Una regione, non una città
El Cuzco (i peruviani lo chiamano così, una città che diventa luogo e casa, regione magica, geografia dell’anima) è soprattutto una cosa: evocazione. Di tempi passati, pietre robuste, piccoli uomini, miti andini, suoni di flauto, città perdute. In lingua quechua significa “ombelico” ed è quindi naturale pensare a questo posto come il centro del Mondo Inca, la grande e splendida capitale di quello che loro chiamavano “el valle sagrado”, un mondo alto, percorso dal fiume Urubamba, abitato da Apu (gli dèi delle montagne) e greggi di lama e con incredibili tesori nascosti come Machu Picchu.

Sincretismo tra 2 culture
Cuzco è anche l’esempio di un sincretismo culturale unico al mondo, quello degli inca e degli spagnoli, dell’impero indio e di quello della spada e della croce, un mondo costruito sopra un altro mondo, coi palazzi nobili alzati sopra le pietre giganti e le chiese barocche che hanno preso il posto di templi lastricati d’oro. L’evocazione è questa, in ogni muro ed a ogni angolo si sente il respiro di due civiltà, di due culture.

Che posto è Cuzco
La città è situata a 3400 metri e secondo la leggenda fu fondata dai figli del Dio Inti, in cammino dal Titicaca, nel luogo dove il loro scettro sprofondò nel terreno. Presenta un dedalo affascinante di stradine, di mercati variopinti dove si possono comprare tappeti e maglioni (ci sono molto affezionato perché mia moglie mi conobbe con un maglione di Cuzco addosso!), di eleganti piazze e chiese spagnole che si aprono spesso su patios dell’età coloniale. Ma tutto intorno la sorvegliano le fortezze immortali e i favolosi panorami della Cordigliera.
Cuzco ha una forte identità indigena, rappresenta anche nell’età moderna il luogo spirituale degli indios andini, il luogo eletto e sacro, dove si trovano la storia e i miti, le radici e i ricordi, le feste e il folklore più autentici e sentiti. La sua atmosfera è molto poetica per i tetti e i balconi fioriti, i portali di legno e i conventi, gli spazi silenziosi dove enormi pietre, chissà come, si incastrano alla perfezione.


Calle Triunfo e il Barrio di San Blas sono piene di botteghe artigiane e gallerie d’arte, ottime locande e Caffè. Fra un museo e un giro nella città vecchia, le contrattazioni sempre divertenti nei mercati e le notti di ballo nei locali, le gite tra la cultura e la natura dei dintorni, Cuzco è il luogo ideale per fermarsi almeno una settimana nel Perù più bello e misterioso. La stessa che potrebbe servire per ragionare su come hanno fatto gli Inca a incastrare in un muro la famosa pietra dei dodici angoli!!!


Vibrazioni
Inoltre ci sono vibrazioni, c’è un’aria cosmopolita molto eccitante, per via dei tanti giovani turisti che con le loro facce da angeli sporchi, da viandanti liberi, visitano tutti gli angoli della valle sacra e fanno il meraviglioso trekking di Machu Picchu. A Cuzco davvero l’archeologia “fa sentire cose”. E l’atmosfera la fanno anche queste facce intense.
Verso sera si ripete sempre la stessa magia: si cammina lenti per i vicoli freddi, su e giù per le salite e le montagne, magari ha appena piovuto e le luci dei lampioni si riflettono sul selciato bagnato, si entra nelle taverne, si balla con belle sudamericane come la Lily del treno, si resta immobili a osservare le grandi pietre che compongono i muri della città, si ascoltano le melodie andine, brillano chiare le stelle.



