Bolivia da Western
Da Potosì alla prossima meta, sempre più a sud, sempre più fredda, ci sono circa sei ore di deserti ventosi, altopiani brulli, guadi e canyons. I cartelli di “Bienvenido” cigolano in un silenzio irreale come in un film di Sergio Leone e annunciano villaggi con cinque case, un campanile e qualche volta un canestro, villaggi dove ci si può immaginare una vita essenziale, prendi l’acqua dal pozzo, semina il campo, tosa la pecora e buonanotte.

Ad Uyuni l’evento di giorni altrimenti tutti uguali, dedicati a costruire muretti o a seguire i lama nel nulla, è l’arrivo delle corriere coi viaggiatori. Allora le umili case d’argilla si trasformano in locande dove gli indios preparano le zuppe e gli stufati piccanti. Allora si improvvisano feste e mercatini artigianali. Allora gli indios ti aspettano in fila e si realizza uno strano contatto: i turisti vedono probabilmente i luoghi più isolati e le persone più timide della loro vita, gli abitanti della gelida puna fissano quelle facce e quegli abiti nuovi, ascoltano nuove lingue, capiscono quanto è grande il mondo. Perché il mondo è venuto a trovarli. Molte di queste persone non conoscono neppure Sucre o Potosì, gli avamposti della civiltà, mangiano due o tre cose sempre uguali per tutta la vita, sono spesso analfabeti e dimenticati.


A Uyuni i treni non fermano più
Uyuni, paese di frontiera, paese di poche anime, di vento sferzante, di insegne che traballano davvero come nei film western, di case con le crepe, di uomini che camminano malinconici con le coperte addosso, di una luce accecante, di tramonti bellissimi che portano l’aria e il colore del deserto di sale, di una Plaza de Armas ancora in costruzione, ovviamente solo di cemento, solo di pietra, perché qui il legno non esiste e il verde non resiste.
Uyuni col suo strano cimitero di treni arrugginiti, lasciati qui dal governo negli anni ’40, dopo che le miniere di argento e di stagno della regione si esaurirono e in Cile non c’era più nessun bene da trasportare. Questo luogo nella polvere fa sensazione e i rottami di ferro abbandonati nel silenzio e nel vento fanno pensare al tempo che scorre e consuma ogni cosa. Girando attorno alle vecchie locomotive che si stanno sbriciolando si immaginano i viaggi passati, le voci, alcune ricchezze forse. Oggi invece sembra di essere capitati in un luogo alieno, abitato solo da qualche fantasma.

A Uyuni mi accorgo che comincio ad amare una certa ora del viaggio, un momento particolare, quello tra le 6 e le 8 di sera, quando spesso arrivi in un luogo nuovo o ti riposi prima dei passi d’esordio nella meta raggiunta. Questa è l’ora per una doccia, per jeans e maglie pulite, per scrivere il diario, fissare le emozioni, per organizzare i giorni futuri e ripensare a quelli trascorsi.
E’ anche l’ora di una luce bella e calda, di belle foto e dell’ottimismo. E’ l’ora che ti fa avere l’ultima ragazza piaciuta per la testa, l’ora del corpo rilassato di una bella faccia da viaggio.
Il Salar de Uyuni
Partiamo da Uyuni con un vento che ci taglia la faccia, “partiamo” significa che siamo e io e Alessandro, il mio amico di Padova che è diventato il nuovo compagno di viaggio dopo che Massi a fine itinerario peruviano è rientrato in Italia. Partiamo alla scoperta del Salar con due studentesse americane e due professoresse spagnole (“Muy lindas” ci aveva assicurato Don Fausto per farci prenotare il pacchetto nella sua agenzia: in pratica eravamo sei uomini!), una jeep carica di cibo e coperte, un guidatore e una cuoca che sembrano muti ma che hanno un sorriso dolce.
Iniziamo un viaggio di tre giorni fra deserti di sale e lagune colorate, lungo il confine Bolivia-Cile, in una zona estrema e vuota, con un grande sentimento di avventura e libertà.

Il primo giorno è tutto dedicato al magico Salar de Uyuni, oltre 10.000 Kmq a ben 4.200 metri di altezza, un selvaggio, immenso, gelido e abbacinante deserto di sale. Non è una collina con le terrazze di sale come Maras nelle Ande peruviane, è un mare bianco, un territorio bianco, così brillante da accecare, così infinito da perdere il senso dell’orientamento. A bordo della jeep noto un rudimentale gps, sennò ci sarebbe da preoccuparsi!


Il paesaggio è impressionante, le montagne più lontane sembrano galleggiare sul sale, le poche locande sono costruite con blocchi di sale, a Colchani (un paese? un incrocio? un puntino millesimale nel vuoto?) venti uomini caricano il sale sui camion e sui lama per venderlo nei mercati della Bolivia e in mezzo al sale a un certo punto appare come un miraggio un’isola ricoperta di cactus, guardiani spinosi della solitudine bianca.


