La vista infinita
Il primo impatto con La Paz non si dimentica. Dopo gli altopiani, dopo due ore di viaggio interrotte da feste di strada e grida di venditori e pause panoramiche il bus di linea raggiunge il sobborgo nord della capitale più alta del mondo, El Alto. Con qualche tornante si arriva alla scena, a vedere La Paz, infinita, sotto le prime stelle e con la meravigliosa cornice degli Illimani, le mitiche montagne di tante melodie andine. Sui fianchi dei monti un mare di casette in adobes (mattoni misti di argilla e fango) e lamiere ondulate, ancora in costruzione o rimaste così perché mancano i soldi; le strade sterrate piene di pozzanghere, i lampioni fiochi o proprio rotti dei barrios più poveri, le periferie degli indios che si incuneano tra le piccole industrie cresciute a caso, zone militari e baracche, fogne evidenti a cielo aperto.

Un mondo alto e povero
Tutto questo è El Alto, dove le persone camminano con gli occhi chiusi per scansare la polvere, dove i bambini camminano da soli e mangiano per merenda delle banane marce, dove la gente si sveglia all’alba per scendere a valle, nella City, ai mercati, dove non c’è la stessa speranza che ho visto in qualche favela laboriosa di Rio o nella sterminata e vitale Villa El Salvador ai bordi di Lima.
Tutto questo è El Alto e il confine del quartiere è una fitta rete metallica da cui si vedono come miraggi lontani i grattacieli del centro, una rete che blocca i sogni e le fughe ideali di quasi un milione di persone. Tutto questo è El Alto che quando cala la notte accende tutte le sue luci di fortuna e si trasforma in un gigantesco presepe. E giù nella valle chi esce dai locali del centro, dalle penas (le cantine) di Calle Sagarnaga, guarda le montagne illuminate di questo pezzo di Bolivia povero ma a suo modo poetico.

La città capovolta
Scendendo a valle la città migliora, ci sono i suoi grattacieli all’americana, il centro storico e coloniale, i palazzi del potere, la zona commerciale e ancora più giù i quartieri residenziali e le ville dei ricchi, giardini e ambasciate, circoli sportivi e università. E’ una logica sociale e urbanistica rara e particolare, da inferno-paradiso capovolto.

Il centro di La Paz si gira a piedi, è molto vivace, più di Lima Centro per esempio, ed è disposto intorno a due piazze. Plaza Murillo ospita l’anonima cattedrale, il pomposo Palacio Queimado, bruciato da più colpi di stato, e quello del Presidente col ritratto di Simon Bolivar, accanto al quale negli ultimi decenni hanno trovato posto quelli del dittatore Banzer, dell’indio Evo Morales e dell’avvocato Arce. Inoltre si visitano il Museo d’Arte con quadri di madonne e Casa Murillo per scoprire in anticipo quello che ci racconteranno le strade più tipiche di La Paz, ovvero la cultura indigena e i significati taumaturgici di varie essenze, erbe, filtri e pozioni da streghe!

L’altra piazza è quella di San Francisco dove c’è la chiesa più bella di tutta La Paz, un convento barocco dell’età coloniale, carico di stucchi e di ori oltre che della costante e intensa presenza dei fedeli. Tutta la piazza è un microcosmo interessante, eccitante, pieno di colori: ci si affacciano botteghe artigiane, sedi di multinazionali, ambulanti e tombaroli di Tiahuanaco, manager e donne in bombetta.
Il bisogno della Festa
Una mattina sotto il campanile di San Francisco assistiamo a un Festival musicale di bambini. Rinnovo il pensiero elaborato in Perù e cioè che i piccoli andini non hanno nel corpo il senso del ritmo dei loro coetanei cubani e brasiliani, però sono vestiti bene, con costumi folkloristici, ci mettono una grande grinta e fanno fare bella figura alle mamme, alle loro scuole, parrocchie e quartieri. Per il resto il clima è un po’ patetico, da strapaese, i balletti sono francamente ridicoli, le famiglie troppo commosse, le maestre troppo isteriche. Una annunciatrice canta l’inno boliviano e benedice tutti, in questo paese la festa mi sembra ancora una volta un palliativo per i disagi, un felice, ripetitivo, provinciale bisogno di stordimento collettivo.

