L’Oriente perduto
Uno di quei posti dove ti immagini il passato delle “Mille e una notte”, una di quelle città tanto belle quanto fragili e rimaste vive solo negli album fotografici ingialliti di chi ha fatto in tempo a visitarla prima della caduta dello Yemen nelle tenebre integraliste, un luogo isolato e puro a 2.200 metri di altezza, che evoca favole e misteri, che racconta una storia millenaria e affascinante ma che oggi purtroppo mette ancora paura.

(foto presa da wikipedia)
La bella San’à nei tempi moderni la vediamo infatti “rivivere” solo sulle riviste geografiche di qualità, nei vecchi documentari che mettono un po’ di malinconia, con le mura, le cupole, le torri che qualche frammentata cronaca racconta che continuano a cadere giù, con le vie abitate solo da uomini severi che masticano il qat, fumano in compagnia ed esibiscono a ogni uscita pubblica, al caffè, in moschea, al mercato, lo jambiyah, il loro prezioso pugnale ricurvo, come un vero simbolo identitario.
L’atto d’amore di Pasolini
Secondo la tradizione la fondazione della città risale addirittura ai tempi biblici ed è dovuta a Sem, il figlio maggiore di Noè, che peregrinò a lungo nel grande vuoto del deserto prima di trovare questa fertile valle circondata da alte montagne. Viene da sé che solo il nome di San’à susciti echi e splendori appunto millenari, persi quasi nella memoria dell’uomo.
Negli anni ’70 il grande scrittore e regista italiano la scoprì per le scene del suo “Decameron” e di “Il fiore delle mille e una notte” (musicato da Morricone e presentato a Cannes) e perdutamente se ne innamorò: della sua magia, della sua povertà, della sua sabbia, della sua polvere, delle sue mura, dei suoi suadenti echi orientali.

Soprattutto Pasolini rimase a bocca aperta davanti alle case-torri di San’à, rimaste immutate nelle loro delicate forme artistiche per un migliaio di anni grazie al clima secco della montagna e firmò un appello all’Unesco per salvaguardarle dall’aggressione urbanistica tipica di ogni sviluppo moderno, portatore di traffico, smog, plastica, incuria e speculazione edilizia.
Nel 1986 la parte vecchia della capitale yemenita grazie proprio all’impegno dell’intellettuale rimasto molto caro al popolo locale, fu dichiarata patrimonio storico-culturale dell’intera umanità e vennero censite, racchiuse nella sua cinta muraria, ben 6.500 case storiche da preservare e restaurare. Consapevoli del loro tesoro gli stessi commercianti di uno dei più grandi suq dell’intero mondo arabo supportarono il governo yemenita, le associazioni di archeologia e i generosi contributi di parecchi paesi occidentali: quel pezzo così suggestivo di Oriente non poteva sparire.
Quello che era San’à
L’impegno di Pasolini richiamò l’attenzione dei tour operators italiani e firme prestigiose organizzarono viaggi culturali nello Yemen, dove San’à dopo giorni di jeep tra deserti, gole profonde, vette e oasi costituiva chiaramente l’attrazione maggiore. I miei suoceri hanno fatto in tempo a visitarla questa sfortunata città decaduta e me la sono fatta raccontare come meglio potevano. Ho letto nei loro occhi stupore e nostalgia, ho anche provato della sana invidia per questa loro emozione a me proibita.