I rassegnati
Un altro incontro importante nel Cuzco per me è stato quello con Emma, una missionaria laica di 65 anni, persa ormai da anni sulle Ande, la vita dedicata a delle orfanelle e ai contadini più poveri del Perù e della Bolivia. Mi apre gli occhi sul problema della coca – “per gli indios non è una droga ma cibo, medicina, resistenza al gelo e alle fatiche, una pianta culturale, non certo allucinogena” – e condivide le mie idee sulla fine di Che Guevara che nella vicina Bolivia morì perché ormai era isolato, sconfitto e triste, visto che “tra questi monti si vive una realtà amara, ci sono le persone più rassegnate del mondo”.
Rassegnati gli indios, è vero. Mi fecero la stessa impressione le foto di Martin Chambi in bianco e nero a una mostra dell’ILA (Istituto Latino Americano) di Roma prima di partire per le Ande. Erano ritratti in cui c’era amore, dignità ma anche tanta malinconia, come quella delle rovine, come quella portata dal vento. Pieni di memoria gli indios, anche. Arguedas nel suo romanzo “I fiumi profondi” così descrive Cuzco di notte: “…apparvero i balconi scolpiti, le facciate imponenti ed armoniose, la prospettiva delle strade ondulate, alle falde della montagna…nel buio della strada, nel silenzio, il muro sembrava vivo. Ovunque vada le pietre che fece fare Inca Roca mi accompagneranno”.

Le leggende
Cuzco è evocazione pure per le sue numerose leggende. Quella di un Cristo dalla pelle scura che ferma i terremoti e si ringrazia nella Cattedrale; quella di un principe inca chiuso in una torre e pronto a far rinascere un giorno il grande Impero del Sole; quella del pianto della campana; quella dell’oro del Tempio del Sole nascosto da secoli in qualche tunnel maledetto e con vari esploratori morti per cercarlo…
Le grandi fortezze
Il giro delle fortezze a piedi o in corriera o in bicicletta attorno alla città serve invece a capire fino in fondo tutta la magia delle pietre. Perché il Cuzco è una civiltà basata sulle grandi pietre. Un ripido sentiero porta alla poderosa muraglia di Sacsahuayman (nome inca per “Aquila Reale”), il più grande complesso difensivo imperiale, il simbolo stesso della potenza, della gloria, della religione dell’impero. La vista di questo luogo sacro mette i brividi, per davvero. Per alcuni studiosi i tre giganteschi bastioni che su tre diversi livelli corrono paralleli per 360 metri rappresentano la linea spezzata del lampo a dimostrare che la funzione di queste pietre era quella di una specie di santuario dedicato alla divinità della tempesta. Ad avvalorare tale tesi la presenza di un torrione che fungeva nella sua cavità da serbatoio d’acqua dove gli Inca studiavano il cielo riflesso.

Ma Sacsahuayman era un sito soprattutto famoso per i riti, le cerimonie, i sacrifici umani e le feste popolari come religiose. Gli Inca decisero di costruirlo sopra Cuzco, a difesa della città (fu proprio lì che per un breve tempo riuscirono a respingere gli assalti dei conquistadores) e per celebrarvi le feste del Sole. La tecnica costruttiva è tipica di questa civiltà ovvero l’incastro tra loro di grossi blocchi di pietra. Quanta fatica e quanti schiavi a erigere un monumento del genere: furono impiegati 200.000 uomini nel corso di 50 anni, secondo alcune cronache storiche!! Arguedas le definì “pietre di sangue bollenti”, lo stesso Guevara giovane in giro per le Ande ne rimase impressionato.
Quassù ogni 24 giugno va ancora in scena l’Inti Raymi, la festa del sole e del raccolto. L’ho sfiorata ma ho letto di una fastosa cornice di costumi, balli, fuochi sacri, sfilate folkloristiche di gruppi etnici, sacrifici di lama addirittura! Una specie di teatro sacro, di dramma andino. Con qualche ubriaco e qualche turista di troppo a rovinare l’intensità del momento.

