Tirana oggi

Molti dei suoi avvenimenti passati aiutano a capire perché Tirana sia così oggi. Gli aiuti economici negli anni fascisti e la fornitura di infrastrutture basilari per quella che sarebbe dovuta diventare una colonia dell’impero ne hanno determinato radicalmente l’impianto urbanistico.
Arrivi a piazza Skanderberg, dove una volta si trovava il piedistallo con la statua di Hoxha, e sei al cospetto dell’eroe nazionale. Colui che fu rapito da bambino e costretto a vivere tra i turchi, diventò un generale dell’esercito, disertò al momento opportuno, guidando la resistenza albanese contro l’impero ottomano, allora (siamo nel 1400) al massimo del suo splendore. Oggi è lui quello rappresentato sulla statua a cavallo, in mezzo a una piazza enorme, dove si trovano anche il museo nazionale e una moschea che l’eroe della resistenza è costretto a guardare.
Dalla piazza parte quella che un tempo era chiamata Via dell’Impero, larga e lunghissima, almeno un paio di chilometri. Ai due lati si alternano edifici di stampo fascista come nella città pontina di Sabaudia (vedi la residenza del premier) ed altri di stile razionalista tipo Roma Eur (vedi il Parlamento), entrambi eredi dei tempi di Hoxha. Quest’ultimo è un parallelepipedo bianco, che non lascia spazio a nessuna fantasia. Capisco che è di tipo sovietico solo dai bassorilievi, simili a quelli di Minsk: una fila di soldati, una di operai con i picconi, una di contadini con le falci.
Poco prima dei palazzi del potere, non appena passato un ruscello canalizzato che qualcuno osa chiamare fiume, c’è l’edificio più assurdo di tutta Tirana.
Sulla sinistra spunta una piramide enorme, in vetro e cemento bianco, da cui spuntano – indovinate un po’ – due ali d’aquila. E’ il mausoleo che la figlia architetto aveva dedicato a Hoxha poco dopo la sua morte, nel 1988. Oggi l’edificio è orrendo, abbandonato a sè stesso, sporco, pieno di scritte. Ospita un centro congressi, una sala da ballo e, all’esterno, con le sue rampe di cemento, funziona come una specie di scivolo magico per i bambini e un paradiso per gli amanti delle pericolose evoluzioni da fare in skateboard.
Dove c’era il grigio e la paura almeno prova a prendere il loro posto l’allegria.

Poco oltre, dopo il teatro e un altro paio di palazzoni, si arriva alla fine del boulevard, a Piazza Madre Teresa. Lei, albanese nata nell’attuale territorio macedone, è lì, in bronzo, piccola e curva, circondata da altri orrori razionalisti. La torre del fascio, in mattoni, in fondo, un palazzaccio a destra e, a sinistra, un colonnato che sembra l’ingresso dell’Università romana La Sapienza. Appena oltre, lo stadio, progettato ed eseguito da un architetto fascista, dove l’AS Roma si è presa per la sua prima edizione una coppetta ridicola.
Il sogno di un pittore visionario
La via dell’impero è una strada ampia e ariosa, circondata da palme e pini mediterranei, la vera spina dorsale di Tirana. L’altra è costituita, a mio parere, dalle vie ai due lati del fiumiciattolo.
Non appena l’Albania conquistò la democrazia, il cambiamento fu inteso dai più, dopo cinquant’anni di oppressione, come libertà di poter fare qualunque cosa si volesse. Il risultato fu un’immigrazione dal Nord senza precedenti. Il visto interno non serviva più, muoversi era lecito, Tirana era l’anticamera del paradiso, dell’Occidente. Fu un’anarchia edilizia e costruzioni, abusive e orrende, anche di otto piani, erette ovunque, anche lungo il fiume, che divenne rapidamente una fogna a cielo aperto. Negli anni moderni un sindaco pazzo e sognatore di nome Edi Rama (l’odierno primo ministro), nominato dall’ONU miglior sindaco del mondo (??), ha deciso di far piazza pulita. Ha fatto demolire migliaia di abitazioni in città, almeno cinquecento lungo il fiume, restituito alla città diverse zone verdi e coronato un suo sogno folle. Ha preso colori e tavolozza e ha trasformato la città. Quel che non si poteva demolire è stato colorato a tinte forti e surrealiste dagli studenti degli istituti d’arte, cosicché sembra, a ogni angolo, di vedere una città diversa, vivace ed allegra, resa tale da un miscuglio mai visto di colori e di tessere di mosaico policrome. Beh almeno è stata una uscita coraggiosa dal buio di decenni! L’arte fino ad allora relegata solo nelle chiesette ortodosse ha sprigionato tutta la sua forza nella capitale.

