Arequipa, la bianca
Dopo dieci ore di buche sul bus notturno da Nazca, annunciata da grandi vulcani come il Misti, sempre coperti di neve, Arequipa si svela subito come una bella città, bianca e coloniale, vivace e solare.

Per via dei numerosi terremoti ed eruzioni che hanno sempre colpito queste zone le sue case sono in prevalenza basse e costruite in pietra vulcanica, l’elegante sillar.
La Plaza de Armas ospita la Cattedrale, i giardini e i portici e ovunque si aprono allo sguardo vie incantevoli, patios, portali scolpiti e balconi fioriti.
Arequipa sembra una città andalusa, la gente e i ritmi di vita sono simili all’Europa, così i negozi, i servizi e gli istituti culturali. La seconda città del Perù ha un milione e mezzo di abitanti, un carattere molto borghese e non si vedono i mendicanti di Lima. I suoi Caffè sono frequentati da tanti studenti, i suoi mercati sono colorati ma anche puliti, nelle belle taverne la carne e la birra sono ottime e la notte scorre leggera tra bar e divertimenti.

In Monastero
L’attrazione maggiore di questo centro, patria dello scrittore Vargas Llosa e nello stesso tempo dell’ex capo di Sendero Luminoso Guzman, è il Monastero di Santa Catilina, del 1580, che, aperto soltanto nel 1970 dopo quattro secoli di clausura, ospitava le giovani religiose appartenenti alle classi più agiate del Perù de los siglos de oro.
Nel secolo dell’ossessione religiosa e dei titoli nobiliari, delle ricchezze e delle spade, la vita delle monache passava tra silenzi e preghiere. Oggi è assai piacevole passeggiare fra le casette color pastello acceso, rosso scarlatto come turchese, i vicoli e i chiostri freschi e profumati, le piccole cappelle, l’ombra degli aranci, le cucine spartane, ma il pensiero va soprattutto a quelle donne (erano sempre felici, convinte?) capaci di rinunciare a tutto, ai viaggi, ai banchetti, al sesso, ai contatti sociali.

Ci sarà stata sotto il vulcano di Arequipa, sotto le volte del convento qualche Monaca di Monza, qualche spirito inquieto?

Dove cominciano le Ande
Si lascia Arequipa, si raggiunge l’altro lato del grande cono del Misti e lì sembra esserci una frontiera, la porta d’entrata in un mondo diverso, in un paesaggio bello e puro, arido e infinito. Nella valle del Colca dominano la scena le vette dei vulcani e le rotaie del treno per Puno sembrano perdersi nel deserto. Qua e là si vedono impauriti gruppetti di vigogne, il dono del Dio Inti alle sue genti per proteggersi dal freddo. Le Ande cominciano davvero.

Sacro come la vigogna
La vigogna era l’animale sacro degli Incas. Soltanto la famiglia reale, gli alti dignitari e le giovani vergini scelte come ancelle dal sovrano potevano vestire quella preziosa e morbida lana, il mitico “vello d’oro”. L’animale veniva cacciato con rispetto e regolarità, ogni quattro anni: una volta accerchiato un branco venivano tosati i cuccioli e le femmine (ci voleva la lana di venticinque di loro per creare una casacca!) e uccisi per la carne i maschi e i malati. Con gli avidi e violenti conquistadores la lana di migliaia di vigogne riempì le stive delle navi per Siviglia e l’animale rischiò di scomparire. Oggi per fortuna sono tornati a essere una specie protetta e abitano come eleganti e dignitosi guardiani questa puna grande, fredda, brulla, questa desolata steppa d’alta quota del Sudamerica spazzata dai venti e con poche macchie di cespugli. Appena scendiamo dal camioncino ci guardano un attimo e agili scappano via. Sono bellissime.

Le preghiere di Luis
Il cammino prosegue su strade polverose, profonde fenditure che scavano l’altopiano, strani picchi che ricordano i Camini delle Fate della Cappadocia e che vegliano su villaggi addormentati. E poi lagune colorate con gli ibis fermi a bere, indios silenziosi piegati sotto un fagotto di erbe o di pelli di lama, mucchietti di pietre a cinquemila metri e la guida Luis ci spiega che sono preghiere e voti dedicati agli Apu, gli dèi delle montagne. Desideri di roccia, sparsi in un panorama surreale.
Luis è appunto l’autista, un meticcio tozzo e taciturno, che all’inizio litiga con un poliziotto, che sembra un burbero, un frettoloso, e che invece non sbaglia una curva, fa mangiare la polvere agli altri e si ferma per tutte le foto che vogliamo. Prima di ogni ripartenza le sue mani toccano con affetto un piccolo crocifisso bianco e lo portano alle labbra. Un bacio leggero, un segno della croce delicato e sentito, gli occhi che si riposano un attimo e via nel canyon, la sua strada, la sua vita.
Le ore di Chivay
Chivay è il capoluogo del Colca, a cinque ore e varie foglie di coca da Arequipa. Impariamo qui quel rito contadino che si ripeterà sulle vette andine di Machu Pichu o nella Cordillera Blanca di Huaraz o vicino alle miniere boliviane di Potosì: la foglia di coca non è una droga, serve bensì a prevenire “el soroche” il mal d’altura. A sopportare meglio il freddo e la stanchezza. A rilassarsi.

