Tatuaggi, totem, danze e canoe: ecco il mondo degli antenati

I mondi più lontani me li sono sempre immaginati abitati da indigeni tatuati ovunque, sul corpo e sulla pelle. I tatuaggi dei primi abitanti neozelandesi rappresentano un legame col passato, come una mappa personale, come una carta di identità, la storia delle proprie origini, l’omaggio ai propri antenati e ai propri dèi, l’appartenenza fortissima al proprio clan. Nella cultura maori ne esistono di almeno due tipi, quelli disegnati a linee e spirali sul volto con numerose incisioni e chiamati “Moko” e quelli che decorano tutta la parte bassa del corpo, parti intime comprese, i “Whakairo”.

Il tatuaggio nelle donne maori copre spesso il mento, abbellito con vari disegni, e significa un passaggio dalla pubertà all’età adulta, uno speciale rito di iniziazione. Sia uomini che donne devono dare tempo al tatuaggio di “riposarsi” sulla pelle, di lenire le cicatrici: assolutamente vietato in questi lunghi mesi avere rapporti sessuali o anche solo specchiarsi, pena l’affronto al mondo degli antenati e la perdita della propria anima.
Il Moko fu addirittura messo in calce al trattato di Waitangi che nel 1840 aprì le porte della Nuova Zelanda al dominio britannico, coi coloni bianchi che al pari di altre “pacifiche” invasioni (vedi quella contro i pellerossa nel Nord America) causarono il progressivo declino di un fierissimo popolo, privato delle terre e dei rituali, decimato dalle guerre e dalle nuove malattie portate dallo “straniero” (morbillo, tubercolosi, sifilide). E ci fu un tempo feroce e lugubre in cui i Moko più belli avevano una richiesta e un mercato e quindi si decapitavano le teste dei capi maori morti o addirittura se ne uccidevano altri su commissione: per stupire col mito del buon selvaggio, del disegno primitivo, qualche salotto snob di Londra. Incredibile… Una specie di oltraggio alla natura e all’umanità, chi era disposto a compierlo secondo me si meritava la stessa maledizione del vecchio marinaio di Coleridge che aveva usato uccidere il grande albatros bianco!
Manco a dirlo il Moko fu poi perseguitato dai missionari cristiani che lo consideravano una forma di perversione selvaggia e pagana. Coi loro tatuaggi i Maori vennero spinti ai bordi della società moderna neozelandese, la conseguenza furono movimenti di rivolta che volevano affidarsi di nuovo ai propri costumi, religioni e cultura, allo scambio e alla condivisione dei beni, a prove disinteressate di solidarietà. Come dire: un altro mondo alla fine del mondo…
Le canoe, le lunghe canoe abituate a solcare l’infido Oceano, sono un altro simbolo della storia e della cultura maori: pare che la Nuova Zelanda fu scoperta proprio da un indigeno in esplorazione dalla Polinesia su una canoa, vide questa terra e la battezzò “Aotearoa”, ovvero “il paese della lunga nuvola bianca” (forse per le eruzioni primordiali dei tanti vulcani). Stesso ruolo per i grandi totem intagliati nel legno, quello di ricordare e raccontare deì e leggende, di segnare il territorio, di celebrare gli antenati.

E per le danze tribali basati su smorfie e linguacce, per le quali non è mai opportuno ridere, per i rituali di saluto (sfregarsi la fronte e il naso) da conoscere ma da non adottare mai per primi.
Insomma mi piacerebbe un viaggio in Nuova Zelanda anche per conoscere tutta la cultura maori dei tatuaggi, o per penetrare a fondo le due più grandi realtà sportive del paese, quella del rugby e quella della vela.
Il mito degli All Black e della Haka

La maglia più bella delle nazionali di rugby ce l’hanno loro. Tutta nera, tenebrosa e insieme lucente, assolutamente elegante. A rappresentare un mito e una lunghissima storia di una squadra invincibile, resa eterna da campioni come l’enorme indigeno Jonah Lomu scomparso a soli 40 anni e già leggenda (https://youtu.be/pcHzp5NA6MU)o il samoano Umaga che spaccavano in due le difese avversarie. Unica al mondo anche la Haka, la danza guerriera che con passi scanditi, smorfie impressionanti, occhi sbarrati, linguacce e urla troglodite termina col gesto del taglio della gola: mi hanno fatto sempre tenerezza le nazionali avversarie al cospetto di tanta determinazione… Spaventati prima del match, spazzati via dopo dalle folate dei quindici giganti all blacks. Ma sarebbe sbagliato vedere in quel gesto una danza di guerra, un atto di ferocia o di forza primitiva, piuttosto è un richiamo alle energie vitali, alla grande carica trasmessa dagli antenati. Almeno ai maori piace vederla così. Ed è qualcosa di unico e di sacro, che appartiene soprattutto a loro ma che ha contagiato anche i ragazzi biondi e bianchi della nazionale. E’ qualcosa che fa davvero venire i brividi, in campo, soprattutto in campo, ma anche allo stadio e in tv (https://youtu.be/vYmszJ00aMM)
Sul numero di “Meridiani” dedicato alla Nuova Zelanda ho trovato una fedele traduzione del canto della Haka, che fa più o meno così:
“E’ la morte, è la morte. E’ la vita, è la vita. Questo è l’uomo dai capelli lunghi, che ha fatto splendere di nuovo il sole. Un gradino più su, un altro gradino più su. Il sole risplende”.