In giro per Tirana si notano poi migliaia di cavi elettrici e telefonici, infiniti condizionatori, rumorosi generatori di corrente elettrica privati e antenne paraboliche. Tutto intrecciato, attorcigliato intorno ai lampioni stradali, scene che sembra di stare in India, scene che raccontano di un progresso veloce ma sicuramente caotico e casuale.
C’è spazio anche per grattacieli in vetro modernissimi – Tirana ha le sue Torri Gemelle – che coesistono con case basse in mattoni e con bellissimi cortili mediterranei, pieni di palme e pini, aranci e mandarini. Anche in questi palazzoni c’è la mano del sindaco creativo.
Le chiese convivono con le moschee. Non molti chador sui volti delle donne, anzi. Si beve ovunque, dalla birra al fortissimo Raki. Le ragazze si divertono nei locali come i loro coetanei. Siamo quindi in un paese formalmente musulmano, almeno in maggioranza, ma sostanzialmente ateo e senza troppi obblighi o furori religiosi. E con una grande voglia di vivere addosso.

Pregiudizi interni
Nella parte settentrionale del paese c’è molta più povertà rispetto all’asse Durazzo-Tirana-Valona, più orientata verso il mare e, quindi, aperta agli scambi. Almeno a sentire i giovani di Tirana la gente del Nord è meno colta, più rozza e contadina, attaccata ad economie tradizionali e a una concezione patriarcale della famiglia che accetta la vendetta tra clan, la violenza e il maltrattamento di mogli e figli. Non la chiamano neanche violenza, ma educazione. Porta il nome di Kanun. E’ il codice d’onore dell’Albania montanara, una raccolta di norme consuetudinarie (ben 1262 articoli, trascritti nel 1913) che ha permesso all’Albania profonda di trasmettersi uguale nei secoli. Giustifica la vendetta di sangue, clan contro clan. E “vendicarsi”, in Albanese, si dice “prendere il sangue”.
Tra le aspre montagne del Nord in molti, racconta Fernando Gentilini in “Infiniti Balcani” si chiudono in casa, si “inchiodano” per sfuggire alle vendette di sangue: i bambini non vanno a scuola, gli adulti non escono a fare la spesa. Perché la vendetta è giustificata, ma non può accadere all’interno delle mura domestiche, che sono sacre e inviolabili. In realtà oggi, da quando c’è stata la grossa migrazione interna dal nord, questo sistema di valori è arrivato anche nella capitale. E tutti sanno quali sono le case dei murati vivi e perché. Capita anche che, se una famiglia resta priva di uomini, la donna, dedita solitamente all’educazione della prole e al rispetto totale della volontà del marito, si può volontariamente trasformare in uomo, vestendo abiti maschili, rinunciando ai figli, alle relazioni sessuali, e portare avanti la faida. Lei diventa la burrnesh, la maschia. Leggo che chi richiede perdono deve sottoporsi a un atto rischiosissimo, ovvero presentarsi con un bambino piccolo di fronte alla casa dell’offeso. Questo ha due possibilità: o sparare al bambino o perdonare. E allora potranno cenare insieme, senza parlare più del passato. A volte funziona. Per “reati minori”, invece, il colpevole deve presentarsi in chiesa, davanti a tutti, con una pietra tra capo e collo. Mi percorre qualche brivido a leggere queste pagine…