(foto dell’entrata alla città vecchia presa da wikipedia)
A San’à, tra le sue case-torri alte fino a 30 metri, nei suoi caravanserragli, passava la Via dell’Incenso, che significava incontro e scambio di genti, merci, spezie e culture.
I mercanti più ricchi eressero nel tempo le loro nobili abitazioni a tre piani, collegate dall’ingresso ai piani più alti da scale elicoidali, con facciate piene di fregi e ricami, di finestre piccole come feritoie e di romantici balconcini, di bellezze artistiche, di cupolette bianche, di metafisiche decorazioni in gesso, di persiane in legno intarsiato, con torri slanciate quasi a sfidare la bellezza e l’eternità del cielo.
Negli interni c’erano tende di pregiato cotone, mobili antichi, lastre di marmo, piastrelle policrome, argenti e tappeti, piccole nicchie con l’immancabile hammam. In basso le stalle per cammelli e cavalli, poco sopra i magazzini per il cibo, a ogni piano delle cucine, le stanze divise tra uomini e donne (quelle delle donne le riconoscevi subito perché avevano le tipiche shubbak, quelle verande coperte da pannelli di legno traforato che permettevano di guardare nei vicoli senza esser viste) e sopra a tutto i terrazzi aperti allo spazio, alla luce, alla notte. Dove – privilegio purtroppo dei soli uomini – si poteva respirare la piacevole brezza serale, osservare le rondini al tramonto, magari fumando un narghilè, masticando le foglioline di qat o gustando un delicato thè alle erbe.
“Mancava solo di vedere spuntare all’improvviso un tappeto volante” sospira mia suocera, grata ancora a quel viaggio e a quel ricordo.

Da Pasolini alle tenebre
Tra il 2015 e il 2020 la guerra civile ha velocemente e irrimediabilmente dilaniato lo Yemen. Gli esperti di politica internazionale la definiscono una “guerra per procura” tra l’Arabia Saudita che sostiene il governo ufficiale insieme a un vasto fronte militare che va dall’Egitto, alla Giordania, agli Emirati Arabi e a livello di intelligence include anche Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Israele e l’Iran che appoggia invece insieme al supporto logistico fornito da Corea del Nord, Eritrea e Hezbollah i ribelli sciiti Houthi, arrivati a prendere nel terrore il controllo proprio della magica San’à.
In mezzo gli inevitabili agguati, gli assalti dei banditi nelle strade polverose del paese, i turisti spariti per questo, le case-torri rimaste vuote, i vecchi e nuovi integralismi, la lunga ombra di Al Qaeda, i numerosi morti da ambo le parti (si parla almeno di 250.000 secondo le stime ufficiali…) e la denuncia di “Save the Children” che sostiene come ormai l’80% della popolazione yemenita abbia bisogno di assistenza umanitaria.
La guerra o meglio le guerre non sono solo religiose e tribali ma anche economiche, come spesso la storia ci insegna. In gioco ci sono gli equilibri politici del paese, lo sfruttamento delle ingenti risorse energetiche, il controllo del passaggio delle petroliere nel Golfo di Aden.
Nessuno dei due fronti vuole rinunciare a questi obiettivi. E ci rimette ancora una volta il popolo semplice, quello che fece innamorare Pasolini, quello che sembrava uscito da una favola orientale. Rimasto senza cibo, scuola, sicurezza, servizi.

Ho letto di recente su un giornale che delle mura di San’à dopo tanto abbandono, silenzio e orrore, restano solo dei monconi di pietra e fango, che stucchi e decorazioni dei suoi palazzi più eleganti sono caduti per terra, calpestati dall’incoscienza o dall’ignoranza.
La città delle “Mille e una Notte” si sta lentamente sgretolando sotto il sole, le ultime generazioni di yemeniti se “ricchi” preferiscono vivere in villette lontano dal centro e dai conflitti, mentre la massa è finita ad abitare in anonimi condomini in cemento armato. Altro che fiore del deserto, altro che regno mitico della Regina di Saba, altro che notti e case magiche illuminate dalla luna, la San’à moderna sta cedendo alle luci al neon, alle antenne paraboliche, alla sporcizia, ai clacson, alle stragi militari. A ricordare il passato resta qualche richiamo dei muezzin.
Qualche mercato tipico di artigianato, granaglie, legumi e frutta secca sopravvive sotto l’ultima porta antica sopravvissuta in città, quella di Bab al Yaman. Qualche vecchio sa forgiare ancora il metallo per creare i famosi pugnali. Qualche giardino segreto con piante, fiori e acque provoca ancora brividi di meraviglia. Qualche piccola moschea illuminata fa pensare ai tesori artistici e alla dimensione serena della religione. Ma tutto il resto in quella che era definita “La Perla d’Arabia” adorata da Pasolini, è davvero cambiato, probabilmente per sempre.
Non ci sono Commenti