Addio alla Bolivia
La fine del viaggio boliviano, un viaggio puro, potente, assoluto, avviene alla frontiera di Desaguadero. Fila lenta in dogana, fila di cambiavalute con la faccia di rame, fila di donne fermate per ridicoli acquisti di contrabbando (nel pulmino avevo notato che sparpagliavano scarpe, pentole e alimenti per non farseli trovare!). Direi che fra freddo e polvere, sguardi silenziosi e tecniche di sopravvivenza ai confini del legale è un addio coerente al paese degli altopiani, del folklore e dei mercati, dei dannati delle miniere e dei deserti bianchi di sale. Gli unici squarci di luce li ho percepiti nella vita serale di Sucre e nelle valli umide di Coroico, per il resto tanti panorami splendidi e selvaggi accompagnati da tanta malinconia.

Latino Soy
Torno in Perù, una settimana da solo, per una “ricognizione” delle amicizie femminili conosciute durante questo lunghissimo percorso andino. Il bus notturno Puno-Arequipa è tremendo come all’andata, non so perché ma mi vengono fuori degli appunti sul perché mi sento sempre più latino-americano: perché me lo dicono, mi dicono che ho una faccia colombiana o brasiliana del sud, un accento argentino e venezuelano (sarà un caso? sono i due paesi con più italiani…); perché ormai lo spagnolo è la lingua che amo, parlo, comprendo di più e qualche volta sogno pure in spagnolo…; perché viaggio come loro, su treni e bus lenti e mezzi scassati, tra paesaggi che mozzano il fiato per la bellezza, tra pause per frane, inondazioni, guasti, scioperi ma l’importante è arrivare; perché provo tutti i loro cibi, dalle zuppe e le focacce dei comedores più tradizionali alle eccezionali grigliate di carne e pesce fino alle saporita frutta tropicale; perché metto il peperoncino e il buonumore ovunque.

Latino soy perché mi muovo bene e sono allegro quando nell’aria risuona una salsa o un merengue; perché mi sono piaciute tante ragazze latine, more o bionde, sempre sensuali e intense; perché ho conosciuto viandanti incredibili, indios generosi, vecchi saggi, bambini tenerissimi, in giro per tutta la “maiuscola America”, quella del Chiapas, quella cubana, quella di Rio e delle Ande; perché leggo volentieri Sepùlveda e Isabel Allende, Galeano e Garcìa Marquez, Amado e Soriano, Scorza e Mutìs, gli ultimi al mondo capaci di raccontare insieme le storie coi miti, coi paesaggi e con le utopie; perché in fondo ho uno sguardo, un carattere e un’anima latina; perché riconosco i latinos dai gringos e scelgo sempre i primi; perché indosso maglioni da indio; perché voglio arrivare ancora in Patagonia, a Cartagena a Santiago de Cuba; perché in America Latina semplicemente mi sento bene, con tante energie fisiche, intellettuali e sentimentali.

“Fiebre de quimica”
Ecco di nuovo Arequipa, dove sono cominciate tante cose, la parte più bella del viaggio in Perù, la scoperta del vulcano Misti e del volo del condor. Scopro però che la bella Claudia conosciuta al Cuzco è una ragazza in carriera, con impegni e cene di lavoro condite da una ferma educazione cattolico-borghese. Mi era sembrata più interessante, più emotiva e più libera in viaggio: capita spesso che la seconda lampadina non si accenda come la prima! Io passo con la mia faccia da viaggio, lei ha la faccia dell’avvocato e i modi improvvisamente più freddi.
Coccole, cenette, giretti, tanti vezzeggiativi descrivono bene questo secondo e ultimo incontro. Allora da viaggiatore e da cuore libero capisco davvero quello che voglio, è Lily che fa per me, con la sua passione e la sua allegria, Lily la ragazza del treno e di Machu Picchu. Telefono a Lima e le dico “Aquì en Arequipa con Claudia no hay quimica” e lei mi risponde “Aquì en Lima hay fiebre de quimica!”. Prendo il primo bus, un altro viaggio infinito e sbarco per la seconda volta nella capitale. Ma stavolta non c’è nessun programma turistico, rimango murato tre giorni dentro il quartiere residenziale di Miraflores dove Lily vive. Dove ti eri nascosta…?
Verso Nord
Ho un dovere e un appuntamento morale con Alessandro, il mio compagno di viaggio della Bolivia: procedere insieme verso la Cordillera Blanca, verso Trujillo e Iquitos, per poi arrivare in Ecuador. Scelta complicatissima, distacco emotivo enorme, saluto Lily, forse per sempre.
Sulla strada dunque, la Panamericana, stavolta verso nord. Il film del viaggio si riavvolge come un nastro, da qui eravamo partiti leggendo ad alta voce la frase di Einstein ricopiata sul diario “La cosa più bella che possiamo scoprire è il misterioso” e di misteri sulle Ande ne abbiamo accostati molti, le magiche linee di Nazca, il condor del Colca, il blu profondo del Titicaca, l’alba di Machu Picchu che vale più di ogni altra alba sulla terra.
Ora ci manca il terzo paese andino ma prima ci sono ancora montagne e deserti e giungle del Perù da scoprire, di questo magnifico Perù, così grande e così vario.

