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Sguardi Andini: finalmente Machu Picchu

Il luogo più immaginato

C’è una certa emozione, siamo eccitati come bambini, ma si può capire: il senso del viaggio per noi era soprattutto il sentiero inca che ora ci si apre davanti. Machu Picchu è stato per tutto l’inverno il luogo più presente nella nostra immaginazione ed è strano e bellissimo saperlo a soli 4 giorni e 45 km di cammino. Volevamo la Panamericana, le linee di Nazca, il volo del condor, il blu del Titicaca, i tesori di Cuzco certo, ma volevamo soprattutto arrivare a queste pietre magiche nascoste tra le nuvole.

finalmente Machu Picchu

E’ questione di testa

Ci sentiamo le gambe buone, ci siamo ambientati in alta quota percorrendo in lungo e in largo già mezzo Perù, siamo pronti a vivere l’avventura del trekking. Scegliamo un’agenzia in una vietta laterale di Cuzco, ci spiegano che i portatori pensano a trasportare le tende, i fornelli, le stoviglie e il cibo mentre a noi toccherà il compito di portarci dietro un piccolo zaino dove non dovranno mancare la macchina fotografica, le maglie di lana e una riserva di foglie di coca!
La nostra guida si chiama Mauro, ha circa 30 anni, è un indio di Apurimac e ha uno sguardo sveglio. Ama la cultura inca e ancora di più le sue montagne, nel discorso preparatorio ci avvisa su una verità fondamentale ovvero che lo scalare al 90% è un fattore di testa e soltanto per il 10% un fattore fisico. Questo insegnamento sarà preziosissimo. Inoltre ci descrive nei dettagli il sentiero che ci aspetta, le sue pendenze, gli uccelli, le piante, le temperature e le rovine che troveremo. Ci dice anche come masticare le foglie di coca per non sentire la stanchezza, ridurle in poltiglia, farci una palletta, tenerla tra denti e guance. E camminare. Lenti ma costanti.

Ci dice anche come masticare le foglie di coca per non sentire la stanchezza, ridurle in poltiglia, farci una palletta, tenerla tra denti e guance. E camminare. Lenti ma costanti.

Il primo giorno di trekking

E’ giunta l’alba della partenza, un’alba fresca di fine luglio. Via, sui solidi camminamenti in pietra, tra nubi e foreste e dentro i canyon nella prima parte, sui fianchi delle montagne e vicini al cielo nella seconda. Passeremo su fragili ponti, in bilico sui burroni, insieme agli indios e a qualche lama, all’eco delle leggende, verso la piccola città fatta di rocce e mistero, in un paesaggio per condor, dove l’uomo sembra ancora un intruso.

sui fianchi delle montagne e vicini al cielo

Il primo giorno di marcia passa tranquillo: arriviamo col bus al km 82 della ferrovia e poco dopo passa il treno rosso e giallo con gli indios appesi di fuori, un gran fischio nella valle dell’Urubamba. Foto della partenza, guado del fiume e un tratto dolce e invitante in un bosco di eucaliptus. Poi una salitella e la vista di Llactapata, guarnigione militare e città-base dei lavori edili degli Incas. Il sentiero segue il fiume, i portatori volano via veloci, i turisti seguono dietro, nonostante il peso più leggero da trasportare. Verso le 16.00 si raggiunge la tappa per la notte che è il villaggio di Wayllabamba: quattro capanne, una sorgente gelida per lavarsi, la cena frugale intorno al fuoco. E poi a letto come le monache perché domani non si scherza più, c’è il fatidico secondo giorno, quello che causa crisi di gambe e vomito e distacchi abissali tra i protagonisti del trekking.

Il secondo giorno, quello della selezione…

Scrivo di sera, con le ossa rotte. Ma sono felice perché io e Massi ci siamo mangiati le Ande! Sveglia alle 5 di mattina, nove km di salita dura, ripidissima, stretta, fino a raggiungere un valico a 4.200 metri di altezza, senza una pausa, senza un cedimento. Grande la tattica adottata, figlia dell’insegnamento iniziale di Mauro: 15 minuti a testa davanti a “tirare”, come fanno i ciclisti sulle Alpi, ma qui c’erano solo le nostre gambe… Un passo assolutamente e volutamente lento e costante, per questo implacabile. Tanta aria inspirata e muscoli tenuti sempre caldi. Chi non seguiva un ritmo, chi si fermava a bere, chi procedeva a strappi, chi era partito veloce ci cadeva davanti, spariva in fondo alle vallate. Non credevamo di poter andare così bene, quasi come due portatori!! Scena buffa: io che divoro un sacchetto intero di foglie di coca nel momento di massima fatica e Massi che dietro annaspa e mi sussurra “Ti sto perdendo, ti sto perdendo!”.

