Le connessioni improbabili di E.M. Forster
C’era una volta uno scrittore vissuto a cavallo dei secoli ‘800 e ‘900, Edward Morgan Forster, molto abile nel tessere trame di romanzi basati sulla difficoltà di relazione tra nature, classi sociali e culture diverse: gli capitò in questo lungo percorso di arte e di vita, di “tentativi di connessione e di riconciliazione”, di parlare di Italia (con “Monteriano” e soprattutto con l’affresco fiorentino di “Camera con Vista”), di Inghilterra (l’intenso “Casa Howard” e il delicato “Maurice” dove affronta la sua sfera omosessuale, pubblicato postumo nel 1971, un anno dopo la morte) e di India, dove ambienta il suo capolavoro, “Passaggio in India”, del 1924.

Forster grazie ai suoi dialoghi, ai suoi temi e alle sue ambientazioni è stato uno scrittore le cui principali opere sono state tutte portate, e con un certo successo, al cinema: pensiamo al panorama sull’Arno di “A room with a view”, alle verdi e brumose campagne inglesi dell’Hertfordshire di “Howards End” e di “Maurice”, tutti tradotti sullo schermo dal regista James Ivory. E puntiamo ovviamente il faro, visto il tema del nostro articolo, sul film di David Lean “A Passage to India” uscito nel 1984.

All’Università in un esame di Lingue e Letteratire straniere moderne il mitico Professor Jenkins de “La Sapienza” di Roma si fissò con questo autore: non lo definiva uno scrittore di viaggi fisici ma di viaggi interiori. Gli dedicò la sua cattedra per almeno tre annualità di esami.
Mi piacque, cerco di raccontarvelo in breve nella sua fase indiana.
Passaggio in India
E’ facile? E’ possibile? Far incontrare due mondi, due culture, due tipi di umanità, di religioni, di abitudini?
L’India, pertanto, è avvicinabile, è scrutabile, è riducibile a livello razionale da noi occidentali?
Proviamo a scoprirlo con l’aiuto di questo romanzo e di questo film.
La trama racconta di due donne della buona società inglese, la colta, saggia e mistica Mrs. Moore e la giovane e curiosa Ms. Quested, che nel 1920, nel pieno del periodo del colonialismo e dell’imperialismo estero della grande potenza, si recano in India, presso la città di Chandrapore, nel cuore dell’immenso paese asiatico, non lontana dalle rive del Gange, per conoscere Ronny, il futuro sposo della Quested, nonché figlio della Moore, che svolge le funzioni di magistrato civile in quel pezzo di mondo così lontano dalla “civilissima” Londra.

La storia è perennemente basata su questo confronto-scontro tra due culture.
Da una parte ecco la città bassa di Chandrapur, totalmente indiana, nella povertà, nei templi misteriosi e colorati, nelle strade piene di sporcizia e di mendicanti, di fango e di mosche, di provvisorietà come di aromi speziati, di musiche orientali, di vita vibrante, di confusionari bazar dove la giovane si perde (“l’Oriente profumato della tradizione, ma frammisto col sudore umano come se un grande re si fosse trovato coinvolto nella lordura e non riuscisse a liberarsene, o come se il calore del sole avesse bollito e fritto tutte le glorie della terra in un unico guazzabuglio”).
Dall’altra parte, anzi sopra, la città alta di Chandrapore, quella angloindiana, freddamente elitaria e snob, abitata dai ricchi coloni inglesi di bianco vestiti, soliti trascorrere il tempo nei loro giardini, nei circoli privati, nelle sale da thè, in una specie di mondo diviso, ordinato e pulito.
Doveva essere questo il clima di quegli anni, il libro descrive benissimo cosa significava sentirsi superiori o sottomessi, invasori o invasi.
Il merito principale del romanzo, come della sua trasposizione cinematografica, è quindo di quello di far emergere con nitidezza tutte le diversità sociali, culturali, religiose e politiche che dividono indiani e inglesi, quasi a creare fra loro un muro e un inconciliabile abisso.

I tre eventi chiave
“Conoscere la vera India” è l’obiettivo delle signore inglesi, aiutate in questo dalle conoscenze sviluppate in loco: quella con l’intelligente e sensibile medico indiano e musulmano Aziz, sempre diviso tra l’ammirazione e l’invidia per i raffinati coloni inglesi; quella del Professor Fielding, dalla morale moderna e aperta, molto ben disposto verso la cultura e i costumi indiani; quella con altri personaggi di contorno incontrati in alcuni momenti chiave del lungo soggiorno a Chandrapore.
Il primo evento, il primo tentativo di avvicinamento porta non a caso il nome di “Bridge Party”, proprio perché vuole essere un ponte tra due mondi, tra due popoli con le loro usanze e le loro culture. Gli esiti saranno piuttosto goffi, avranno più spazio il pettegolezzo e il pregiudizio che la reale comprensione dell’altro. Il secondo evento sarà un “Tea Party”, utilizzato con la speranza di raggiungere gli stessi difficili obiettivi. Niente da fare, resteranno in piedi, sottili, quasi invisibili ma pesanti, le idee di gerarchia, di classe, di “noi contro loro”.
Ma sarà il terzo evento, la gita alle montane grotte di Marabar (“un ammasso di pugni e di dita che balza fuori dal suolo” per usare le parole di Forster), a segnare la storia e i destini dei personaggi.
Sarà in questo caldo, remoto e sperduto paesaggio che l’idea del “passaggio in India” si rivelerà inattuabile, in tutta la sua crudezza.

