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Isole

Pantelleria, nera e selvaggia

L’isola con un carattere

Prima di arrivarci lo avevo sempre pensato: bisogna avere carattere per vivere qui, per restare qui.

Ai confini meridionali d’Italia, più vicini all’Africa delle coste tunisine che alla stessa Italia (65 km contro 110), a quell’Africa che nelle giornate terse si vede in pratica a occhio nudo, col promontorio e la fortezza di Kelibia a segnare un altro mare, un altro continente e spesso amaramente un altro destino.

Pantelleria col suo destino isolato, con la sua terra selvaggia che non lascia spazio a incanti esotici. Rocce nere, terrazze coltivate a vigne e capperi, scogliere su cui si infrange il mare impetuoso, panorami di rara bellezza ma appunto primitivi.

Gente orgogliosa, tenace, che parla poco, che pesca e coltiva, parte e ritorna e chissà che sogni che ha.

Pantelleria, nera e selvaggia. L’isola con un carattere

Pantelleria alta quasi mille metri sulla vetta della Montagna Grande, da cui si vede tutto, i coni vulcanici che qui chiamano cuddia come la campagna curata con immensa pazienza e fatica, le calette e i faraglioni, i resti delle colate laviche, il porticciolo di Scauri, il magico lago salato di Venere, gli antichi mulini e i fichi d’india che maturano presto sotto il sole africano, le contrade sui fianchi delle colline, i dammusi costruiti in pietra dove al fresco di cupolette, verande, piscine e giardini panteschi tanti turisti vip vengono a riposarsi in rifugi lontani da tutto, vicini solo al mare che già a pochi metri dalla riva qui è un abisso profondo e misterioso, vicini alla terra, al verde e al cielo.

vicini solo al mare che già a pochi metri dalla riva qui è un abisso profondo e misterioso, vicini alla terra, al verde e al cielo

Pantelleria che è basica, semplice, un tuffo reale nella natura, nella bellezza, nel silenzio.

Che può anche respingere per questo suo carattere.

Neanche baciata dalla fortuna di avere le spiagge bianche di Lampedusa, e forse proprio per questo mai scelta, mai puntata, per gli sbarchi del dolore che non finiscono più.

Pantelleria piena di echi, nomi, ricette arabe, quasi a segnare il contatto con un altro mondo, col vero sud del mondo con cui siamo ormai perennemente a contatto.

Pantelleria da godere nei colori, nei tramonti, nelle onde, dalle vette, con un bicchiere di zibibbo o di moscato in mano, la chiusura migliore di un pasto basato su pesce, legumi e cous cous. O semplicemente dentro e fuori un dammuso, a indovinare quali spazi fossero una volta l’aia, il forno, la stalla, il giardino, l’alcova e lo stenditoio per i pomodori e per l’uva.

Pantelleria che esprime il suo genius loci nell’essere un’isola diversa, chiusa nella sua tradizione, nel suo colore nero: delle scogliere di Punta Fram che non concedono niente, né lidi né tuffi, né facili approdi, del severo castello Barbacana, delle icone del Santuario della Margana, della terra bruna e dell’ossidiana, degli elaboratissimi muretti a secco, delle grotte che emettono ancora soffioni di vapore.

Isola scura come scure sono le pietre dei suoi tanti meravigliosi dammusi, come l’Arco dell’Elefante che si tuffa in mare con la sua proboscide, come il laghetto di Cala Cinque Denti circondato da rocce nere, come il paesaggio da inizio del mondo con le sorgenti di acqua calda che accoglie la villa di Armani in Cala Gadir (sarà stato ispirato anche da questo scenario lo stile minimalista del grande stilista…?), come la necropoli piena di Sese (i nuraghe locali) dell’area di Mursia abitata fin dai tempi dell’Età del Bronzo, come le antiche rovine dell’area archeologica di Cossyra o le cisterne di origine punica.

Se poi ci si mette pure un temporale a sospingere minacciosi nuvoloni sull’isola, se ci mette pure il mare a ruggire e a ingrossarsi, il quadro non è proprio quello di un paradiso tropicale ma di una landa selvaggia circondata da numi e leggende. D’altronde è la “Figlia dei venti” secondo il suo nome arabo.

Pantelleria che è basica, semplice, un tuffo reale nella natura, nella bellezza, nel silenzio.

In un paesaggio del genere da girare preferibilmente dal mare alla Montagna Grande, su e giù per le colline nere e verdi di pini a bordo di un simpatico Ape, per arrivare a piacere nei punti più lontani, più remoti, più ventosi, per provare a conoscere più da vicino qualcuno dei suoi ottomila abitanti che ha scommesso sui capperi o sui passiti, sulle birre o sul grano o sulle ceramiche artistiche e i giardini con sculture, per scegliersi le pause golose a caccia di tonno, melanzane, ricotte, formaggi, zucche, fichi, il famoso Specchio di Venere regala una pausa serena e inaspettata.

Adagiato su una antica e spenta caldera vulcanica è un grande lago dal colore cangiante verde e turchese dove ci si bagna volentieri, dove si passeggia tra ginestre e piante aromatiche, tra arbusti e rive biancastre, dove si aspetta il volo degli uccelli, la visita docile di un asinello o di una capretta e il magnifico gioco della luce. Nello specchio non mancano soffioni di acque termali, calde fino a 58°, piacevoli nelle stagioni più fresche, portatrici di fanghi benefici e cariche dei profumi di zolfo.

Silenzio, surrealtà, se si sprofonda in esse una sera d’autunno, al chiarore della luna piena.

Perché il punto più famoso di Pantelleria ha questo nome evocativo? Perché si racconta che un tempo la dea dell’amore fosse solita specchiarsi nelle acque del lago, prima dei suoi incontri con Bacco.

L’immagine finale della più aspra isola siciliana non poteva che essere degno di una favola.

O di una metafora, come quella che le regalò lo scrittore del realismo magico, Gabriel Garcìa Marquez. “Non credo che esista al mondo un posto più adatto di Pantelleria per pensare alla luna”.

“Non credo che esista al mondo un posto più adatto di Pantelleria per pensare alla luna”

Album

Le foto seguenti sono tratte da wikipedia e chiudono come si fa con gli album fotografici più belli della nostra vita il racconto dell’isola nera: il suo specchio lacustre, il villaggio del capoluogo, le scene della campagna e dei muretti a secco che proteggono gli orti e le preziosi viti dal vento nella Valle della Favara Grande, la mole scura del castello eretto con pietra lavica, le luci serali del porto, la tipica roccia dell’Elefante, un sepolcro megalitico simile ai nuraghe sardi e il faro che isolato su Punta Spadillo che segna le rotte nel cuore del Mediterraneo più bello che si possa conoscere e attraversare.

Uno spazio non addomesticato, da vedere per capire fino in fondo la forza della natura.

foto tratta da wikipedia
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foto tratta da wikipedia
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foto tratta da wikipedia
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