Chi non seguiva un ritmo, chi si fermava a bere, chi procedeva a strappi, chi era partito veloce ci cadeva davanti, spariva in fondo alle vallate

Dopo il picco la discesa, viscida, difficile. Col vento che ci gela il sudore addosso. La valle del pranzo ha un nome un po’ inquietante: rio delle sepolture. Ma è raggiunta alle 11.30. Ci laviamo nel fiume, beviamo una tazza di mate e un po’ spocchiosi e divertiti annotiamo i famosi distacchi: due ragazzi olandesi del gruppo a 15’ (erano più grossi e più forti di noi ma avevano troppe birre nello zainetto…), gli altri italiani del gruppo che arrivano due ore dopo e l’ultima del gruppo a 2h e 48’, una vita, anzi manco quella perché la montagna gliel’ha quasi strappata. Senza contare i numerosi Tarzan visti esanimi lungo il sentiero, con l’acido lattico a bloccargli le gambe, col mal d’altura a bloccargli il fisico, coi portatori vicini in atteggiamento pietista.

Le staffette degli Incas

L’accampamento della sera è in cima al colle Runkuranquay, dove ci sono le rovine di un Tambo, la stazione di posta per i Chasquis, i messaggeri che correvano leggeri sulle Ande per portare le notizie da Quito a Cuzco, 2.000 km di distanza percorsi in 5 giorni, con staffette ogni 5 km: così nei due secoli del grande impero Inca viaggiavano le informazioni, le merci e i pacchi, dalle coste venivano mandati sulle sierras ortaggi, frutta e grano e in senso contrario viaggiavano lana, cuoio, pelli, oro e argento. Mentre Mauro ci fa sbarrare gli occhi raccontandoci delle moderne gare di corsa degli indios (3h e 30’ per percorrere tutto il Camino Real !!) seguo dei miei pensieri: quando si finisce di camminare, dopo un bagno nel torrente e un caffè bollente, una compagnia femminile sarebbe bellissima, e invece qui ci si sveglia con un panzone in mutande nella tenda davanti!

e invece qui ci si sveglia con un panzone in mutande nella tenda davanti!

Il terzo giorno, fra le nubi

Alba stupenda dopo un freddo boia durato tutta la notte. Mi alzo e vedo la neve, i laghetti, le cime di imperiose montagne, trame di boschi neri. Da qualche parte arriva il suono di un flauto e naturalmente sono le note di “El condor pasa”. La discesa di oggi conduce a Sayacmarca, una bella fortezza che aveva due scopi, l’essere un avamposto per la scoperta e lo sfruttamento della selva (il legname, la coca, gli animali da cacciare) e allo stesso tempo la postazione di vedetta per i sentieri verso Machu Picchu. Poi comincia una passeggiata incredibile tra le nuvole, in una sorta di giardino botanico con fiori rossi, gialli e blu, felci, farfalle, uccelli. E’ un mondo verde e incantato. La zuppa è pronta sotto le rovine di Phuyupatamarka (quanti nomi facili eh? Ma ognuno era un miraggio, quindi beccatevi il loro meticoloso ricordo!) che in dialetto quechua significa “la regione del posto fra le nubi” e che rappresenta un altro fortino difensivo coi Bagni dell’Inca.