Un giorno a Huaraz
Una notte nera nera e un lungo viaggio ci porta verso le vette alte e pure della Cordillera Blanca, nel gelido dipartimento di Aancash. Huaraz, il suo capoluogo situato a 3.200 metri, non è una bella città, ha un’aria moderna e anonima, incompiuta, poiché ricostruita più volte dopo catastrofi naturali.
Ma Huaraz è la tappa preferita dai cosiddetti “andinistas”, gli amanti del trekking sulle Ande che arrivano qui da tutto il mondo. Siamo finiti nel cuore di un massiccio montuoso che ti para davanti ben 33 montagne sopra i 6.000 metri, ve lo immaginate…? Con le cime nascoste dalle nubi, con le nevi perenni, con la vista su paesaggi spettacolari.
Una leggenda locale racconta che le cime sono la bella Huascaran (coi suoi vertiginosi 6.768 metri la più alta del Perù, poco sotto i record dell’Himalaya) e i suoi numerosi figli, pietrificati dagli dèi dopo l’omicidio del marito adultero e del padre crudele. Un’altra che il padre della fanciulla la fece legare su un picco sul lato nord del monte al cospetto del suo amante legato sul lato sud, visto che non accettava la loro unione e la loro fuga. E che i due sfortunati innamorati rimasero per sempre lì, col loro pianto che creò le lagune di Llanganuco.

Il clima è freddo, secco, pungente, anche se il sole nelle ore centrali è molto caldo e ti abbronza tantissimo. Un turismo giovanile e sportivo crea un grande giro d’affari, infatti notiamo subito che l’economia di Huaraz è basata sulle agenzie che organizzano gite, scalate, percorsi avventura, sciate fuoripista, che noleggiano jeep, scarponi, muli, tende, portatori, corde e piccozze.
Prima di salire sulle montagne ci facciamo un giro in città, per ambientarci alle quote della Cordillera è un passatempo assolutamente necessario. Al mercato locale incrociamo lo sguardo di Jeanette, mora, piccola, carina. La aiutiamo a portare la spesa a casa e lei ci ricompensa con l’ospitalità in una pensione-locanda per minatori. Camera, zuppa e pollo col riso sono semplici ma va bene così e il budget è risparmiato per salire in alto. A dormire dopo un mate caldo e un paio di aspirine, perché a quote così alte il soroche, il mal d’altura, è sempre in agguato.
La laguna Paròn