Per rispondere a questo canto e a questa magia, per ambire all’onore di indossare la maglia nera con la foglia di felce argentea, oggi più di 100.000 giovani neozelandesi continuano a correre, a sbattersi addosso e a sporcarsi di fango su un campo da rugby. Per vincere magari la quarta storica Coppa del Mondo, quella che gli permetterebbe di staccare i “nemici” di sempre, sudafricani e australiani.
La vela: l’uomo, e il mare

A noi è arrivata dentro casa, dagli antipodi, in mezzo alla notte, la magica sfida di Luna Rossa che nella Baia di Auckland ha provato a soffiare agli imbattibili neozelandesi l’America’s Cup (https://youtu.be/YEFkdRSCqk0). Ma la vela sul posto è una pratica assolutamente quotidiana e quasi 10.000 imbarcazioni ripropongono in chiave moderna il mito marinaro di un popolo che dalle canoe maori alle baleniere ha sempre avuto grande confidenza col mare, con le onde e coi venti. Se poi ci aggiungiamo yacht, motoscafi, barche diverse e canoe nel Golfo di Hauraki il traffico arriva almeno a 80.000 mezzi, un grande raccordo acquatico in pratica, ma molto più fresco, pulito ed ecologico!
Anche se le barche contraddistinguono il panorama marino di molti semplici villaggi neozelandesi la vera City of Sailsè appunto la moderna metropoli di Auckland, che si affaccia sulla baia più famosa al mondo per la vela. I ragazzi a scuola fin da piccoli studiano a fondo il vento e il mare, i nodi da fare e le mosse abili e veloci da compiere al timone; i più grandi si costruiscono barche anche da soli nel giardino o nel garage di casa e appena possibile le mettono in acqua per una gita, per una regata o anche solo per prendersi in faccia onde, sole e vento. E’ chiaro che se un italiano ama questo elegante sport, pieno di armonia, di bianco e di spirito di squadra, e lo pratica in Sardegna o a Punta Ala o chissà dove, sognerà prima o poi di raggiungere Auckland e vedere come operano i maestri. Arrivare a vela nelle isole remote, dominate dalle sagome dei vulcani. Seguire i venti fino alle lagune più romantiche. Affrontare il mare imperioso dell’Isola del Sud o rilassarsi nelle marine e nei circoli nautici dell’Isola del Nord.
Il destino di Auckland è proprio scritto nel mare: qui arrivarono i primi Maori con le lunghe canoe e il nome stesso della città è quello del Comandante della flotta navale inglese ai tempi del trattato costituente della Nuova Zelanda. Nella baia di Auckland il fenomenale equipaggio di Sir Peter Blake rivinse nel 2000 contro Luna Rossa la mitica coppa conquistata a San Diego cinque anni prima: fu gloria eterna per quell’uomo, scomparso purtroppo molto presto per mano di alcuni pirati nella foce del Rio delle Amazzoni.

Cinema Fantasy e non solo
Quali film importanti sono stati girati nel magnifico paesaggio della Nuova Zelanda?
Partiamo da un film drammatico e romantico insieme, “Lezioni di Piano”, vincitore del Premio Oscar. Racconta della storia di Ada, una scozzese muta che a metà ’800 compie il viaggio agli antipodi per sposare un agricoltore mai conosciuto prima. Lei non può ovviamente raccontare a nessuno il nuovo mondo, le sue emozioni, se non con la musica di un pianoforte che ricorda il rumore del mare che arriva sulla spiaggia o il vento che entra nei fiordi. Il film insieme è delicato e potente, Harvey Keitel recita nella parte del saggio pioniere inglese convertitosi alla cultura indigena e col volto segnato dal Moko comincia una tormentata storia d’amore con la ragazza, che privata di un dito dal marito geloso e del piano sprofondato nell’oceano alla fine deciderà di scappare con lo straniero nell’Isola del Sud.
Semplicemente splendida ed evocativa la colonna sonora di Michael Nyman (https://youtu.be/_W6GjBeGdvE). Va messa una sera fredda, col camino acceso e la voglia di conoscere gli orizzonti selvaggi della Nuova Zelanda si manifesta subito.