rappresenta un altro fortino difensivo coi Bagni dell’Inca

Mauro ci spiega che man mano che ci si avvicina a Machu Picchu aumentano le rovine di tambo e bagni, quasi a voler significare che la città sacra accoglieva solo quelli col corpo purificato. Nel pomeriggio arrivo allo stupendo sito di Winaywayna (e qui la poetica traduzione è “per sempre giovane”), resti di case e terrazze agricole fra prati aperti e un tramonto bellissimo. Il rifugio per la notte stavolta è però intorno a un improvvisato bar sporco e affollato, dove arrivano tutti i giovani che la mattina dopo scopriranno il volto magico di Machu Picchu. Preferivo la tenda e la sorgente, esco fuori a contare le stelle e a immaginarmi domani. Non è il momento migliore del trekking ma è quello che inaspettatamente mi dona “l’eternal moment” di cui parla E.M Forster in “Passaggio in India” e “Camera con Vista”: tutto ti assiste, anche la natura sente il tuo brivido. C’è la notte, il cielo scuro e grande e domani le rovine della città perduta. Non serve altro.

Il quarto giorno e la magia davanti

Il quarto giorno e la magia davanti

Sveglia ancora prima degli altri giorni, anche un gallo si ribellerebbe: sono le 04.00!! La foschia si inghiotte il gruppo, siamo i primi lanciati verso un panorama indimenticabile. Dopo due ore un’ultima scalinata tra l’erba umida e all’improvviso, da Intipunku, Machu Picchu appare come una visione incantata, in mezzo alla foresta, protetta dal suo sperone di roccia, con la nebbiolina che la svela piano piano e i primi raggi del sole a renderla immortale. Mentre risenti nelle gambe tutte le salite, mentre ricordi tutte le discese, tutte le facce incontrate sul Camino Inca, le notti in tenda, il bagno nei fiumi, le gallette a colazione, resti lì imbambolato a guardare, guardare e guardare ancora. Sembra pietra degli dèi, un regno delle favole, un luogo che apre la mente alla trascendenza. E tu vivi finché puoi quel privilegio, di poterla vedere allo stesso modo di un condor, prima dell’arrivo dei pullman turistici che arrivano dalla fermata finale della ferrovia poche curve più sotto.
Nella mia estasi da camminatore ormai ho deciso che ci sono due specie umane al mondo: quelle che arrivano a Machu Picchu a piedi dopo quattro giorni con le facce distrutte e quelli che arrivano coi mezzi di trasporto in quattro minuti, dopo un’ultima notte in un resort lussuoso e dopo aver fatto il brunch avvolti in un morbido accappatoio. Stavolta valeva la pena appartenere al primo gruppo. Se ci tornassi a 60 anni chissà.

La scoperta di Bingham

Il simbolo del Perù si trova in un ambiente naturale di drammatica bellezza. Da Cuzco il paesaggio è cambiato: dai monti alla selva, dalle Ande più alte a una valle più calda e più umida. Le stupende rovine della “Cima Vecchia” in chiave occidentale furono “scoperte” il 24 luglio del 1911 (aveva un senso essere qui a fine luglio!) dall’archeologo americano dell’Università di Yale e del National Geographic Hiram Bingham, che seguì il contadino Melcho Artega in un accidentato percorso tra terrazzamenti agricoli, boschi e burroni. In realtà lui credeva di aver finalmente trovato la mitica Vilcabamba avvolta per secoli dalla foresta, il luogo scelto dagli Incas per nascondersi dai conquistadores spagnoli, per non sentire più il rumore di spade, fucili e cavalli. Vilcabamba il paese della libertà, della ricchezza e della mai avvenuta riscossa.

Le ipotesi su Machu Picchu

una sorta di luogo sacro sperduto tra le Ande

Successive ricerche hanno smentito tale ipotesi e allora, cosa era Machu Picchu? Così bella e lontana, misteriosa come il deserto dei Nazca, mitica come l’Eldorado? Cosa era quella che Pablo Neruda definì “Madre di pietra, spuma di condor”?
Molto probabilmente si trattava di un centro agricolo e cerimoniale del regno di Pachacùtec (l’imperatore Yupanqui, che nel XV sec. si fece chiamare “il trasformatore del mondo”), una sorta di luogo sacro sperduto tra le Ande. Ciò si evince dalla presenza di orti terrazzati, di magazzini, di templi, di osservatori astronomici e di santuari di vergini consacrate al Dio-Sole. Non vi farà impressione sapere che la maggior parte degli scheletri qui ritrovati erano quelli di giovani donne.
Ci sono anche teorie che definiscono Machu Picchu come l’eroica rocca difensiva di Vitcos o come un antico luogo di passaggio per raggiungere le foreste, un avamposto militare usato dagli Incas per dominare i popoli delle selve.