E mi chiedo: se sul lago a Copacabana la festa per la Vergine era giustificata cosa avrà mai La Paz e più in generale la Bolivia che in venti giorni abbiamo visto quasi sempre in festa? Impegnata in balli, sfilate, marcette, canti, processioni, fiere e spettacolini improvvisati che occupano ogni angolo di ogni strada? L’arte conta poco, conta però, e molto, manifestare l’essere boliviano nel folklore. La Paz è forse la città che ho visto mettere più folklore in piazza, esagerata, davvero.


Le streghe di La Paz
Per non parlare dei mercati. Non strade ma intere cuadras (gli isolati tipici delle città sudamericane con le piante a scacchiera) letteralmente invase da verdure, coperte, pentoloni, sacchetti di detersivo, animali squartati, flauti e paccottiglia d’argento (?).
In questo senso la via più suggestiva di La Paz, la sua anima india, è nel Mercado de la Hechicheria (Stregoneria) o anche detto De las Brujas (delle Streghe) dove le vecchie indigene dalla pelle rugosa (alcune sembrano tartarughe!), dallo sguardo inquietante e profondo come i capi indiani che abbiamo visto in tanti film, dalle mani sapienti che tessono o mescolano o intrugliano, molto comprese nel loro ruolo di tramite tra la magia oscura e l’umanità curiosa, impaurita, superstiziosa, assai gelose dei loro riti, vendono ogni tipo di schifezze, pozioni magiche, erbe miracolose, infusi medici, cianfrusaglie, talismani, feti di lama e animali impagliati.
Sono persone strane, esperte di cose strane ed è difficile farsi spiegare i loro poteri, i simboli, le alchimie, le conoscenze. Si tengono sotto il peso dei loro maglioni e delle goffe gonne i segreti delle sostanze in vendita. Ma forse il “mistero” fa parte del gioco.
In qualche “incantesimo” ovviamente siamo caduti anche noi ma neanche tre settimane dopo, in Ecuador, non ci ricordavamo già più nulla. Nessuna formula, nessun utilizzo, nessun filtro. Magari ci hanno ipnotizzato a distanza!


In verticale
La Paz è una città che si adatta bene agli sguardi in verticale: le bancarelle dei mercati sono disposte su ripide salite, le casacche di lana sono messe a pila, una sopra l’altra, l’occhio insegue i profili di grattacieli e dietro di loro identifica subito i grappoli di baracche che invadono le montagne. Insegne al neon, di banche, di cantine, torri della radio, campanili, tutto è sovrapposto in una bizzarra composizione geografica e urbanistica: sù e giù. La Paz è anche una città per passi lenti poiché l’alta quota, le pendenze, l’aria fredda e rarefatta, il sole forte, obbligano a pause frequenti e a respiri profondi. La Paz come ritratto e sintesi ideale della Bolivia, di un mondo alto e gelido, povero e spirituale.

La Valle della Luna
Il saluto a La Paz avviene nella Valle della Luna dove si arriva con mezz’ora di bus in compagnia di donne con scialle, bombette e trecce nere. Silenziose ai loro sedili due di loro allattano, le altre anticipano il lavoro casalingo pulendo verdure o ricamando tovaglie. L’autista ha deciso di sistemare la radio su una frequenza che ci fa conoscere i Kiarkas, “Gli spettinati”, un gruppo rock molto seguito in Bolivia. Il controcanto con le scene cui assistiamo è però evidente.
Dopo un po’ ecco lo scenario degno del film “Zabrinskye Point”, tante guglie calcaree, piccoli canyon, colline aride color sabbia e sopra di loro le nuove anonime periferie che avanzano con lingue di cemento. La valle della luna sarebbe meglio che rimanesse così, vuota e deserta.
Avventura a Coroico