Da vedere anche un film che è uno sguardo sulla Nuova Zelanda moderna, sospesa nei suoi perenni conflitti etnici: i maori nella modernità, i giovanni ragazzi maori che si perdono in questa modernità e nelle violente periferie di Auckland. “Once were warriors” è l’elegia di un passato che non c’è più, il ritratto crudo di una mancata integrazione sociale, la prova di come nella ex terra del welfare le condizioni di vita siano ormai anche mutate e di come tra gli indigeni ci siano il 20% dei poveri che abitano queste isole, oltre che la maggior parte dei disoccupati, degli alcolisti, dei drogati… Una volta coi loro tatuaggi, con le loro smorfie, la loro grinta e le loro linguacce erano guerrieri, oggi sono gli emarginati, i dimenticati, gli offesi.
Purtroppo in queste comunità si vive in media dieci anni in meno che in quella bianca, eppure la nazione benestante è la stessa (https://youtu.be/kmZ9cL2Bs-g).
Ma se c’è un film, anzi una saga, che descrive meglio di tutte le altre la bellezza selvaggia della Nuova Zelanda è sicuramente quella della Trilogia dell’Anello, girata da Peter Jackson, nativo di Wellington. Il regista lesse i libri di Tolkien da diciottenne e gli venne in mente di ambientarli nei selvaggi scenari dell’Isola del Sud durante un viaggio in treno.

La lotta del bene contro il male, i maghi e gli orchi, guerrieri senza paura, mostri primordiali, gli hobbit e i vecchi saggi, i tiranni e le principesse… tutte le loro vicende ambientate nella Terra di Mezzo descritta nel romanzo fantasy, in una terra di tenebre, dominata da una natura grandiosa, così assoluta e potente come poche altre volte vista sul grande schermo. E’ la natura della Nuova Zelanda, coi suoi picchi più remoti, le lande più ostili, i vulcani più pericolosi, le solitudini di ghiaccio e foresta.
Jackson ha compiuto il miracolo di unificare una nazione in questo progetto, chiedendo il permesso alle tribù Maori di girare le scene nei loro luoghi sacri, coinvolgendo 20.000 comparse e tantissimi concittadini di Wellington a fare le maestranze, i tecnici, i truccatori, i maghi degli effetti speciali al computer, i cuochi della troupe.
Inutile dire che il turismo successivo che si è sviluppato col film (tra l’altro agli antipodi sono stati i primi al mondo a volere per il proprio governo un Ministero del Turismo) abbia basato molti dei suoi tour sulla scoperta delle locations frequentate dalla Compagnia dell’Anello!
Ecco un giro (in inglese) delle location della triologia: https://youtu.be/wpTn1Ecnev8
40 milioni di pecore che garantiscono il 29% del pil neozelandese
Se c’è un animale simbolico in N uova Zelanda è sicuramente la pecora.

Un record mondiale, sicuramente. Nessun paese al mondo in rapporto al territorio ha così tante pecore che così tanto influiscono sulla ricchezza della nazione, producendo una pregiatissima lana (usata in Italia per filare la maglieria di lusso di Loro Piana come in India per creare i famosi tappeti), carne, latte e formaggi. Infiniti prati verdi e macchie di cotone paffute e bianche, la scena si ripete per tutto il paesaggio e su alcune colline, alcune scogliere davvero arrivano solo loro, le pecore. Non so davvero se le hanno contate ma pare che ormai gli ovini abbiano superato i 40 milioni di esemplari, come se ogni neozelandese ne possedesse dieci in pratica!
La prima pecora scese a terra dalla nave del Capitano James Cook nel 1773, e c’è da dire che si sono felicemente riprodotte!! Hanno fatto parte della storia stessa della nazione perché i primi lavori dei pionieri, degli allevatori, dei coloni nei pascoli e nei terreni di proprietà erano basati tutti su di loro. E ovviamente ai confini del mondo non potevano mancare le storie più simpatiche da raccontare… Come quella della pecora star, sfuggita per anni a ogni tentativo di tosatura e quando l’hanno infine acchiappata le hanno tolto 27 kg di vello lanoso! Come quella del recordman mondiale di tosature effettuate, ben 831 animali in un solo giorno, tale Alan Mac Donald nel 1999. Come quella della balla di lana più fine o come quella dei migliori cani pastore che si sfidano nel riportare le pecorelle smarrite nel caldo rifugio del gregge.
Ma niente paura, se le pecore dovessero stancare specie negli spazi vergini dell’Isola del Sud sono molto probabili gli incontri spettacolari con le colonie di leoni marini e se ha l’estro giusto qualche famigliola di pinguini potrebbe pure attraversare la strada!

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