Le ragioni della fine

Altre questioni riguardano la sua fine: perché gli spagnoli del feroce Pizarro non la trovarono mai? Machu Picchu fu abbandonata già prima dei tempi della conquista? Dimenticata volutamente dai cronisti orali incas perché considerata una città ribelle? Disabitata per un’epidemia? Oppure invasa e distrutta dalle tribù selvagge dell’Amazzonia? O morì piano come tutta la civiltà Inca?

Un luogo sacro ma semplice

Di certo fu il luogo sacro degli ultimi Incas, costruita con gli stessi incastri perfetti di pietra del Cuzco

Di certo fu il luogo sacro degli ultimi Incas, costruita con gli stessi incastri perfetti di pietra del Cuzco. Quando la guardi nella tua mezza giornata di personale scoperta non ti arrivano dalle sue rovine i segnali, i codici, di una città di potere, di sfarzi, una Teotihuacan o una Chichen Itzà nel Messico atzeco e maya per esempio. Più forte e più magico è il suo richiamo, un tipo di incanto selvaggio, con la vista sulla Ande, sulla valle, sul fiume, immerso nel verde di felci, orchidee e liane. E se il sole appare fra le nuvole ancora di più sembra illuminare un miracolo, un mondo sospeso, un’armonia semplice.

Machu Picchu è una simbiosi di natura, storia, uomini e miti e resta nella mente e nell’immaginario dei viaggiatori e dei popoli andini come il simbolo di un Paradiso senza Conquistadores.

Il settore agricolo della città

La città è divisa in tre settori: agricolo, urbano e religioso. Nel primo ci sono dei piccoli campi strappati a fatica dai fianchi delle colline, circondati da muretti in pietra, dove si coltivavano mais e patate e dove oggi passeggiano scenograficamente i lama con le rovine sullo sfondo. Si visitano qui anche i resti di magazzini e di case di guardiani, le guide ti spiegano lo stato sociale degli Incas, le loro complesse opere di ingegneria edile ed idraulica e il sistema contabile affidato a dei nodi su delle cordicelle con inserti tessili di vari colori, dette quipu.

dove oggi passeggiano scenograficamente i lama con le rovine sullo sfondo

La vita civile al tempo degli Incas

Gli altri due settori si mischiano di continuo. C’è una piazza centrale che era adibita a funzioni civili e religiose. In questa piazza ti rileggi volentieri alcune pagine di storia. Nel momento massimo dell’espansione gli Incas, uomini piccoli, robusti e scuri, coi capelli neri e lisci, un naso importante, le facce tonde, i toraci più ampi del normale per poter respirare l’aria alta delle montagne, governavano un territorio che andava dalla Colombia al Cile attuali (escluse le tribè aurucane della Patagonia, mai assoggettate), dall’Oceano Pacifico all’Amazzonia.

I Figli del Sole avevano conquistato e assorbito la cultura, i riti, le leggi, le tecniche e il ricordo di civiltà scomparse o a loro contemporanee quali i moche, i chimu, i paracas, i nazca, i tiahuanaco. La vita civile in questa piazza o tra le fortezze del Cuzco scorreva tutto sommato serena, bastava ubbidire al sovrano coperto d’oro e alla sua corte: i popoli sconfitti nelle battaglie si integravano in un modello che poteva per certi versi sembrare anche socialista, perché avevano assicurati il cibo e la casa, le feste e i doni, ampi margini di libertà individuale, potevano conservare anche alcune usanze ma dovevano in cambio imparare il quechua, rispettare il pantheon di dèi locali, fornire un numero preciso di soldati e soprattutto contribuire ai lavori pubblici, alla cura degli orti, alla costruzione di strade, sentieri, canali, ponti, mura e templi.

