Tra retaggi inglesi e povertà moderne
La storia e la cultura dell’India, per certi versi millenarie, affascinanti e allo stesso tempo impenetrabili, hanno conosciuto nell’età moderna almeno un paio di fasi eclatanti, quella dell’influenza coloniale inglese nella prima metà del ‘900 e quella del vertiginoso e complicato sviluppo demografico nella seconda metà del secolo, fattore questo caratterizzante e assolutamente prevalente degli ultimi anni, con le grandi metropoli che sono letteralmente scoppiate di problemi, traffico, folla, aggrappate alle vecchie usanze, invase dalle nuove industrie tecnologiche e preoccupate dalle allucinanti periferie.

La capitale dell’India è un po’ il paradigma di questo processo.
Per capirla un po’ meglio questa enorme e difficile città come New Delhi, fondata dall’Imperatore Moghul Shan Jahan nel XVII sec. nella pianura tra le valli dell’Indo e del Gange, guardiamola più da vicino. Perché più che una città è un mondo a sé stante.
Di Bombay, o meglio di Mombay parleremo presto in un altro articolo ispirato dalla visione del film “The Millionaire”, di Calcutta forse è meglio non parlarne proprio perché fa troppo male, su Benares ci siamo già soffermati in un pezzo pubblicato nel topic “Luoghi Magici” e presto faremo lo stesso con l’India “portoghese” di Goa, una specie di Bali indiana. Ma adesso tocca a Delhi, vecchia o nuova che sia, e al suo immenso distretto, la sua poverissima terra di mezzo.
Il tempo sospeso di New Delhi

Quella che nella testa dei colonialisti inglesi doveva essere nei primi decenni del’ 900 una città modello, capace di riprodurre, almeno in parte, il loro gusto, il loro stile, coi parchi curati ad abbellire le strade del centro, le eleganti sale da thè, gli alberghi dalle architetture vittoriane, l’imponente palazzo presidenziale con ben 340 stanze, in realtà è durata poco perché subito dopo la seconda guerra mondiale gli inglesi se ne sono andati, lasciando una delle più grandi città dell’India al suo destino di incredibile formicaio.


Di certo qualche impronta del british way of life è rimasta, qualche retaggio del piano di sviluppo urbanistico voluto da Sir Lutyens che voleva esprimere la potenza dello Stato Centrale e imperialista nelle Terre d’Oriente, creando una città affascinante come Parigi, destando meraviglia nei rivali europei, è ancora evidente. Perché a New Delhi sono rimasti tanti grandi spazi, giardini verdi, viali alberati, ristoranti famosi, quartieri borghesi con villette e gallerie d’arte, quartieri degli affari, centri culturali, monumenti come la colossale Porta d’India ispirata all’Arco di Trionfo parigino e dedicata ai 90.000 soldati caduti nella prima guerra mondiale, una certa vita notturna tendente a essere vissuta nei saloni da ricevimento dei lussuosi Hotels.

La terra di mezzo
Ma proprio dopo l’addio della Corona britannica e negli anni della conquista della democrazia grazie alla sorprendente lotta basata sui principi della non-violenza gandhiana, Delhi ha subito soprattutto uno sviluppo caotico, veloce e disordinato, “ospitando” tra i mille vicoli sporchi e le catapecchie della Città Vecchia centinaia di migliaia di contadini in fuga dalle regioni più povere dell’India, arrivati qui per trovare una nuova forma di desolazione e di povertà forse ancora più crudele, perché stavolta si trattava della loro ultima possibilità. Questa umanità si è ammucchiata come altrove nel mondo è capitato ai sobborghi di Città del Messico, di Lima, di Manila, di Lagos e si è ritrovata a popolare soprattutto la striscia di terra tra la vecchia e la nuova città.
E pare che l’anagrafe nel poverissimo distretto di Delhi sia ancora un’utopia, che di tanti vagabondi non si conosca nulla, né il nome, né la casa, perché una casa, semplicemente, non ce l’hanno.
E capita nel 2023 che ancora parecchie persone, in alcuni casi intere famiglie, vivano sui marciapiedi, nei giardini, nei mercati della Strada d’Argento dove il giorno provano a sbarcare il lunario e dove la notte dormono all’aperto. Loro, i reietti, i senza nome, quelli che magari sono gli stessi che si muovono pigiati in dieci sui risciò motorizzati o a pedali.