Le altre rocche e fortezze sono il labirinto di Kenko, un tempio dedicato alla Terra, Puca Pucara che riflette la luce del sole col suo granito rosa e Tamba Machay ovvero i Bagni degli Inca, una residenza estiva che era anche un tempio per l’adorazione di una sorgente. A est di Cuzco si possono poi visitare le rovine del centro amministrativo di Piquillacta, un lago selvaggio e la chiesetta con pitture rupestri di Andahuayllas, la cui piazzetta ricorda le sonnolente atmosfere messicane o cubane.

Valle Sagrado on the road

Arriva il momento di esplorare tutto il Cuzco, di perdersi nel suo ombelico, nella sua Valle Sacra, con giorni indimenticabili vissuti “on the road” fra paesini, mercati, montagne, siti archeologici spazzati dal vento, scenografiche saline dalla storia tormentata. Decidiamo in base all’istinto del giorno oppure in base al giorno di mercato per vedere più colori, più genti. Cuzco come base, i bus come mezzo, io e il mio amico Massi come protagonisti, leggeri e contenti.
Il mercato di Pisaac

La Valle Sacra è una bellissima e verdissima conca, offre un senso di pace, il fiume scorre tra i campi, la musica dei flauta de pan scorre nell’aria, la pelle dei bambini che incontriamo sembra di cuoio antico, per via del forte sole e del forte vento del Perù del sud. La prima tappa è Pisaac e Pisaac significa mercato, perché il giovedì e la domenica ospita uno dei mercati più tipici, più gioviali e più colorati delle Ande. Sfilano le varie comunità montane coi loro prodotti, costumi e balli, e ogni gruppo vuole distinguersi per la sua bellezza e prosperità proprio quando tutta la gente della grande vallata si ritrova a Pisaac per spettegolare, comprare e guardare. Che confusione tra le pile di coperte, le casse di frutta, i ciondoli decorati e le decine di brocche! Tutto finisce con la messa in quechua nella chiesetta diroccata e con la sbornia collettiva. L’inchino davanti a Dio e poi alla bottiglia, il mercato e poi il riposo. All’ombra del Tempio della Luna e dei resti di un cimitero.


La piazza di Chinchero
Chinchero è un altro spettacolare villaggio del Cuzco. Tra la polvere, gli eucaliptus e le sue case bianche vivono dieci ayllus, comunità contadine che si aiutano in tutto, nei raccolti di mais e di legna e nei turni al fiume per prendere l’acqua, nelle lezioni a scuola e nelle vendite al mercato, nella costruzione delle stalle e nel restauro della piccola missione coloniale che, come al solito, per la già descritta teoria del sincretismo o meglio del mondo che si ingoia un altro mondo, è costruita sulle rovine di un tempio inca. A Chinchero arriviamo che il mercato artigianale è quasi finito, l’atmosfera è da fine festa, si ripiegano le ultime coperte, i bambini giocano con gli aquiloni e col pallone su un grande prato e le pietre inca fanno le veci dei pali della porta. La piazza di Chinchero è incantevole, con quel suo offrire poco che significa offrire tutto: non ci sono negozi classici con le insegne e le scritte, piuttosto nicchie o cubetti di calce bianca con appesi sulla porta codici di comunicazione primitivi, stracci colorati o bastoni secchi o corde intrecciate… significa che là dentro si vendono tessuti o utensili o sacchi di patate. Mangiamo uno stufato di pollo piccante nella locanda del piccolo Julio Cesar che lancia come ogni giorno aeroplanini di carta ai camion che passano.

I cerchi di Moray
Moray è un antico campo inca, con le terrazze agricole costruite a cerchi e usate anche per cerimonie e riti. Intorno a questo magico anfiteatro che ricorda il santuario di Delfi in salsa andina ci sono solo aridi altopiani deserti, pastori, pecore, tanto vento.


Le incredibili saline di Maras
Maras sembra invece il paese di nessuno, con le sue strade semivuote, le nuvole di polvere, le facce umili e i suoi due bar con due bottiglie. Dopo alcuni chilometri si scoprono le saline di Maras, principale fonte economica del villaggio, gestite come spesso capita nella Valle Sacra in maniera cooperativa. Mentre scrivo mi devo fermare un attimo, socchiudere gli occhi e ripensare a quel quadro di sconvolgente bellezza, uno dei miei ricordi più intensi del viaggio in Perù.