Cosa accade a Marabar?
La preparazione al viaggio è molto sentita da tutti: le due signore inglesi sono convinte che questa sia l’occasione per conoscere la vera India, Aziz è emozionato come mai nella sua vita, impegna ingenti somme per far bella figura con le sue amiche: il viaggio in treno di prima classe, uno stuolo di cento servitori al seguito, le pietanze più buone e raffinate, ogni tipo di babaglio, le attenzioni migliori, l’arrivo nelle grotte in groppa a un corteo di elefanti. Della serie: “Inglesi, stupitevi!” Di come siamo eleganti, generosi, gentili noi indiani. Di quanta storie e cultura abbiamo alle spalle. Di quante tradizioni ci facciano grandi e nobili almeno quanto voi europei.
Più il viaggio si avvicina alla meta finale, le grotte di Marabar (nome fittizio per le reali Barabar Caves, nello stato del Bihar), dove è chiara la nostra preparazione al fatto che “i protagonisti dovranno sentire qualcosa, vivere il loro eternal moment, la loro avventura definitiva” (erano queste le ispirate parole del Professor Jenkins nelle sue lezioni) più l’atmosfera diventa rarefatta, silenziosa, quasi sacrale, quasi fosse un presagio funesto sui prossimi avvenimenti.

Mrs. Moore dopo una brevissima visita della prima caverna, per il caldo e la fatica (o forse per un presentimento? per rispetto alla natura profonda della cultura indiana che non va del tutto indagata? per lo shock subito di ritrovarsi a due passi dalla dimensione oscura delle cose? per il rimbombo cupo dell’eco che la fa cadere in un vortice di malinconia?) decide di restare all’entrata delle caverne, di non penetrare troppo quel mistero di labirinti e echi e leggende antiche, legate secondo il credo locale, all’esperienza di Marabar.
Ms. Quested invece, che intanto sia nel viaggio sia nel momento dell’arrivo al luogo di preghiera di Marabar (evidentemente un luogo di verità cosmica) aveva cominciato a mostrare dubbi sul suo futuro preparato a fianco di Ronny, sceglie di esplorare il sito e il buio, fino alla caverna più lontana e più alta, e nel fare questo si separa dal fedele Aziz. Succede che la ragazza inglese resta sola, si smarrisce, si impaurisce per l’eco, delira nelle tenebre, fino a che esce di corsa dalla grotta turbata e ferita, con la camicetta strappata, e poco dopo, al ritorno in città si viene a sapere che ha lanciato la più infame delle accuse verso l’amico indiano Aziz: mi ha stuprata dentro le grotte.
La triste prova che nonostante il significato metaforico del suo nome (Quest in inglese significa ricerca, conoscenza) lei non capirà mai l’India e gli indiani e che l’unico buio realmente vissuto sia stato quello della sua ragione.


Aziz viene clamorosamente arrestato e portato in tribunale per un un processo che divide fatalmente e definitivamente le due comunità degli indiani e dei coloni inglesi: il legame tra di loro, la vera conoscenza tra orientali e occidentali, il vero rispetto, non sarà mai possibile.
Lo capisce per prima Mrs. Moore che dopo l’esperienza irrisolta della caverna “non voleva comunicare con nessuno, nemmeno con dio”, che per la delusione subita (“…perché dovrei essere sul banco dei testimoni? Non ho nulla a che fare con le loro corti di giustizia ridicole…”) ripartirà con la nave verso l’Inghilterra, morendo in viaggio, con le sue spoglie sparse nel grande oceano, nel grande e unico ventre della Natura.
Mrs Moore in India aveva visto la luce e nella grande luce del mare finisce il suo percorso.
Lo capirà alla fine anche la giovane e impreparata alla vita e all’India Adel Quested, che durante il processo scagiona finalmente Aziz, parlando di allucinazioni subite nell’ombra della grotta. Ma il medico indiano ormai è offeso e sdegnato, rifiuta ogni indennizzo e se ne va a lavorare e a dimenticare nel Kasmir, diffidente anche col Professor Fielding, colpevole secondo lui di voler sposare Ms Quested. In realtà Fielding tornato in Inghilterra sposa la figlia di Mrs Moore, e poi ritorna in India per riunirsi ad Aziz, a sugellare la sua storia di testimone dell’unione e della divisione dei due mondi. Romanzo e film terminano con un altro tentativo di riavvicinamento, quello tra Fielding e Aziz, ma si sa, si percepisce, che si tratta di una “pace” fragile, perché i fatti occorsi hanno scavato un solco tra le due comunità.

A noi resta questa consapevolezza e la bellezza di aver letto, benchè sullo sfondo della intricata vicenda, pagine molto autentiche sul paesaggio geografico e umano dell’India: sulle sue persone, piante, animali, stagioni e templi. Sui suoi costumi, i suoi diversi credo religiosi e sulla sua saggezza.
Sui suoi numerosi misteri. Evidentemente inavvicinabili.
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