Gente di San Juan
Verso sera la jeep lascia il Salar. Dormiremo in un modesto rifugio di San Juan. Ho tanto freddo che quasi non riesco a scrivere, mi sento spossato come un minatore a Potosì, ma San Juan merita un ricordo vivo. Intanto un vecchio del luogo mi spiega meglio il Salar: “è ciò che rimane di un antichissimo bacino lacustre coi fondali pieni di salgemma, solidificatisi per l’alta evaporazione dell’acqua”. E poi, dignitoso e umile, mi fa un ritratto della vita quassù: “San Juan soffre di povertà e siccità. Lo stato latita, le nostre famiglie si stanno disgregando, i matrimoni finiscono per le partenze di chi va a cercare fortuna, fra noi oramai non ci sono più ruoli, mangiamo solo quinoa e patate, siamo alla disperazione”.
Senza parole, povero vecchio.

Dopo una frugale cena facciamo un giro per San Juan, beviamo del vino cileno in una assurda cantina che si finge discoteca, mi tocca descrivere le ragazze italiane a un gruppo di boliviani. Poi uno sguardo alle stelle, vicinissime, e a letto sotto quattro coperte, a contarsi le dita delle mani e dei piedi per essere sicuro che ci fossero tutte. Penso a Pedro e agli altri ragazzi della cantina, che si fanno la scuola da soli, che mangiano carne due volte al mese, che aspettano che ripassi il treno di Uyuni coi giornali e con le medicine. In realtà i binari ormai sono morti. A questi ragazzi restano il sale e le stelle.
Le lagune vicino al Cile

Il secondo giorno è quello delle lagune, uno spettacolo indimenticabile. La jeep percorre chilometri di deserto, il Cile lungo e sottile è appena oltre le montagne e mentre penso alle poesie di Pablo Neruda e ai romanzi di Luis Sepulveda e Isabel Allende appaiono improvvisi specchi d’acqua dai colori bellissimi: blu, verde, grigio, rosso, rosa, arancione e viola, a seconda della presenza di microrganismi, alghe lacustri, riflessi del sole e del cielo. Mi sdraio a terra, tra le pozze e i fiori, per fotografare i fenicotteri, gli unici eleganti abitanti di queste zone impervie.

Sono uccelli che vivono in gruppi, che compiono brevi voli e tuffi a caccia di pesci, che si muovono leggeri sulle loro zampette, come in un balletto. E che non scappano, permettendoti un reportage da libro d’avventura. Fotografo anche le vette lontane di alcuni vulcani, gli alberi di roccia più vicini, sotto i quali passeggiano strani roditori.
Laguna Colorada
La sosta per la notte avviene alla Laguna Colorada, un posto fuori dal mondo. Sono in piedi davanti al lago rosso e sento solo il rumore del vento, moltiplicato. Sto bene, avrei bisogno magari di quattro polmoni e di quattro occhi, per vedere e respirare al meglio tutto quello che mi avvolge. Penso alle parole di un mio caro cugino che ha capito dalle mie fotografie di altri viaggi che amo gli spazi immensi e la solitudine. Non sono un eremita ma in certi frangenti è vero, sento un’attrazione speciale per i luoghi freddi e estremi, come una montagna nuda e una laguna abitata da fenicotteri rosa.
Mi immagino così anche la Patagonia dei diari di Chatwin e la Terra del Fuoco dei racconti di Coloane, paesaggi che vorrei tanto visitare un giorno. Mi accontento, per ora. Chissà se la laguna di domani sarà azzurra, gialla o verde.


L’alba a Laguna Colorada segna appena meno 15 gradi, ti si ghiacciano anche i pensieri. Per questo servivano delle belle compagne di viaggio, maldito Don Fausto!! Un po’ di calore ce lo danno i geysers, le fumarole, un bagno nelle bollenti acque termali e una grossa colazione a base di thè, caffè, panini, uova, frutta. Non era così ma me la ricordo come una delle più buone e più nutrienti della mia vita.
Laguna Verde
La fine del tour è alla Laguna verde, sotto il vulcano Licancabur… e siamo a 5.000 metri, la sua vetta è poco sotto i 6.000!!! Oggi forse ho scattato le foto più belle del viaggio, c’era una luce, c’erano degli spazi e una disposizione d’animo tali che bastava fare clic col dito meno infreddolito.