Il fascino del formicaio
Che l’India sia un subcontinente magico e disperato, arretrato e meraviglioso, lo cominci a capire proprio passeggiando tra le strade, le vacche, i templi antichi e le costruzioni moderne della brulicante città, diventata nel frattempo la capitale della più grande democrazia mondiale.
Cresciuta ormai con la sua sterminata cintura metropolitana al livello appunto di un formicaio, con circa 20 milioni di abitanti, non tutti esattamente uomini d’affari o saggi indiani col sorriso di Buddha. In corsa verso chissà quale progresso, vittime di chissà quante sofferenze e corruzioni.
Eppure qualcosa del vecchio fascino indiano dei bazar (quello che chiamano “il mercato dei ladri” o il Dili Haat o quello coperto del Chandni Chowk cui si accede dalla porta di Lahore del Forte Rosso) dei profumi, dei colori, delle musiche, delle spezie resiste. La città incanta per le sue moschee, per gli affreschi del Rang Mahal, per i suoi tranquilli giardini, per i sapori forti della sua cucina.
E attira sempre nuova gente, anche turisti occidentali che scelgono di vivere in questo mondo dove il tempo è sospeso, in un’opposizione eterna e attraente, tra l’elegante, lussuoso e ordinato passato inglese e il presente più che mai confuso, mescolato, provvisorio.

Dalla pietra merlata e arenaria del Forte Rosso, risalente al 1648 e centro del potere Mughal, dalla cima del minareto più alto, quello di Qutb Minar costruito nel XII sec. in onore del primo sultano di Delhi, dalle colonne arabescate della Moschea più vecchia, quella di Jama Masjid, terminata nel 1658, le cui terrazze sono il miglior punto panoramico sulla Old Delhi, dal centro del viale cerimoniale del Rajpath che in due km unisce la Porta d’India al Palazzo presidenziale, dalla raffinata tomba di marmo bianco e rosso di Humayun, usata come prototipo del Taj Mahal, dalla spianata e dalle vasche sottostanti il tempio bianco e modernista del Fiore di Loto, dal tempio Indù di Akshardam, luogo di ispirazione e di fervente devozione, come nell’ultimo dei bassifondi e dei mercatini rionali New Delhi ti cinge in un abbraccio affascinante quanto estraniante.

Che abbraccio è
Solo che a volte questo abbraccio assomiglia a un sogno, altre a un incubo.
Come quando gli scontri tra le fazioni religiose esplodono con ferocia, dando uno schiaffo alla lunga tradizione di tolleranza e di non violenza indiana. Come quando si provano a contare gli analfabeti, i senza tetto, i malati buttati per le vie. Come quando la stampa indiana (New Delhi è la città dei media, delle riviste, dei giornali) prova (?) a far luce sulla piaga più atroce di tutte, le uccisioni delle giovani spose ad opera di mariti violenti come bestie che vogliono sfogare il loro peggiori istinti, formarsi nuove famiglie o accaparrarsi addirittura nuove doti.
L’India resta lontana
Le impressioni dei turisti inglesi nel film “Passaggio in India” sono forse molto simili a quelle che ancora toccano l’animo degli occidentali convinti con lo studio, il viaggio l’esperienza e la razionalità di capire e penetrare l’essenza misteriosa di questa città e di questo subcontinente.
Li trovi tutti in abiti di lino bianco e beige a passeggiare nei viali come al tempo della colonia, li trovi ad ammirare gli spettacoli di danza, a cercare di interpretare i mille significati degli idoli indù, a dare la carità ai Paria (perché le caste in India sono scomparse ma gli “intoccabili” sono ancora numerosissimi), a ingozzarsi di paratha (la piadina riempita di verdure e salse piccanti), di byriani (il piatto di riso, carne, verdure e spezie) e di pollo al curry.
Ma la vera India gli sfugge sempre.

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