Sveglia all’alba, colazione ricca di zuccheri, maglie pesanti, scarpe adatte, crema solare e burro di cacao spalmati a manate. Sul combi locale becchiamo più minatori e mercanti che turisti, vanno nelle piazze a srotolare le merci oppure scendono nelle viscere delle montagne. Ci sentiamo, ancora una volta, dei privilegiati. Prima tappa nel freddo villaggio di Caraz con le sue vie colorate di tessuti di lana, cappelli e ortaggi. Una foto alla chiesetta di mattoni, un assaggio di cuy, il piccolo maialino arrosto locale e di yuca, un tubero saporito. Sono appena le 10.30 ma servono energie per l’escursione.
Dopo un po’ di inutile d’attesa (sulle Ande è così, non si sa mai né dove né quando partano i bus) prendiamo al volo un passaggio su un camioncino e ci sistemiamo sul rimorchio insieme a degli scalatori di Nizza. La strada diventa subito sterrata, piena di buche, il mezzo guada torrenti e comincia a salire sulle montagne, attraversando comunità di campesinos, capanne di argilla, stalle, alcuni canyons, guardando in faccia le vette innevate e raggiungendo dopo tre ore di strada la Laguna Paròn, celeste e bellissima come sanno essere solo le lagune immortalate nei poster. Gli unici uomini che incontriamo sono i guardia-parco, gente che ha preferito la solitudine azzurra e bianca di laghi, monti e ghiacci allo smog, alla garua (la nebbiolina che sale dal Pacifico) e alle periferie di Lima. I francesi attraversano il lago su un gommoncino rattoppato, procedono in alto, noi ci incamminiamo per un sentiero più basso e panoramico, l’aria è pura, intorno solo silenzio.
Siamo lontani da tutto, dalle tipiche estati italiane con le loro mode e le loro canzoni, anche dalla finale dei mondiali di calcio. Ma non ci importa niente, quassù diventa buona anche una tazza di nescafè, a 5.000 metri ci sentiamo liberi e leggeri e vediamo le aquile! Certo… guardando le rocce pensiamo ai terremoti tremendi avvenuti da queste parti ma siccome siamo turisti discreti che non sventolano mazzi di dollari, che non fanno costruire grandi hotel, che si confrontano con altri popoli rispettandoli, qualche Apu delle montagne ci proteggerà e non accadrà un bel niente!

Incontri
La discesa dalla laguna presenta invece un piccolo inconveniente: presi a bordo insieme a degli americani con giacche a vento vistose e fiammanti ci becchiamo una sassata sul bordo del pulmino, è evidente che gli indios non gradiscono l’ostentazione…
Sul combi di ritorno a Huaraz mi innamoro letteralmente di una signora gelosissima della sua bombetta, quanto rideva, quanto parlava, quanto era orgogliosa del suo popolo capace di costruire pietre dai 12 angoli, lunghe strade da Quito a Cuzco, città magiche nella selva, linee per lo studio degli astri o chissà se degli alieni: “Noi Inca abbiamo fatto tutte queste cose”.
Mentre a cena un peruviano minatore si avvicina per raccontarci le sue verità: per lui i “cattivi” hanno il sangue avido dei conquistadores spagnoli nelle vene, i guerriglieri di Sendero Luminoso hanno sbagliato tanto ma hanno difeso gli ultimi, i vari presidenti, specie Fujimori, hanno venduto l’anima del Perù agli stranieri, i minatori come lui con un salario di 400 dollari al mese non potranno mai fare i nostri viaggi, intorno alle Ande c’è come un grande recinto, una morsa oscura e inspiegabile, la stessa metafora che ricordo di aver letto in “Rulli di tamburo per Rancas”. Mentre gli offriamo un’acquavite locale, mi torna in mente il verso di Francesco De Gregori: “Tu da che parti stai? Stai dalla parte di chi ruba nei supermercati? O di chi li ha costruiti rubando?”.

Rispetto per Yungay
Quando passi per Yungay ci vuole rispetto, rispetto e silenzio.
Nel 1970 la natura, il destino, qualche dio delle Ande, ha deciso che questo dovesse essere il luogo per una tragedia immane: un terremoto violentissimo, con distaccamento di ghiacciai e valanghe dalla montagna maledetta, si è inghiottito tutto, interi pezzi dello Huascaran sono caduti a valle, interi villaggi sono andati distrutti, 80.000 i morti (!!) e a Yungay non rimase neppure una gallina, una casa. Un lutto eterno. Oggi l’area è ancora del tutto brulla e desolata. C’è un camposanto. Baracche chiuse da anni. Cani spelacchiati in giro, un paio di maiali che grufolano vicino al torrente. E poi tante rose messe da qualcuno, rose rosse, gialle, bianche, a segnare il ricordo degli abitanti? Il vecchio perimetro del villaggio? Là la Plaza de Armas, qua la Cattedrale? Sono rimaste solo le rose e il vento a Yungay.
Paga Gringo!
Le lagune di Llanganuco sono molto belle, forse più dolci rispetto all’aspetto selvaggio della laguna Paròn. Sono due laghi di smeraldo divisi da una sottile striscia di terra e racchiusi tra pareti rocciose e cime perennemente innevate. Sono Parco Nazionale e i peruviani salgono a tali altezze per respirare aria pura, fare passeggiate, pic-nic tra i ciuffi di erba gialla e giri in barca.