Per il ritorno a Uyuni ci vogliono solo 12 ore di jeep, quadruplicate rispetto a quelle che ci aveva promesso il meraviglioso Don Fausto di cui sopra… Elias anche oggi parla poco, offre spiegazioni essenziali, non è una guida turistica però è un grande pilota, prudente e paziente, generoso anche (ha riparato altre tre macchine durante i giorni tra le lagune). E’ molto esperto, percorre il Salar dal 1991, quando le prime agenzie turistiche di Uyuni cominciarono a organizzare i tour nel mondo di sale. Fino alla fine non abbiamo capito se la cuoca Maria, se possibile ancora più silenziosa, fosse sua moglie.
Da certe mani che si sfioravano pudiche sul cambio della macchina e da certe canzoni che lui metteva alla radio cui seguivano i suoi sorrisi, io mi sbilancio e dico di sì! Ci rimarrà il ricordo di due boliviani gentili ed educati, come Wilma del resto.
Piccola storia di Wilma
Dieci anni fa un’india di Uyuni si innamora di un italiano di passaggio. Ci fa un figlio. E nasce una di quelle storie a distanza, belle e difficili, fra progetti di locande, pensioni, agenzie turistiche da avviare insieme o al limite servizi di scambi commerciali import-export (il sale con la pasta? i video dei fenicotteri scambiati con quelli di Michelangelo e Raffaello??).
Qualcosa comunque la mettono sù, Wilma cura i contatti in Bolivia coi gruppi di “Avventure nel Mondo” e cucina, o almeno ci prova, la pizza margherita e la pasta al pomodoro a 5.000 metri. Wilma è bella, ha zigomi alti, un’aria yuppie, suo marito è un reggiano, un impiegato dall’aria un po’ impacciata, uno che alla fine ha deciso di trasferirsi dall’altra parte del mondo, senza clacson, senza campionato di calcio, senza cento canali della tv. Ma finora ce l’hanno fatta, si godono insieme i panorami di Uyuni e io sono molto contento per loro.

Tentativo di festa a Uyuni
L’ultimo giorno a Uyuni c’è – attenzione, attenzione – la festa locale. Per questo la notte gelata del nostro arrivo vedemmo tanti ragazzi esercitarsi nel ballo e infiocchettare i loro lama preferiti! E vai con le solite marcette, mercatini, bevute e coriandoli.
La festa è profana, non sacra come quella vissuta a Copacabana sulle sponde del Titicaca, ma è l’addio più logico alla Bolivia. Mi hanno fatto tenerezza delle ragazze in maglione e bombetta ballare e bere la chincha, spesso un bimbo nel fagotto, o appeso alle loro trecce. Sono piccole, sono forti, purtroppo sono quasi sempre senza nessuna istruzione e con la massima ambizione di sposare un uomo che conduca i turisti nel deserto di sale.
Ripenso anche a Pedro conosciuto a San Juan, a lui e alla sua faccia di rame che senza nessuna vergogna mi aveva spiegato che ogni uomo in Bolivia organizza almeno una grande festa nella vita, giorni di mangiate, di bevute, di bagordi, di danze che per pagarli servono due o tre anni di lavoro.
Mi ricordo anche di aver letto su qualche articolo di giornale che tutta la storia dell’indio in Bolivia è la storia delle feste, che quando è giovane spera di organizzare, e quando è vecchio spera di ricordare…

Ultimi pensieri nel gelo di Oruro
Il viaggio notturno di ritorno a La Paz è un incubo, anche perché il cambio di bus è alle tre di notte in quel di Oruro, un ex centro minerario famoso per il suo Carnevale ma che stanotte ci sembra solo una città spettrale. Qualche disperato già scarica i sacchi di patate o sistema le bancarelle per il mercato del mattino seguente, un mercato che sugli altopiani come questo si basa ancora sull’economia più antica del mondo, quella del baratto. Nell’ombra mi sembra di indovinare anche un paio di tende di sciamani, di guaritori o di chissà che cosa.
Bisogna saltare in strada per il freddo e meglio quei salti che l’entrata nell’unica taverna aperta da cui escono grida di ubriachi. Ogni tanto, nelle gelide notti della sierra boliviana, qualcuno mi immagino che rimanga in terra e si addormenti per sempre. Quelli che restano in piedi provano a invitarti a ballare, mentre masticano foglie di coca e ti ripetono quella frase sentita almeno dieci volte durante il viaggio “La foglia di coca non è una droga”.
Usciamo così dal gelido tetto dell’America Latina, dal paese che ha perso tutte le guerre, tutto l’argento, tutte le miniere, tutte le speranze, col suo passato sempre fallimentare segnato da caudillos, dittatori sanguinari come Barrientos e Banzer, presidenti indigeni ingoiati da invidie e scandali come Evo Morales, presidenti bianchi avidi solo di potere. Lasciamo il paese che è stato la tomba di Che Guevara forse proprio perché il suo popolo era già stanco e oppresso prima di cominciare la lotta. Meglio pensare ai fenicotteri.


1 Commento
Donatella
4 Maggio 2021 at 4:17 pmNon mi ero mai interessata alla Bolivia, ma da due anni e mezzo sono diventata la nonna di una bimba boliviana, adottata. Mi sono innamorata di lei, che ora ha otto anni, al primo video che mi è stato mandato dalla città di Cochabamba, dove stava in un istituto. Ora tutto ciò che è Bolivia mi affascina. Devo vederla questa Bolivia,devo! Devo sapere come è quel mondo dove è nata e ha passato i suoi primi (sfortunati) anni di vita la mia nipotina! I viaggi in Bolivia non sono poi tanti, e io vorrei un viaggio autentico, che mi metta in contatto con luoghi e persone.. So che sono viaggi molto faticosi, e io sono una nonna… Abbastanza in gamba e sportiva ma pur sempre una signora. E stanno passando ancora altri anni con i lockdown… Ma lo stesso vorrei andare e sperimentare quanto più si può. Potreste darmi dei consigli in proposito? Consigliarmi un viaggio? Ci tengo molto Donatella