Prima del viaggio. La strada o meglio la pista La Paz-Coroico è una delle più pericolose del mondo, va dalle sierras alle yungas e attraversa tanti paurosi precipizi.
I camionisti boliviani, che non si mettono mai in viaggio senza una scorta di crocifissi fosforescenti e una nutrita pattuglia di santini, la chiamano senza troppi fronzoli “La Ruta de la Muerte” perché ogni tanto, diciamo con una media di quattro o cinque tir di frutta l’anno, veicoli sovraccarichi e mezzi scassati, qualcuno se ne va giù: e Adiòs!
Questa via piena di fango, di tronchi e di massi che nessuno pensa a togliere, questo percorso di curve improbabili e strettissime, di smottamenti ingannevoli, di burroni verdi, è entrato nel Guinness dei primati per il suo alto grado di rischio e la percentuale di pendenza rispetto ai pochi chilometri percorsi. Per gli autisti andini equivale all’Everest degli scalatori! E pare che a volte, ai viaggiatori, nei periodi di maggiori piogge e quindi di frane, sia chiesta una fotocopia del documento per non perdere tempo nei tristi casi di incidenti, ricerche e identificazioni… Ecco, come preparazione al viaggio, letta sulle guide o ascoltata dagli abitanti locali, non c’è male!! Le linee di Nazca sorvolate su traballanti veicoli in confronto erano uno scherzo e io mi chiedo, a distanza di anni, davvero cosa ci portò a compiere questa sfida, questa avventura estrema, questo atto di follia.

Dopo il viaggio
Dunque il mondo si divide senza dubbio fra due categorie di guidatori, quelli che percorrono gli incroci cittadini e le tangenziali piene di traffico sacramentando per le code e lo smog e gli altri che si buttano sulla La Paz-Coroico, 96 km di pista quasi impossibili, la metà sterrati e aperti a strapiombo su un oceano di verde. All’inizio della discesa – la prima parte è fino al passo La Cumbre, 4.600 metri (!!), sempre innevato – l’autista si ferma un attimo, esce dal suo pulmino giallo, da quella che potrebbe essere la nostra simpatica tomba, getta un po’ d’acqua sulla strada e sulle ruote quasi a benedire il viaggio e il mezzo, sistema i santini intorno allo specchietto e quindi compie, ancora una volta, “uno di quei piccoli eroismi latinoamericani che il mondo dovrebbe conoscere”. Ho ritrovato questa frase di Maruja Torres nel suo libro “Amor America” per descrivere le fatiche dei macchinisti di treno sulla via dei vulcani in Ecuador!
Di questo viaggio è incredibile ricordare non solo il disinvolto stile di guida dei boliviani, il sapiente uso delle marce, il sistema teatrale di segni di intesa che mettono in atto tra camionisti per superare le curve a gomito e i tratti più difficili, l’aiuto reciproco che sono pronti a darsi se un camion fora o arranca o sbanda (ma la notte come diavolo fanno??) ma anche come cambino in fretta i paesaggi e le persone. I monti e la neve lasciano spazio alle foreste, il vento e il freddo a un clima tropicale, i lama alle variopinte farfalle. Non si vedono più gli alveari intorno a La Paz ma solitarie capanne nel verde, dai visi andini e dai loro corpi piuttosto tozzi si passa ai muscolosi e armonici tratti di una splendida razza nera.

“Benvenuti in Paradiso”
E alla fine dopo tre ore di brividi e scongiuri, di risatine isteriche, di sguardi in verticale dai finestrini, dopo essere passati sopra, sotto e a fianco delle nuvole, appare Coroico, “Paraiso de las Yungas”, sì, paradiso, recita il cartello di benvenuto. E mancava poco che scoprissimo quello vero!
Le yungas non sono ancora Amazzonia, non sono piane, fitte, immense, ma di certo l’intero ecosistema non è più quello di La Paz, degli altopiani, della puna.
Le yungas sono i canyon verdi della Bolivia, i bassopiani fertili, le vallate calde e umide, il regno della coca e del caffè, della frutta e del riso, del commercio di legname.
Forse il futuro “migliore” del paese si può immaginare qui, poiché le terre sono ricche e piene di risorse, anche se fare affari col cacao e col frumento è di certo meno rischioso che con le foglie di coca.