All’entrata della Riserva un americano fa perdere mezz’ora all’intero gruppo per una assurda lite con le guardie forestali dovuta al pagamento di una tassa da 25 dollari per il permesso di campeggio libero e trekking. Lui che pagherebbe subito per visitare Yosemite, la Foresta Nera o il Monte Bianco non ne voleva sapere, certi arrivano fino a qui pensando che il Perù sia il paese dei balocchi.
“Paga gringo” – ci siamo scoperti improvvisamente cattivi.
La Puya Raimondi e il Nevado Pastoruri
L’ultima escursione nella Cordillera Blanca ci vede ostaggi di un pappagallo latino-americano che sciorina cifre, altezze di montagne, cognizioni geografiche di un certo livello. Però Eduardo è preparato, sa molte cose e ascoltandolo scopriamo che: il nome Ande significa montagne del rame; il nome Perù deriva da Piru, il fiume panamense al sud del quale c’era l’Eldorado, la frontiera dei sogni, la terra da conquistare; nel ’70 una valanga seppellì al campeggio libero di Llanganuco la prima e ultima spedizione cecoslovacca in Perù; il terribile terremoto di quell’anno portò anche effetti, diciamo così, positivi, perché spaccò la valle e permise la costruzione di strade, mercati, paesi, università e la crescita dell’industria turistica.
La gita di oggi comprende guadi di fiumi, vista di ghiacciai che scintillano al sole, di piccoli geyser, sosta in villaggi tipo Far West, il passaggio per la puna, la steppa d’alta quota, chilometri percorsi in assoluto silenzio e la scoperta finale della Puya Raimondi, abitata da strani alberi con grossi fiori spinosi simili a cactus, trovati da un naturalista italiano. Sembrano cipressi, cipressi andini e hanno uno strano destino: fioriscono dopo 100 anni dalla nascita e subito muoiono, consegnando l’anima vegetale alla neve.
Più su, dove pochi osano il cammino, il Nevado Pastoruri, dove mastico le foglie di coca per sopportare meglio il mal d’altura e dove accarezzo a lungo il pelo soffice di due lama condotti al pascolo da due fratellini usciti da chissà dove, a rappresentare coi loro maglioni e berretti colorati le uniche macchie di colore dell’altopiano gelato. Uno di loro comincia a cantare in quechua. E i metri sono 5.100.

Lo sforzo è incredibile, muoversi, respirare anche, costa molto, alla testa e al fisico. I contorni delle cose sono nitidi, il ritmo personale è lento, le sensazioni strane, quasi ovattate, ma una cosa è certa: il panorama è semplicemente meraviglioso e alterna vette altissime, grotte di ghiaccio, laghetti trasparenti, sentieri percorsi solo da indios e cavalli. Eh sì, per evitare l’ultima scalata ai turisti europei e ai borghesi di Lima, un pugno di uomini vivono con la pelle spaccata dal vento in questo mondo alto e puro, caricano i turisti sulle bestie e li portano fino al Nevado. Fanno turni di 15 giorni, si riposano in povere capanne e la loro alimentazione prevede zuppe bollenti, carne secca e mate di coca. Parlano pochissimo e ti guardano da due fessure dietro le pesanti sciarpe. Uomini incredibili, forti e pazienti, che sono una cosa sola con la natura di fredde montagne che li circonda, che hanno il torace più largo per poter respirare a queste quote.
A Pastoruri si capiscono definitivamente le Ande e il loro figli.

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