Sicuramente dietro l’erigersi di colossali e indistruttibili fortezze non mancarono cruenti episodi di schiavitù. Documentati sono anche i contributi in termini di staffette di chasquis, che con le loro imprese eroiche erano essenziali per colmare le distanze tra valli e vette, spiagge, fiumi, laghi e villaggi sperduti. Pochi i contributi artistici e culturali e le forme scritte lasciate dagli Incas, il segno del loro potere fu piuttosto affidato alle severe e possenti architetture. Poche ma atroci anche le vendette: i nemici spesso finivano a rivestire con la loro pelle i tamburi usati nelle cerimonie…

Il culto del sovrano e la vita religiosa

A livello religioso la sezione centrale di Machu Picchu presenta i resti del Tempio del Sole con la tomba reale e il palazzo del sovrano Inca che come spesso capita nelle popolazioni precolombiane era circondato da un culto ieratico, ricoperto di gioielli, con vesti usate solo una volta e i cibi da lui lasciati che si bruciavano; quando questi semidèi morivano venivano accompagnati dal sacrificio dei loro servi e delle loro ancelle, prima ubriacati e poi strangolati, si viveva insomma una tragedia psicologica collettiva, una disintegrazione politica ed economica della società e tra i vivi si consumavano guerre terribili per la successione. Nella piazza dove continuo a guardarmi intorno, non so se più stanco, stordito o affascinato, si ammira poi l’Intiwatana, ovvero “il luogo dove si lega il sole”, il punto sacro di contatto tra la terra e il cielo, una specie di osservatorio astronomico e insieme un altare dove si praticavano riti per scongiurare la sparizione temuta del sole ed evocare agli astri e agli dèi del Tuono, della Pioggia, della MadreTerra e delle Montagne, l’acqua, i raccolti e le vittorie militari; vicine ci sono anche la Casa dei Sacerdoti e quella delle Tre Finestre, altri portali, fontane, scalinate, prigioni; più lontani il Tempio della Luna e lo stupendo panorama dalla vetta dello Huayna Picchu, la “Cima Giovane”.

“il luogo dove si lega il sole”, il punto sacro di contatto tra la terra e il cielo

L’addio a Machu Picchu

Un lungo sguardo da condor, dal punto più alto. Il pensiero al vecchio col bastone ricurvo che nel libro “Amor America” di Maruja Torres sale sullo Huayna Picchu e sussurra “Da qui fin dove arriva lo sguardo, è mio”. Un altro pensiero al film “Fandango” con la bottiglia nascosta per mio fratello Francesco, da cercare seguendo una mappa per il giorno che arriverà quaggiù. Lo sciame dei turisti che arrivano tardi e comodi, gli americani che mangiano hamburger sui prati sacri, gli italiani che strillano ognuno nel suo dialetto per fare una foto col poncho. I clic, le cartacce, la calca. Basta così, ciao magiche pietre.
In novanta ultimissimi minuti di fatica e sudore scendiamo ad Aguas Calientes, un paese che vive solo per Machu Picchu e per il treno. Taverne e negozietti di souvenir, bancarelle di cibo fritto e il mercato degli indios, tutto si trova vicino alle rotaie. E quando arriva il treno una scena indimenticabile: i turisti con le facce rosse di sole, i reduci del Camino Inca, non trovano i posti “prenotati”. Li occupano le famiglie della Valle Sacra, salite chissà dove, salite anche sopra i vagoni, appese di fuori. Spostarli? Provate a spostare le Ande… Fiuuuhhh, il treno parte, i soliti bambini lo sfidano a perdifiato in una corsa allegra e improbabile. Domani ad Aguas Calientes ricomincia l’assalto, al sito come al treno.

Domani ad Aguas Calientes ricomincia l’assalto, al sito come al treno.

A ogni sobbalzo del vagone sulla via ferrata un pensiero nostalgico già avanza. Ultimo saluto a Cuzco, alle sue pietre e alle sue piazze, il saluto al gruppo degli italiani conosciuti sulle Ande, il saluto a Lily. Nel viaggio notturno Cuzco-Puno, la stessa diligenza dell’andata, Massi si sente male, ha resistito a tutto, ai 9 km in salita del trekking, al freddo, alle emozioni, alle salse piccanti e all’acquavite locale. E ora mi crolla qua, in mezzo al corso di Puno, in preda a un attacco di quello che potete immaginare. La maledizione di Atehualpa lo ha colpito, proprio alla fine. Ciao Massi, sei stato grande! Questi giorni insieme finiranno in un diario o in un poster.

Questi giorni insieme finiranno in un diario o in un poster

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