Coroico, avamposto della selva, paesotto surreale che sembra fermo a un secolo fa, che sembra uscito da un romanzo tropicale di Alvaro Mùtis, quelli con le verande gocciolanti di pioggia, le ore di siesta sulle amache, i personaggi surreali, i passanti che si conoscono tutti, gli empori che quando arrivano i rifornimenti attirano sempre piccole folle, le messe dove si tirano fuori gli abiti buoni, le feste dove i volti dei ragazzi arrossiscono per l’emozione.
Coroico che la preoccupazione maggiore è veder tornare a casa i papà che ritornano col camion da La Paz o decidere se fare la passeggiata serale in Plaza de Armas verso destra o verso sinistra.

Coroico coi suoi sombos, la razza uscita fuori dalla mescolanza di neri e indios, che suda chinata sui campi per difendere le piantagioni di coca.
Due parole sulla coca
La coca nella selva boliviana continua a obbedire a un cerimoniale di convivialità, è al centro delle feste e dei riti, ed è anche la principale risorsa economica della zona perché coi suoi tre raccolti annui rende dieci volte di più delle altre colture. Un vero e proprio oro verde. Per la coca i sombos di Coroico e ancora di più quelli delle “metropoli” di Cochabamba e Santa Cruz, organizzano frequenti marce sulla capitale che costringono il governo centrale a bloccare un mese sì e un mese no le azioni di sradicamento forzato “suggerite” dagli Usa… Il problema è antico e assai tipico di queste latitudini: quella che per gli indios è una fonte di cibo, medicina, cultura, sostentamento, nel mondo capitalista e occidentale è stata trasformata in vizio, droga, bene di lusso, affare sporco. E allora per “salvare” i giovani americani ed europei da sniffate pericolose i governi forti del mondo distruggono il patrimonio economico e antropologico dei governi più deboli.
E’ il mondo dei ricchi che ha scatenato violenza e appetiti intorno alla coca, che ha fatto nascere tanti mercanti di droga e cartelli sanguinari, in Bolivia, Perù, Ecuador, Brasile e soprattutto in Colombia.
Se “noi” ce ne stavamo buoni a casa, col naso a respirare aria invece che polvere bianca, tanti soprusi e tanti funerali si sarebbero tranquillamente evitati. La vedo proprio come un problema etico e di responsabilità: senza il giro di soldi e di vizio dell’Occidente la coca sudamericana sarebbe ancora la pianta sacra degli Incas.
La religione locale resta un mondo lontano

I morenos di Coroico oltre che nelle piantagioni di coca e di frutta li trovi nelle cantine a suonare o a ascoltare musica afro, nei bar a scegliere un frullato, sui campi da calcio o impegnati, ovviamente anche qui (!!) in interminabili processioni religiose o folkloristiche.
Vorremmo assistere a qualche rito di vodoo o a qualche macumba ma qui la religione è una dimensione troppo intima e non si fa cogliere da due ragazzi stranieri di passaggio.
D’altronde anche a Cuba o a Salvador de Bahia, molto più aperte e solari della Bolivia, non è stato facile per me conoscere la Santeria, le religioni sincretiche vogliono rimanere misteriose e i loro popoli le custodiscono gelosamente.
Un grande incontro a cena
Una sera a Coroico conosciamo Gerson, 38 anni, nicaraguense, suonatore di clarinetto nell’orchestra di La Paz. Ha una formidabile mulatta seduta accanto a lui, ha i tratti del vero viandante, un artista a spasso, con l’aria del poeta, come tanti ne ha creati la rivoluzione sandinista. Gerson è solare, allegro, legge Castaneda. Con lui ho scambiato il dialogo che è diventato il sottotitolo del mio lungo diario di viaggio sulle Ande: “Cuentame de tu pais, Gerson, còmo es el Nicaragua, còmo es la America Latina?” – “Es dulce amigo, violentemente dulce”. Un italiano non parlerebbe mai così del suo paese ho subito pensato, a lui invece brillavano gli occhi, aveva nostalgia, esprimeva amore, non solo per il piccolo Nicaragua ma anche per il suo grande, magico e tormentato continente.
Fra una chiacchiera e l’altra, fra un sorriso della mulatta che se lo mangia con gli occhi e una portata di banane fritte, fra una birra e l’altra e un po’ di filosofia (“l’arte, la musica in particolare, è l’equilibrio fra l’ordine, la ragione, la fantasia e la fede: le marce militari, le messe, i film, hanno tutti bisogno di musica”), siamo per questa sera dei latini felici di esserlo, “hermanos por una noche”, in un’osteria persa nel mondo umido e verde delle yungas boliviane.

