L’India va vissuta con l’occhio e col cuore del viandante, come un immenso e misterioso spazio geografico, culturale e umano. Probabilmente come l’occasione, grande e unica, di fare ritorno alla condizione favolosa dell’infanzia del genere umano.
Generazioni di intellettuali moderni, da Hermann Hesse ai nostri Moravia e Pasolini, hanno cercato nell’India una sorta di paesaggio dell’anima, una terra dai valori eterni, dallo spirito antico e dalla religione più pura. Forse perché stanchi delle culture, dei modelli borghesi e delle guerre europee.

In saggi e romanzi questa specie di subcontinente asiatico è stato descritto in ogni dettaglio, in ogni emozione: nello scorrere dei suoi grandi fiumi, nelle paludi e risaie fangose, nelle piogge devastanti, nelle giungle selvagge, nelle grandi e nude vette che guardano l’Himalaya, nelle spiagge incantate, nei suoi mille dei e nel suo ritrovarsi perennemente sospesa tra un’atavica povertà e una splendida dignità.


Nei diari di Hesse, per esempio (“Aus Indien”), abbiamo imparato a conoscere i suoi animali più belli, le tigri e gli elefanti che la sera, nei fiumi, bagnano le loro forze spossate, preparano agguati o proteggono la propria famiglia, le scimmie urlanti e dispettose che si arrampicano per gioco sui templi millenari spesso ricoperti dalle gocciolanti foglie dell’umidissima giungla, i branchi di possenti bufali e infidi coccodrilli che si scaldano al sole sulle rive di stagni, gli aironi bianchi e le splendide farfalle dai mille colori e quando si arriva al mare le enormi meduse e i gabbiani che seguono le navi.




Oppure le persone come i nudi rematori, le prostitute lungo i canali delle città più grandi, i ragazzini che giocano in pozze limacciose, i pescatori che cantano per paura dello spirito dei defunti, le bellissime bambine dagli occhi neri e tristi, i monaci in saio giallo, gli inglesi coloni invece vestiti di bianco, oltre ai venditori dei brulicanti bazar e i tanti, tantissimi indiani che viaggiano sui treni e per i mari, sui fiumi e tra le foreste.
Ma qual è il senso profondo dell’India? Cosa ci trasmette per davvero la sua natura?
Madre Natura si esplica in India con tutto il suo fascino e tutta la sua potenza, non è un paesaggio classico, poetico, dolce ma un paesaggio forte, selvaggio, qualcosa che suscita un misto indefinibile di paura e ammirazione. Il verde e i fiumi non sono bucolici ma infiniti, la pioggia non è silenziosa e sottile, non c’è la grigia vallata o il laghetto romantico.
Qui regnano gli acquazzoni tropicali che si portano via tutto, qualche volta i raccolti, altre i villaggi. Qui dominano le acque fangose, le piante enormi, i fiumi che scorrono da millenni dentro le foreste. In questi scenari non c’è niente di sereno e di tranquillizzante, eccetto che sul litorale di Goa a sud magari, le distese di acqua e terra non finiscono mai, l’atmosfera spesso regala inquietudine e mistero, la sensazione che trasmette la natura indiana negli appunti di viaggio di scrittori come Hesse è di un qualcosa di lontano, seducente e insieme di inafferrabile e pericoloso. Ci sono le giungle impenetrabili, le alte e brulle montagne del nord, l’oceano sconosciuto, i rumori della notte, il corso nascosto dei fiumi. E tutte queste forme viventi che nascono da terre umide, tutte queste acque, steppe, maree di verde sono per l’autore di “Siddharta” la metafora di una vita antica e insieme nuova, pura e rigogliosa.

L’India per lui e per molti altri intellettuali è un paesaggio fertile, simbolo di nascita e distruzione, un ritorno alle fonti della vita.
E così come la Natura anche il pensiero, la filosofia, la religione, hanno basi primitive, semplici e solide. Se l’India sopraffà, sfinisce i viaggiatori occidentali col caldo, il vento, la polvere, la sabbia, le zanzare, gli insetti, l’odore dell’olio di cocco, dei bastoncini di incenso e delle fogne a cielo aperto, l’impossibilità per parecchi giorni di fare un bagno nell’acqua pulita, se in questo fantastico lembo di oriente tutto è precario e sospetto, il cibo come il letto, il cambio delle monete come l’orario dei battelli, il senso di arte, dei e dottrine è invece assolutamente profondo e saggio, bello e vario.
L’India e l’Asia non hanno la tecnologia, la cultura e le ricchezze delle potenze europee (magari oggi le cose stanno anche cambiando…), ma Hesse ci ricorda che “da lì erano venuti i popoli e le loro dottrine e le loro religioni, lì erano le radici di ogni creatura umana e l’oscura sorgente di ogni vita”.
Queste terre per secoli saccheggiate e avvilite dai coloni europei hanno insegnato loro la bontà e la semplicità e anche quando qualche religione diventa “scadente, corrotta, esteriorizzata, imbarbarita, venduta, ha pur sempre un credo, una fede, una forza comune e potente, onnipresente come il sole e l’aria, flusso di vita e atmosfera magica”.

Qui insomma si può sentire lo spirito dei tempi e l’anima dell’uomo, un senso di diffuso di pace, di armonia e di amore universale, e l’Europa violenta, opulenta, superficiale queste cose le ha perse: “il nostro bagaglio di conoscenze sulla vita interiore, sul dominio degli impulsi, sui metodi per coltivare l’anima è del tutto inesistente” (Hesse, “I discordi di Buddha”).
Ecco cosa cerca Hesse nei templi di Buddha, nei pellegrinaggi in Oriente, nel fiume lento, negli spaventosi temporali, nelle impressionanti foreste: i ponti magici col passato dell’uomo, una filosofia dell’etica e del profondo.
Chiaramente un paese del genere, una natura del genere si prestano più a speculazioni metafisiche che a indagini turistiche, non ci viene in mente l’India di Kipling, o un’avventura alla Sandokan, ma l’India di Siddharta, di tutti i viandanti e di tutti coloro che cercano il senso della vita.

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