Un puntino nell’oceano
Piccola, minuscola, piatta. E spirituale. Infilata tra i flutti del Mare del Nord, dopo un’altra isola, quindi una specie di isola dell’isola, ancora più remota, ancora più pura e totalmente in balia degli elementi della natura. Che sono le onde dell’oceano, prati verdissimi e liscissimi come campi da golf, candide e fredde spiagge alternate a baiette di ciottoli neri, un vento che parla, i famosi buoi scozzesi con la zazzera rossa e le centinaia di pecore bianche che risaltano nel paesaggio. Appena a un miglio marino dalla Isle of Mull, nelle Ebridi interne. E a 3500 km dalle coste del Canada, come dire, a tu per tu con le distese azzurre e infinite.

L’abbazia della fede
In più Iona ha una magia, un luogo che rappresenta molto meglio di tanti altri la forza e la perseveranza della fede cristiana: la sua antica abbazia di pietra grigia che guarda il mare, dove fu scritto una parte del celebre Book of Kells, il Libro dei Vangeli conservato al Trinity College di Dublino e dove San Colombano sbarcò in tempi oscuri con altri dodici monaci guerrieri nel 563 d.C a tentare la sua missione evangelica tra le feroci e pagane popolazioni dei barbari Piti e Scotii.
Più volte distrutta e più volte restaurata la Iona Abbey fu per secoli un vero faro religioso, culturale e artistico della cristianità e si trasformò da inizio ‘900 in un luogo di pellegrinaggio e in rifugio di pace. Ai missionari eredi di San Colomba, più volte minacciati dalle incursioni vikinghe, ma capaci di avviare sull’isola anche attività agricole e pastorali, si sostituì una comunità di monaci benedettini che più che mai qui, in un angolo di mondo dimenticato e lontano, onorarono al massimo la regola dell’Ora et Labora, restaurando i ruderi del vecchio luogo di culto, strappando ai campi e al mare di che vivere, miniando codici, studiando testi sacri, portando un alto esempio di civiltà tra lande fredde e desolate e costruendo probabilmente le prime case dell’isola.
Un premio e una promessa
Arrivare a Iona col tempo inclemente è un premio e insieme una promessa. Un premio perché partiti da Oban, deviazione voluta durante un tour nelle highlands scozzesi, la mezz’ora trascorsa sul mare mosso e l’oretta di attraversamento dell’arida landa di Mull ci sono sembrate davvero infinite.
Tutto grigio, la nebbia quasi a toccare terra, a nascondere, anzi a rendere inquietante la brughiera, i colori delle casette di Mull visibili solo al ritorno, una pioggia di quelle che ti inzuppano senza speranza. Una promessa perché sapevamo – parlo di un gruppetto di cinque amici italiani e spagnoli tutti ammucchiati dentro una tenda a igloo che mi chiedo ancora come sia stato logisticamente e igienicamente possibile… – che al di là del mare ci accoglieva un luogo splendido, prezioso e per certi versi unico. Uno di quei luoghi che ti rendono più libero e più forte e che emana più energia di quella che ti aspetteresti da una scheggia di roccia e di prati persa nell’oceano.

Alla ricerca di Macbeth
Intanto su Iona cammini o vai in bicicletta, le macchine restano al porto di imbarco di Mull. Poi appena ti inoltri nel verde e punti quello del campo da calcio dove la tenda verrà orgogliosamente montata (!) cominci a vedere i simboli dell’isola, le sue croci celtiche che si stagliano sul fondale azzurro. Da una collinetta si vede che i raggi del sole trovano spazio tra i nuvoloni e si gettano sulla vecchia abbazia, un luogo che solo a vederla e senza saperne niente ti trasmette qualcosa di spirituale.
Da ateo ho sentito anche io qualcosa di forte e solo in tre occasioni nei miei viaggi: una mattina presto d’inverno nella Basilica di Assisi davanti agli affreschi di Giotto, sotto il monastero di Amorgos nelle Cicladi e qua, bagnato, infreddolito, con questa severa chiesa che parla di tempi antichi, monaci coraggiosi e colti, rituali millenari.
Dopo aver visto il chiostro dell’abbazia la poesia tipica della landa nordica te la regala il cimitero sul prato dove vicino alle lastre di pietra sotto le quali ci sono i resti degli antichi re di Scozia, Irlanda e addirittura Norvegia cerco la tomba del crudele Macbeth di shakespeariana memoria che alcune fonti dicono essere sepolto qui, proprio accanto alla sua vittima, il Re Duncan. Non c’è una tragedia del grande uomo di teatro inglese che mi ha colpito più di questa: per le sue tenebre, la sua potenza, gli scenari che è capace di evocare, la caduta nell’orrore e insieme nel rimorso simboleggiato da quelle mani di Lady Macbeth sporche di sangue e che nessun sogno lava mai via.