Le saline sono centinaia di vasche di sale, pozzi da cui esce un bianco bagliore che illumina i fianchi della montagna. Azzardo un paragone con altre latitudini e altri colori: le vasche dei tintori di Fès, in Marocco. A Maras i terrazzamenti li crearono gli Incas, convogliarono in un canale le acque ricche di salgemma sgorganti dalla roccia, costruirono con le pietre delle vie di scolo e dei sistemi di chiuse e infine suddivisero il terreno in piccoli appezzamenti nei quali, evaporata l’acqua, il sale si depositava. La magia del luogo è data proprio dalla luce bianca del minerale. La fatica del luogo è data dai metodi di lavoro, gli stessi da 500 anni a questa parte.

Dante e il destino del sale
La gente di Maras perduta nel mondo (l’ex presidente Fujimori decise di atterrare col suo elicottero proprio qui per fare propaganda, promettere una strada e il miracolo della civiltà…) si alza all’alba e va verso i pozzi del sale. Ci si piega sopra, scava a mani nude, raccoglie, suda. Passa la vita così, piegata sulle saline, col sale sul viso, col sale sui vestiti. E quando arrivi lì, con un’oretta disposizione e la macchina fotografica è pronta a catturare quelle tonalità bianche, ocra, gialle e vedi Dante, 12 anni, che non va a scuola ma vive sulla montagna del sale e ti fa la guida turistica e ti racconta quanti giorni aspetta per riempire un secchio di sale e ti confessa che guadagna 5 Euro al quintale capisci che il posto da favola è in realtà un posto di dolore, di vita dura e fatiche.

Dante però ride sempre, salta da una salina all’altra, con la sua maglietta della nazionale di calcio, con quella banda rossa che contrasta l’onda di bianco. Sta sempre qui, non ha tempo per i giochi, non ha tempo per i sogni. Conosce solo il mondo di Maras e del sale e gli dedica tutta la sua passione. Ci ha commosso molto questo piccolo grande uomo, per tutto il viaggio di ritorno a Cuzco io e Massi non abbiamo parlato, non aveva senso. Ciao piccolo uomo del sale, con le mani secche di sale, col destino del sale. Forse la valle degli inca è sacra anche per questi poveri eroi.
Breve apologia del bus latinoamericano
Maras-Cuzco, è capitato un’altra volta. Come a Trinidad de Cuba, come a Oaxaca, adesso in Perù. E in questo continente che amo alla follia penso proprio che succede sempre, dalla Colombia all’Argentina. Parlo dei piccoli bus colorati e sgangherati che fra avventure inevitabili e paesaggi meravigliosi ti portano ovunque, fra sierras e selve, deserti e notti andine e sono tra le pagine più vere del viaggio.
A bordo non c’è quasi mai posto e se c’è quando sale una contadina con la bombetta e col bambino, col fagotto o con la gallina, il già precario assetto del bus viene letteralmente rivoluzionato. Spostamenti, accomodamenti, capitomboli, risate, racconti. Nel viaggio la gente chiacchiera, si conosce, si avvicina, vuoi assaggiare la mia zuppa, “mira el chico como habla bien espanol”, scendi a Pisaac che ti piacerà, fermati a vedere le saline di Maras al tramonto! Nascono spesso amicizie e confronti tra persone diverse e di paesi lontani, tra indios e turisti sensibili. Sull’ultimo bus preso, nel Valle Sagrado, guardiamo con tenerezza i visi stanchi del popolo che torna da campi, saline e mercati, e con partecipazione emotiva osserviamo i corpi distrutti dei reduci dal Camino Real di Machu Picchu: si dormono addosso e sono cotti dal vento e dal sole. Tra poco tocca a noi!!
Alle fermate gruppi di bambini e donne vendono strillando torte e bibite, ovviamente l’Inka Cola… Altre fermate si rendono necessarie per i guasti meccanici, le ruote bucate, l’olio da aggiungere ai freni o solo perché l’autista ha fame e allora fa scendere tutti alla taverna della sua cameriera o cuoca preferita!! Bei tipi davvero i guidatori di bus in America Latina: hanno sempre un crocifisso e qualche portafortuna sopra il volante, prendono le curve in maniera assurda, sparano musica salsa a tutto spiano dagli altoparlanti difettosi e gracchianti del mezzo, hanno grosse pance e baffi e un accento musicale, più musicale ancora quando annuncia fermate, orari, paesi, piatti da gustare all’osteria dell’amico.


