che dormono accanto al cantiere in container nei quali si deve gelare o soffocare. Quella dei colori di San Basilio, che dentro ti aspetti un ambiente spazioso ed invece è un labirinto di cappelle, di stanzette, totalmente affrescate, dove ti perdi e non puoi che rimanere incantato dalla sua originalità. Quella monumentale e potente del Cremlino, nucleo originario della città, protetto da 20 torri e da più di 2.000 metri di muraglie.
Il suo nome proviene da due parole russe e significa “altura, rocca”, e ben si addice al luogo che è sempre stato la residenza dei principi, degli zar e delle autorità politiche e religiose della Russia.

Fila, di nuovo, ovvio. Poco tempo per vedere tutto. Arrivo durante una parata militare in cui regna sovrano un faticosissimo passo dell’oca. Visito rapidamente le chiese della città proibita, meriterebbero ore, ognuna di loro. Non c’è un centimetro di parete libero, affreschi e icone coloratissime ovunque. Chiese freddissime ma di una ricchezza impressionante, di un bianco polare, sormontate da numerose cupole a cipolla dorate e da un cielo sempre più plumbeo. Sono quelle dell’Arcangelo, dell’Annunciazione, dell’Assunzione dei Dodici Apostoli, della Deposizione della Veste di Maria. Poi ecco l’Arsenale, il Palazzo dei Piaceri, la Torre Borovickaja che con la sua stella rossa di rubino sintetico risplende di notte sulla Piazza Rossa. Il campanile di Ivan il Grande, il cannone più grande del mondo, la campana più grande del mondo, qui tutto è il più grande.
Dopo un abbondante pranzo russo andiamo a un mercato tipico pieno di pioggia, di nuovo torri di matrioske, uova colorate, scatoline dipinte a mano, colbacchi, finte e vere icone, vestiti militari, stelle, falci e martello, odore di spiedini. Segue un parco monumentale delle dimensioni colossali costruito per celebrare i traguardi raggiunti dall’Unione Sovietica e la pace e l’armonia tra le sue repubbliche. Sappiamo ottenuta a prezzo di cosa. Statue di eroi, di operai, di contadini che sembrano felici durante il raccolto, trasportano fasci di spighe pesantissimi mostrando i muscoli, in pose trionfalistiche. Padiglioni celebrativi ormai abbandonati alla loro solitudine in cui, invece di mostrare le grandezze dell’impero, si vende paccottiglia cinese. Aerei, razzi, monumenti agli astronauti, fontane vuote di acqua e piene di cartacce e lattine. La decadenza di un impero, il suo cambiamento irreversibile.

A piedi continuiamo a scoprire gli orrori dell’architettura costruttivista ancora in piedi, ovunque, in centro, in periferia, con mille occhi che ti guardano. Il modernismo delle nuove torri. Le chiese ortodosse più delicate.

Il grande complesso sportivo di Luzniki, sede delle Olimpiadi del 1980. Il Gorki Park coi ragazzi che giocano sotto la grande ruota panoramica, gli innamorati che vanno in barca sul laghetto e gli scacchisti che si sfidano. Il giardino dove Bulgakov ha fatto apparire per la prima volta il diavolo ne “Il Maestro e Margherita”. Niente di che, due panchine, un laghetto e giovani che chiacchierano e bevono.
L’ultimo giorno resta il tempo per visitare un monastero, sito Unesco in città ridotto piuttosto maluccio.

Anche qui mura rosse e cupole dorate. E’ adiacente a un cimitero dove riposano i coniugi Gorbaciov e la moglie di Stalin, la cui tomba è protetta da una teca antiproiettile, perché non si sa mai. Facciamo una lunga camminata verso la più bella delle sette sorelle, l’Università. E’ bella da far paura, nel senso che mette paura. Sembra abbracciarti tra le sue spire, e la stella a cinque punte in cima alla torre più alta sembra l’occhio del Signore degli Anelli. Dal panorama lì accanto si scorgono le altre sei, dominano nettamente la skyline moscovita.
Palazzoni, nevischio, i primi colbacchi tirati fuori dagli armadi per affrontarlo, fiati che fumano, gente normale che cammina per i vialoni o che entra nei supermercati a fare la spesa. Modelle che si svegliano tardi, scapigliate. Qualche italiano come sempre a caccia. Le prime luminarie che annunciano il Natale.
Sul volo di ritorno rifletto su una Mosca e su una Russia dal passato glorioso e pieno di storia, terrore e sofferenza, dal presente squallido, russofono e sciovinista, dal futuro incerto, buio e pericoloso. La faccia gelida di Putin immortalata su molti cartelloni e giornali a senso unico doveva dare ancora il peggio di sé.
Ciao vecchio orso russo.


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