Uno di tutto
Un’isola sperduta, l’eco di Macbeth, i vagabondaggi liberi sulle dune erbose per fotografare le mucche più simpatiche e pelose e rosse mai viste durante un viaggio, i greggi di pecore che sembrano macchie di ovatta sul prato smeraldo. L’aria fresca, tersa, il respiro del mare, la sua acqua trasparente che tanto affascinava anche i poeti romantici come Keats e Wordsworth, il pensiero alle burrasche e alle aurore della lunga notte invernale e nel frattempo la lenta scoperta delle vie di campagna e delle case abitate da una comunità di neanche 200 persone: qui le chiamano crofts, hanno i tetti di paglia o di ardesia, le porte rosse o blu, le pareti verniciate di bianco.
Ci dividiamo per gioco per un paio d’ore, d’altronde in 10 kmq non ci si può proprio perdere, ognuno di noi cerca un sentiero, un’ispirazione, scatta foto ai panorami più suggestivi e solitari, ai fiori selvatici, agli animali che brucano sui pascoli e che trotterellano verso l’oceano, ai recinti che non recintano niente, alle cassette postali, alle bici coi bambini che spariscono tra le dune, alla croce di San Martino ornata di episodi biblici, alla croce alta tre metri del clan dei Mc Lean…
Mi sono sempre piaciuti i posti come Baile Mor dove c’è uno di tutto: una scuola, una chiesa, un ufficio postale, un campeggio, un emporio, un medico, un prete, uno anzi due pub, una manciata di locande per i turisti. Poi la sera al pub eleggiamo gli scatti più belli o più tipici e per premio ovviamente si vincono boccali di spumosa birra rossa. Già, la sera… cosa ci capiterà a Iona?

Notte a sorpresa
Potevamo trovare rifugio nel cottage adibito a ostello, nei piccoli e puliti BB, invece complice una bella giornata finita con un tramonto di fuoco ci sentiamo tranquilli e tentiamo la sfida: “la tenda va piantata nell’area di rigore” del campo da calcio che guarda il mare.
Prima la partita più divertente del viaggio, poi la notte che avanza.
“Non succederà niente, siamo protetti dallo spirito di Macbeth”.
Invece comincia a piovere, ma a piovere come se non dovesse finire mai, col contorno di lampi e tuoni, col vento che sembra possa sbattere la tenda direttamente in fondo alla rete, per un tragicomico gol scozzese!
Bene, sono più o meno le quattro di notte, dico forse perché l’orologio in una tenda non si trova mai. All’inizio la sensazione è quelle delle chiappe bagnate, del ditone infreddolito (“sarà l’umidità della notte e del prato… sarà il sacco a pelo che dopo tante avventure giustamente sta per tradirmi”) ma la scoperta che avviene ad occhi aperti e corpi ben svegli è micidiale: sotto di noi in pratica passa un torrente, il campo non era in perfetta pianura e l’incanto del giorno passato a Iona ci ha fatto distrarre nel momento cruciale della scelta del terreno (anche se penso che non ci avrebbe salvato neanche un ingegnere o un geologo). Ciaff, fino all’alba restiamo raggomitolati e zuppi, battendo i denti, ridendo come si ride solo quando si è giovani e incoscienti.
Ultimo sguardo
Il giorno dopo comincia quindi col rito dell’asciugatura dei piedi, dei calzini, delle scarpe, della povera tenda. Acrobazie di gambe piegate sotto il phon del bagno pubblico.
Prosegue con un’abbondante colazione sul prato. Con la visita di The Nunnery, il complesso monastico costruito più o meno ai tempi dell’abbazia e che si rivela un altro spazio semplice per la preghiera. Con un altro giro in bicicletta, seguendo a caso il profilo dei muretti a secco e riposando sulle lingue di sabbia. Lasciandovi le orme. Con le soste meditative sulle panchine, che da posizioni strategiche guardano i monumenti e il mare.


E se restiamo?
Devo dire che quando il traghetto bianco, rosso e nero della Caledonian si affaccia sul molo a significare il nostro rientro nella Scozia continentale e nella “civiltà” ci prende un po’ male, specie a me. I miei compagni di viaggio mi prendono in giro perché è una frase che dico spesso ma “aprire un BB o un pub qui no? Lavorare un orto, mettere in mare una barchetta, aspettare gente curiosa come te a cui fare da guida turistica in riva all’oceano? O nell’isoletta greca? O sulle ande peruviane? O nell’isola tropicale?” Insomma, avete capito, sono quei sogni, quelle nostalgie che prendono! Che fanno parte dei viaggi, dei viaggi in cui ti senti bene, parte di un’isola, parte di un paesaggio.
Invece partiamo, lasciamo la comunità locale alla scoperta di nuovi modi di vivere e intendere il Vangelo: ce lo hanno confessato dei ragazzi al pub, che qui tra il vento e i fili d’erba sono rimaste solo delle famiglie di ecumenici in cerca di risposte diverse da dare alla vita… Era il 1938 e tale Mc Leod (in Scozia il Mc è un’istituzione e fa venire in mente saghe e clan col kilt, le cornamuse e i baffoni) decise che su questo scoglio potevano lavorare e vivere insieme delle persone animate dalla ricerca di un cristianesimo sociale e puro e che Iona poteva essere in grado di ospitare anche persone bisognose come i malati di mente, i bambini scappati di casa, i disoccupati disperati o i criminali redenti.
Forse è un’isola amata tantissimo anche per questo, perché la comunità che attualmente vi risiede è stata capace di nobilitare al massimo il lascito spirituale di San Colombano.
Ciao Iona, anzi Aiona, ciao isola sacra, isola magica, prova per sempre a rimanere così: un esempio di vita frugale e lenta, un minuscolo paradiso spirituale, una prova geografica della santità.

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