La metafora della pancia
Il ventre molle, la parte del corpo dove si annida un po’ di tutto, qualche volta anche l’umore. Il mal di pancia, la reazione di pancia, l’istinto o anche lo strato più profondo, più nascosto, più subdolo dell’organismo umano, quello dove si combinano chimiche variabili.
E rapportata all’America? Cosa è questa pancia? Forse sono le storie crude nel ventre molle del paese? Di quella parte di paese – le grandi praterie, le sterminate e vuote regioni centrali, il delta del Mississippi – che è rimasto un po’ arretrato culturalmente, che non ha seguito il ritmo di vita produttivo e scintillante di New York o della California? Di quegli stati più provinciali, più sonnolenti, più basati sull’economia rurale, più toccati dalle crisi economiche, che come atteggiamento di difesa mettono spesso in scena la paura verso tutto quello che è diverso e che è nuovo?
La pancia degli Stati Uniti è quella parte di continente meno aperta al mondo, malinconica come la sua musica blues, ancora convinta della superiorità dei bianchi sui neri, del crimine dell’aborto, della opportunità della pena di morte?

Sicuramente da un punto di vista giornalistico e ragionando per grandi massime è un po’ di tutto questo e anche di quelle stragi che a volte grondano sangue nelle scuole, di quelle storie di ribelli trumpiani con le corna da bisonte che assaltano il Campidoglio di Washington, di deliri psicotici o razzisti di fanatici armati, di cameratismo che sconfina spesso nelle più stupide aggressioni o che al contrario si rifugia nella innominabile violenza domestica o nelle piaghe dell’alcol, della disoccupazione, della sconfitta sociale. Del restare ai margini, fuori dai riflettori della grande America appunto.

Ci sono molti film che hanno provato a raccontare la pancia degli Usa, il suo disincanto, i suoi problemi irrisolti, la sua ribellione, le sue evidenti difficoltà e ritardi economici, sociali, culturali. Sono film che hanno indagato bene ai bordi del Sogno Americano, che sono andati alla scoperta delle zone d’ombra e di quel qualcosa che non funziona o che perlomeno non funziona più come prima, non funziona più per tutti. Film ambientati nelle praterie del centro e nelle paludi del sud, in città dove sopravvivono i miti di Elvis, di Kennedy o di Martin Luther King, film girati tra villaggi, chiese e fedeli un po’ bigotte, fabbriche e operai un po’ dimessi, di certo non nei teatri di Times Square o nelle imprese 3.0 della Silicon Valley tanto per capirci. Piuttosto tra periferie anonime, campi sosta, croci fiammeggianti, infiniti orizzonti di ranch e cespugli e silos, tra fumi e follie di pistole, tra paure ancestrali anche.
La pancia dell’America sul grande schermo è una specie di trattato e fenomeno antropologico dove l’avversione per la modernità, per la razza, per la diversità diventano un alibi alla propria sconfitta di esseri umani, alla propria incertezza e confusione ideologica, alle storie e ai destini di una seconda, anzi di una terza categoria di cittadini. La middle class del ventre americano è sempre più arrabbiata, impoverita, incattivita, cerca la sua identità nel richiamo religioso di sette perlomeno opinabili, nel rifugio fedele del passato agricolo e tradizionale. “America first”, il resto conta poco. Oppure non è capace di vederlo, di accettarlo.

Il tema del razzismo
Cominciamo dal tema più toccante e più dolente, quello che deriva da una morale bigotta e da una questione di pelle. Bianchi contro i neri. Bianchi contro perché gli altri sono neri. Retaggi della guerra civile e delle piantagioni di cotone, di storie di schiavitù, dolore, morte e di pregiudizi mai del tutto estirpati. Da certe menti, da certi gruppetti di suprematisti, da certe città rancorose. Di cosa poi.
“Mississippi Burning, le radici dell’odio” racconta magistralmente un pezzo di profondo sud americano, quello dell’odio razziale, degli idioti incappucciati di bianco, delle croci fiammeggianti, delle città sonnolente e complici del Mississippi, con le loro paludi, le loro ipocrisie, i loro rancori, i campi di cotone e la struggente musica nera che accompagna il lamento degli oppressi.
Ne abbiamo già parlato in un altro pezzo de “Il grillo viaggiante”, quello del topic “Album”, intitolato “Storie del Mississippi – seconda parte” ma in un nuovo approfondimento, stavolta dedicato al cinema che ritrae la pancia dell’America non possiamo non ripartire, inevitabilmente, da questo iconico film del 1988. Che ebbe un impatto devastante sulla coscienza dell’America.
Nella stessa area geografica va ricordato pure “Crossroads, Mississippi Adventure”, il viaggio di una promessa del Blues col suo vecchio e saggio mentore laggiù dove questa musica è nata. O il delizioso “Green Book” storia di umanità e razzismo legata stavolta all’arte di un eccellente musicista e al suo rapporto con l’autista bianco (un “A spasso con Daisy” rovesciato…?), un ruvido buttafuori, che diventa piano piano suo amico, perché ammaliato dalla sua personalità più che dal suo pianoforte.
Il film è un vero tour nell’America della segregazione razziale, quella che negli anni ’60 vedeva ancora un problema nell’esser neri. E dell’essere omosessuali, cosa che l’autista scopre sul suo compagno durante il viaggio. Il “Green Book” esisteva davvero a quei tempi, era una specie di “guida” coi nomi di alberghi e ristoranti adatti a “ospitare” gli afroamericani. Una forma gentile di segregarli.
Fra vari episodi di bigottismo e persecuzione, di metodi spicci come di dignitosa e composta ribellione e qualche scarica di botte che Viggo Mortensen dedica ai bianchi più fanatici, si assiste al risveglio della coscienza del bianco che ospita a Natale a casa sua quello che è divenuto ormai un fratello, che lo ha aiutato, con parole ispirate e poetiche trasferite nelle lettere, a riconquistare la moglie. Premio Oscar 2019 al miglior film e a Mahershala Alì nelle vesti di attore non protagonista, con grandissimo merito.