Il Kanun fu abolito da Hoxha, che lo punì con pene severissime, che prevedevano per i vendicatori anche l’essere sepolti vivi, e rispuntò dopo la fine del comunismo. Assomiglia alle vendette mafiose italiane, alla disamistade sarda, al comportamento dei montanari del Caucaso. La famiglia e i legami di sangue sostituiscono uno Stato che non si riconosce come tale. E mi chiedo: quanta importanza ha il ruolo della geografia, l’isolamento delle valli chiuse e delle montagne, in tutto questo? E ragiono: forse i problemi e i crimini nel paese sono aumentati quando tanti disperati se ne sono andati a cercare fortuna sulle navi e nelle città sono arrivati questi immigrati interni coi loro codici di “giustizia” primordiali?
Scorci albanesi
Mi piace quasi di più vedere Tirana al buio perché l’effetto è paradossale. I palazzi sporchi che di giorno sono bruttissimi, geometrici e cadenti, di sera si trasformano. Con le luminarie a ingentilirne le forme e gli spigoli, ad addolcirne una bruttezza che di giorno è inguardabile. In un ristorante assaggiamo una dozzina di antipasti dal sapore greco e turco, seguiti da una saporita carne di agnello innaffiata da un ottimo rosso.
Mi inoltro per le viuzze del Blokl, il quartiere dove un tempo vivevano i politici ed era come una città proibita inaccessibile. Ancora adesso in parte è così: infatti, ogni tanto, con gesti educati ma decisi mi chiedono di non fare foto a palazzi che niente hanno di ufficiale o mi costringono ad attraversare la strada, usando il marciapiede di fronte. Ma per il resto è il quartiere della movida, dove hanno aperto centinaia di locali, occidentali e non, e dove scopro, alla dolcissima temperatura invernale di venti gradi, il gusto albanese di sedersi e prendere un caffè, di fermarsi per strada, in capannelli, a chiacchierare. Sa molto, veramente molto di Medio Oriente. Ma c’è voglia d’Europa nelle vie del Blokl. Attorno ci sono tanti bar, tanta vita sociale. Pini, pioppi spogli, palme. Ma anche un po’ di degrado urbano, buche sui marciapiedi, venditori ambulanti di pacchetti di sigarette, di libri usati, di palloncini.
Una giornata a Durazzo

Per arrivarvi affrontiamo un ingorgo di dimensioni colossali, disordinato come quelli indiani e con gli albanesi che tendono a suonare il clacson alla napoletana, mentre osserviamo, dai finestrini delle jeep, case colorate nelle maniere più strane, milioni di buste di plastica lungo l’autostrada e il profilo delle montagne, a oriente. Durazzo non è lontana ma fa buio presto e della città sul mare vedremo solo le mura diroccate, l’anfiteatro romano più grande dei Balcani, un panorama di luci mentre sorseggiamo una birra. Sentiremo però l’odore delle alghe e il rumore delle onde dell’Adriatico durante una passeggiata sul lungomare, caldo e ventoso, che d’estate si anima di migliaia di sedie. Le case e i ristoranti più importanti di Durazzo hanno la terrazza sul mare, mangiamo un piatto eccezionale di scampi, gamberi e datteri crudi. Poi delle linguine ai frutti di mare che sembra di stare a Bari.
Il giorno dopo decidiamo di chiudere il viaggio albanese percorrendo la litoranea fino a Saranda. Sappiamo che più a nord, al confine col Montenegro, ci sono le morbide dune di sabbia di Velipoja, sappiamo pure che ci perdiamo le falesie rocciose di Capo Rodoni ma decidiamo di privilegiare il mare albanese procedendo verso sud. Nei dintorni di Durazzo le coste sono verdi di pini mediterranei e il mare è bello pulito, ma le bellezze più grandi arrivano dopo: con la laguna di Karavasta che è l’habitat del pellicano dalmatico, col monastero sull’isola di Zvernec nell’ampio golfo di Valona, con le spiagge di Palase e Dhermi specie quest’ultima adorata dai giovani per i locali notturni e gli sport d’acqua e coi colori magici e turchesi del lembo meridionale albanese.

Ecco il turchese assoluto di Llamani, gli alberghi di lusso di Saranda, il paesaggio meraviglioso di Ksamil. Siamo orami difronte alle coste dell’isola greca di Corfù, l’Albania diventa più dolce e mondana, lontana dai palazzoni di Tirana, lontanissima dal ricordo dei profughi in fuga. Viene solo voglia, una grande voglia, di tornarci in piena estate e di dare a questo che è stato nella storia recente un tormentato paese una giusta, seconda possibilità. Fino a che i crescenti flussi turistici non le faranno perdere l’incanto attuale.


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