E’ bella la vita sui bus e anche sui treni dell’America Latina perché c’è sempre qualcuno che ti sorprende o che è semplicemente curioso di te e della cultura che rappresenti, qualcuno che passa con la sua faccia, la sua arte, la sua storia, il suo viaggio. Sui vecchi bus salgono tutti, musicisti andini e venditori di dolci, hippies argentini e comici improvvisati, turiste latine col viso felice e il sacco a pelo, ex galeotti che si pentono in pubblico e chiedono un sol per riprendersi la vita. A volte il percorso finisce con una canzone, una mangiata collettiva, uno scambio di indirizzi o all’improvviso. Gente che non si rivedrà più, che però ha rappresentato gli attori di un film, i colori di un quadro, anche se per poche ore, pochi attimi. E col tempo e coi viaggi più comodi e borghesi mi è mancata l’anima di quei luoghi, quell’allegria ingenua, quella provvisorietà fenomenale.
Sul Maras-Cuzco insomma cosa è successo? Non è successo niente. Si è rotta una ruota, ho parlato di Roma a studentesse di Cuzco, è entrato un bambino a cantare, la sosta-cena è diventata una tavolata, e, al momento di scendere, la lunga treccia nera di un’india si è impigliata nel mio zaino. Non è successo niente…? Punti di vista!
L’avamposto
Ultimo paese della Valle Sacra: Ollantaytambo. L’avamposto del mitico sentiero per Machu Picchu. Sembra un villaggio di frontiera, coi portatori del trekking che nelle fredde mattine si ammucchiano sui camioncini, gli indios pronti ancora una volta a vendere focacce e bevande lungo il cammino, i turisti eccitati come noi che bevono mate e preparano i sacchi a pelo fra le cacche dei muli. E’ la frontiera, del Cuzco e della civiltà: più in là arrivano solo i lama e i viandanti, i trenini a cremagliera e gli amanti dell’archeologia e delle montagne. La notte ci sembra più notte, la natura più natura, i pochi rumori più distinguibili, le tante pietre sempre più magiche.

Ollantaytambo era anche un’antica e suggestiva cittadella inca, un centro sociale, religioso e agricolo di una certa importanza, il villaggio dove si amministravano “le finanze” del popolo del Sole. Dalle sue fortezze l’Inca Manco condusse la resistenza contro il feroce Pizarro che proprio qui perse la sua unica battaglia. L’insieme sacro dei monoliti riflette l’energia del sole, del vento, della pietra, delle vette. Ci sono, protetti da Pachamama (la MadreTerra) i resti di un Tempio del Sole, di Terme e di una Casa delle Vergini. Chissà se le stesse che, nei tempi più difficili, sarebbero poi scomparse nel profondo delle foreste, nel centro rituale magico e nascosto di Machu Picchu.
Sognando Machu Picchu
E’ l’ultimo giorno di luglio e io e Massi siamo pronti per l’avventura e delle avventure, il Camino Inca. Dopo Capo Nord, dopo Cabo Finis Terrae in Galizia e il monastero sul grande blu di Amorgos, dopo le piramidi Maya, dopo Lochness e Stonehenge, dopo Nazca, toccherò un’altra meta lungamente sognata.

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