Fa freddo a Chivay ma la notte andina a 3800 metri regala un cielo pieno di stelle, mai sembrate così presenti, così vicine. Alcune vecchie siedono dall’alba al tramonto agli angoli delle vie, hanno uno sguardo antico e sapiente, sono protette da pesanti coperte, vendono zuppe e tessuti di lana, non si muovono mai, forse, ma impercettibili, al massimo mescolano lo stufato con un cucchiaio.

Siamo a pochi giorni dal 28 luglio, festa nazionale per Chivay e quindi fervono i preparativi. I bambini sfilano sul campo sportivo con costumi e trombette, marciano malissimo, le trombe stonano da morire, le divise sono logore o larghe ma tutti gli indios fanno le prove con amore e mostrano un senso della patria che in Europa temo che abbiamo perso.
Nel capoluogo e negli altri villaggi del Colca che non sono altro che mucchi di casette sperdute interrotte dagli orti e dai muli, da chiesette diroccate e da campi di pallone senza linee, sono sicuro che non si dice “ci vediamo alle 08.00, alle 12.00, alle 21.00” ma piuttosto “ci vediamo all’ora del mercato, della messa, della taverna”. Nel Colca non esistono tempi se non quelli scanditi dal raccolto e dal pascolo, dal bus della scuola e dalla campana. In ogni caso la giornata per gli indios comincia presto: alle 07.00 mentre tu in jeep e giacca a vento ti prepari all’escursione imperdibile che si fa in questo canyon, li vedi già preparare il mercato, giocare a pallone con berretto e guanti, o prendere, rassegnati, la via dei campi. Del Colca non si dimenticano i tramonti freddi, rossi e viola e le bistecche di alpaca e meno ancora i bambini, bellissimi, gli occhi scuri, le guanciotte, un sorriso sul triste, le mani screpolate dalla terra, dal sole e dal gelo. Che tenerezza quando spariscono sotto gli scialli delle mamme.

L’animale-dio
E infine la magia e il senso del viaggio nel Colca: il volo del condor, lento, solenne, maestoso, da animale-dio. In silenzio assoluto il condor sale dall’abisso, appare da lontano, nero, con le ali spiegate che raggiungono i due o anche i tre metri e che quando ti passa vicino nell’aria resta il suo sibilìo.
E’ difficile da spiegare ma il condor così grande è anche leggero, perché sposta l’aria con dolcezza. Le prime volte lo vuoi guardare, fotografare, ma poi capisci che la sua magia è nel suo “sonido”, nel semplice suono del suo volo, in quel suo passare così leggero, così mistico. Questa è un’emozione che non se ne va più: tante volte nel traffico di Roma ho ripensato al suono del condor. Perché nelle nostre città i rumori soffocano così le percezioni?

El condor pasa
Ecco, ne arriva un altro: il condor vola alto sulle Ande, il vento lo spinge vicino al sole, sparisce fra le vette, raggiungerà l’oceano dove si nutrirà di pesce, placenta di foca e pulcini di pinguino. E poi, non si sa come – li hanno abituati i contadini preparandogli dei ghiotti bocconi? è un uccello curioso che cerca di comunicare con gli uomini di questi villaggi? il suo passaggio è casuale? o è un mistero delle Ande? – ma alle 09.00 di domani mattina, puntuale come un bus tedesco, un gruppo di condor volerà ancora vicino al Mirador del Colca, dove intanto le contadine hanno ovviamente sistemato tutte le loro merci e tessuti colorati. Un mercato panoramico tra i biù belli al mondo!

E’ facile pensare come il condor sia ancora l’animale-mito per gli eredi degli Incas. Il suo aspetto, il suo incedere, le sue ali e il “sonido” sono mitici e la cornice dei monti dà alla scena un’ulteriore purezza e un alone mitico di autorevolezza. Le leggende e le musiche del Perù raccontano (vedi “El condor pasa” per esempio, che qui vi proponiamo nella versione di Simon & Garfunkel https://youtu.be/QqJvqMeaDtU) che il volo del condor è la metafora del Dio Inti che dal cielo guarda benevolo o indifferente il destino degli uomini.
A tutti noi, viaggiatori di ogni parte del mondo arrampicati sulle rocce, con gli occhi verso l’orizzonte, col fiato sospeso, la vista di questo re solitario ispira grande emozione, gratitudine e rispetto. Dopo i primi “ooohhhh” di meraviglia tutti restiamo assorti a contemplarlo. E l’evoluzione di una coppia di neri giganti sembra un balletto e un ultimo saluto prima di scavalcare le Ande.

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