A Gerson nel momento del commiato chiediamo anche qualcosa dei boliviani, cosa gli piace e cosa no di questa gente: “Consumano arte, amano il folklore perché è una distrazione dai problemi più gravi, ma sono dei rassegnati. In Nicaragua siamo più aperti, più intensi, più volgari anche, gridiamo, odiamo, amiamo”. Personaggi così, che al mattino seguente quasi cadono dal finestrino del bus per salutarti, con un bel sorriso e il pugno alzato, personaggi così che girano con una sacca di libri e uno strumento e tornano ogni tanto a Coroico perché nonostante la pista della morte gli piacciono il verde, il clima, le mulatte, il rhum e l’aria indolente del luogo, mi fanno amare sempre di più il continente dell’utopia.
Incisi su Coroico
Uno
Lasciando la pensione di La Paz il portiere ci aveva detto: “Attenti alle donne di Coroico”.
E’ sempre così, in Perù con Iquitos, in Bolivia con Coroico, in Ecuador con Puyo e Guayaquil, in Brasile con Manaus e Belem, in Colombia con Cartagena: nell’immaginario degli uomini latinoamericani nelle città della selva e del mare, dell’Amazzonia, delle Yungas o vicino ai porti, c’è sempre un’atmosfera calda, umida e sensuale, donne ardenti, sesso spinto.
Ma a Coroico capitiamo decisamente in un periodo-no, nel senso che, almeno a sentire i suoi abitanti, c’è in atto un provvisorio coprifuoco notturno viste le troppe sbronze e risse delle settimane precedenti. E allora le mulatte per stavolta non ballano, non bevono e non si avvicinano, va bene lo stesso: ci accontentiamo della simpatica, bellissima e intoccabile amichetta di Gerson e piuttosto dobbiamo stare attenti alle monumentali cuoche del Comedòr che ci servono con generosi sorrisi chili di carne e patate fritte!
Due
Camminata di due ore, a piedi, tra varie coltivazioni di banane, caffè, riso, arance. Arriviamo in un villaggio addormentato, entriamo nella scuola dove è l’ora della ricreazione e i bambini ci guardano come marziani. L’aria è come sempre calda, dalle piante come sempre cadono i goccioloni dell’umidità notturna, ci salutano contadini neri e bambini in bicicletta, il paesaggio mi ricorda quello del video musicale “Ojala que llueva cafè nel campo” del dominicano Juan Luis Guerra, capace di dedicare un frizzante merengue al desiderio di pioggia di caffè nel campo.
Secondo Gerson queste valli gli ricordano il Nicaragua, qui la natura è capace di trasmettere vibrazioni.
Tre
Durante il viaggio di ritorno mi accorgo che gli autobus alzano così tanta polvere sulla pista maledetta che tutti gli alberi fino ai dieci metri di altezza sono di un verde opaco e sporco. La foresta delle yungas comincia più in alto.
Quattro
Roma, novembre. Al TG vedo le immagini del disastroso uragano Mitch in Nicaragua. Ripenso alla faccia buona di Gerson, al suo dolore, a quel paese di romantici sandinisti “violentemente dulce”. Mai come adesso: che superi questa terribile prova.
Cinque
Prosegue il braccio di ferro tra contadini e governo sui campi di coca: vincerà il piano degli Usa probabilmente, una politica graduale di agricolture alternative. Intanto dalla giungla boliviana arriva l’eco di nuove guerriglie.

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