Altro esempio quello di “12 anni schiavo”, film premio Oscar del 2014, (evidentemente la lobby dell’industria cinematografica statunitense è piuttosto sensibile al tema, quasi a chiedere scusa di un passato nazionale umiliante…) dove va in scena la parabola dolente della vita di un ragazzo di colore nel paesaggio della Louisiana, con le sue paludi e piantagioni di canna da zucchero e di cotone e il French Quarter di New Orleans.

“Selma, la strada per la libertà”, anche questo uscito nel 2014, ricorda la vita, l’opera e l’insegnamento del reverendo Martin Luther King e racconta la pancia degli Usa nelle ferite e nelle prove di coraggio più profonde. Davvero un film forte, potente, evocativo, educativo.
La strada per la libertà era quella percorsa da Selma a Montgomery in Alabama, nelle marce dove King e i suoi compagni chiedevano con voce ferma e composta il diritto di voto per gli afroamericani. Diritto essenziale, perché non avendo essi alcun rappresentante nei tribunali potevano essere aggrediti, oltraggiati e imprigionati senza speranza di punire i criminali bianchi responsabili di atteggiamenti tanto vili. In una marcia viene ucciso un giovane e il leader nero ne resta sconvolto, in un’altra marcia i poliziotti pestano i giovani neri in diretta tv e la nazione ne resta scossa. Nella marcia successiva cominceranno a unirsi dei bianchi. E il destino di MLK si unisce a quello collettivo di una nazione incerta.
Da qui la vittoria di King per i diritti civili e uno dei suoi più coinvolgenti discorsi, quasi timido all’inizio e potentissimo per toni, retorica e messaggio verso la fine, che lo esporranno purtroppo al suo assassinio. Un esempio di alta spiritualità contro ogni barbarie. Un altro modo esemplare di entrare dentro le viscere di questa America. Da “Mississippi Burning” a “Selma” ecco quindi rappresentate le due facce della stessa medaglia: la lotta bianca e nera contro il pregiudizio più folle della storia moderna.


Personalmente, virando sul tema del disagio sociale e di una vita border line, mi è piaciuto molto anche “La canzone di Bobby Long” del 2004, con un John Travolta anti-eroe ubriacone e poeta e una splendida Scarlett Johanson e la loro vicenda che si sviluppa tra le baracche, i locali sul delta del Mississippi, in una languida e difficile New Orleans che nei suoi bassifondi vive come può.
Mentre “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” del 2017, ritorna a parlare di omertà nel profondo sud americano, stavolta ai danni di una povera ragazza uccisa. La rabbia e il coraggio di una madre ferita vinceranno su tutto. Le frasi fatte scrivere dalla madre sui manifesti intorno alla squallida cittadina di provincia faranno infatti cadere tutto il castello delle menzogne e delle complicità: “Violentata mentre moriva”. “Non c’è ancora un arresto?”. “Come ti stai muovendo, Sceriffo Willoughby?”.
Uno schiaffo enorme questo, alla coscienza ipocrita dell’America più gretta che esiste.

La pancia dell’America, piccola galleria cinematografica (1):
il trailer e due scene cult del toccante “Mississippi Burning”
https://youtu.be/GmqdPdCC5CQ il trailer di “Green Book” e qui di seguito la vera storia del “libro” che segregava vergognosamente i neri nel profondo sud:
il trailer di “Dodici anni, schiavo”
il trailer di “Selma, la strada per la libertà” più due scene cult sulla richiesta di diritti e di voto da parte di Martin Luther King
il trailer e la colonna sonora di “Una canzone per Bobby Long” e il suo finale agrodolce
il trailer di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” e il discorso sulle Gang

(continua…)
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